Israele al bivio L ’esperienza dimostra che pressioni, prediche e appelli, peraltro assi blandi durante questi due anni di guerra, non hanno spostato di un centimetro la volontà del governo israeliano di far fare a Gaza la fine di Cartagine
Netanyahu in tv con una mappa che cancella la Cisgiordania palestinese – Ap
Sull’orrore e i massacri di cui l’Idf e le bande armate dei coloni si sono resi responsabili a Gaza e in Cisgiordania non c’è più molto da aggiungere a quanto è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Neanche i più stretti alleati di Israele, come la Germania, riescono più a giustificare una conduzione della guerra come quella praticata dal governo Netanyahu e dai suoi generali, né ravvisare più alcuna relazione proporzionata alla sanguinosa aggressione subita il 7 ottobre. Tanto che si inizia a parlare di eventuale sospensione delle forniture militari tedesche a Israele. Ma intanto il tardivo coro che invoca una tregua e chiede al premier israeliano di fermarsi si infoltisce, mentre numerosi paesi europei sostengono la necessità di rivedere gli accordi tra Israele e Ue.
Tuttavia l’esperienza dimostra che pressioni, prediche e appelli, peraltro assi blandi durante questi due anni di guerra, non hanno spostato di un centimetro la volontà del governo israeliano di far fare a Gaza la fine di Cartagine e alla Cisgiordania quella del far west americano a spese degli indiani.
Allora una semplice domanda si impone: Netanyahu e il suo governo, tenuto in piedi da fanatici estremisti di destra, possono essere fermati? La risposta è inequivocabilmente no. Ce lo hanno fatto capire in tutti i modi a partire da quando hanno dichiarato le Nazioni unite un covo di antisemiti, fino a quando Netanyahu ha minacciato di annettere la Cisgiordania se i paesi europei avessero riconosciuto lo stato palestinese.
E ieri il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, è stato esplicito e duro come non mai: in visita a un avamposto di coloni ebrei nel nord della Cisgiordania, ha annunciato l’intenzione di «costruire lo Stato ebraico israeliano» su quel territorio palestinese; «è un messaggio chiaro» al presidente francese «Macron e ai suoi amici: riconosceranno uno Stato palestinese sulla carta, noi costruiremo qui lo Stato ebraico israeliano sul campo», ha detto Katz.
Che qualcuno possa ancora sperare nella soluzione dei due popoli e dei due stati è oramai un incredibile atto di fede o una nenia consolatoria. Così come credere che il governo di Tel Aviv possa desistere dalla conquista di Gaza, dalla deportazione della popolazione palestinese e dalla colonizzazione definitiva della Cisgiordania solo per evitare quella riprovazione del mondo di cui ostentatamente se ne infischia. Perché Netanyahu e i fascisti religiosi che lo sostengono non fanno la guerra, ma la incarnano. Questo e nessun altro è il loro orizzonte esistenziale, la loro assicurazione sul potere e sull’impunità.
Dunque Netanyahu non può essere fermato, ma potrebbe solo cadere. Non è insomma immaginabile né la pace in Medio oriente né la sicurezza e la prosperità dello stato di Israele con questi protagonisti politici. O qualcuno è in grado di immaginare uno stato di diritto democratico e inclusivo, rispettoso dei diritti umani e del diritto internazionale governato dagli Smotrich e dai Ben Gvir? Da invasati che farneticano della supremazia del “popolo eletto”?
Non è ovviamente facile che il governo bellicista israeliano cada, mentre l’altro fanatico protagonista di questa storia, cioè Hamas, sembra invece prossimo alla disfatta. Tel Aviv può contare su un alleato storico come gli Usa, oggi rappresentati da Trump, un cinico che dello stato di diritto si fa beffe, nonché di possibili interlocutori arabi come l’Arabia saudita che sono agli antipodi di qualunque idea di democrazia.
Inoltre, nonostante tutta la corruzione, l’inefficienza e la ferocia dimostrate, la destra israeliana gode di un consenso non indifferente, incattivito, incline al razzismo e alla pulizia etnica, inebriato dal mito della propria superiorità. Ce ne danno testimonianza quotidiana le bande dei coloni armati dediti a uccidere e incendiare coltivazioni e villaggi e infine i giovani squadristi che hanno seminato il terrore tra i commercianti arabi della città vecchia di Gerusalemme con aggressioni minacce e slogan truculenti. Un segnale di pericolo evidente ed estremo.
Chi ha veramente a cuore la sicurezza di Israele, il senso storico della sua esistenza, le promesse e le aspirazioni che lo hanno attraversato, lo spessore della sua cultura e delle esperienze che vi sono confluite, non può che avversare un governo che ha tacitato tutto e tutti in nome di una guerra senza quartiere e condotto il paese a un crescente isolamento internazionale, che ha adottato il linguaggio del ricatto e della più cinica disumanità e condotto una raccapricciante campagna di sterminio.
Dunque Netanyahu non si può fermare e non si fermerà. Porre fine alla guerra significherebbe porre fine al suo governo e al suo potere attraverso una materiale e radicale sottrazione di sostegno interno ed esterno. A questo dovrebbero applicarsi i governi che si dicono amici di Israele e le opinioni pubbliche che hanno a cuore i diritti dei palestinesi come quelli degli israeliani.
Ma le cose non stanno purtroppo così. Poiché in gran parte d’Europa, per non parlare degli Stati uniti, il nazionalismo aggressivo, l’islamofobia e il suprematismo bianco, (in paradossale compagnia dell’antisemitismo più autentico), sono in piena espansione e in sintonia con la teoria e la pratica dell’attuale governo israeliano, difficilmente quest’ultimo potrà essere preso seriamente di mira. E dunque la guerra non si fermerà né dismetterà le forme spietate in cui si è espressa fino ad ora. E che ad ogni occasione Netanyahu e i suoi sostenitori orgogliosamente rivendicano. Ad oggi il limite di questo orrore non si vede, ma non possiamo accettare l’idea che non esista né smettere di denunciare le molte complicità che lo differiscono o lo nascondono.