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Congresso Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono

Rifondazione e la trappola del maggioritario

 

Fuori dai radar mediatici, si sta svolgendo in queste settimane il congresso di Rifondazione comunista. E meritano attenzione i termini del duro scontro in atto, non solo per le sorti del partito, ma anche per le implicazioni più generali che suggeriscono.

«Il congresso più difficile della nostra storia, in cui è in gioco l’esistenza stessa di Rifondazione comunista», si legge in apertura del documento firmato dal segretario uscente, Maurizio Acerbo; altrettanto severi i toni del documento alternativo, firmato tra gli altri da Paolo Ferrero: «Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza», dovuta «innanzitutto all’attuale assenza di una prospettiva politica chiara, di un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi».

Ora, lasciando da parte gli aspetti retrospettivi, su cui i documenti si soffermano con ricostruzioni divergenti del passato, si può individuare la linea discriminante della discussione: il rapporto tra identità e autonomia del partito, da un lato, e le possibili alleanze politiche, dall’altro.

Da una parte (tesi Acerbo) si denuncia come, nell’altro documento, il rilancio del Prc sia prospettato solo «in un ripiegamento settario, nel rifiuto pregiudiziale di ogni possibile alleanza» e «nell’isolamento identitario»; e si oppone a ciò, una «riscoperta del ruolo della politica, condizione indispensabile per superare, in ogni situazione, le condizioni dello stato presente e fare muovere le cose in avanti».

Nell’altro documento, si sostiene invece che, qualsiasi strategia di alleanze debba essere subordinata alla «modifica dei rapporti di forza dentro le opposizioni», e si assume come esempio il caso francese di Mélenchon che, «da oltre un decennio», ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, «rifiutando ad ogni livello accordi con il partito socialista», e che «solo dopo aver ribaltato i rapporti di forza elettorali con il partito socialista nelle elezioni presidenziali», ha poi proposto e costruito l’unità della sinistra.

Naturalmente, non spetta a chi scrive schierarsi per una o l’altra di queste tesi. Sono possibili però alcune considerazioni di ordine più generale, a partire da una domanda: è possibile uscire dalla gabbia concettuale secondo cui «le alleanze» sono la cartina di tornasole, il metro di misura, della propria identità? Per dirla, in termini più spicci, è proprio vero che, in politica, si possa applicare il detto «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei?».

Quando si ha una propria identità politica, forte di una propria autonomia culturale, non si teme la contaminazione, la questione delle alleanze perde il suo carattere pregiudiziale, e si apre la via ad una prassi di possibili mediazioni sul piano programmatico. Nessuno, ovviamente, può sostenere alleanze apertamente contraddittorie con il proprio profilo, ma si può e si deve distinguere tra le finalità generali che una forza politica si propone e i passaggi a breve e medio termine che possono essere compiuti. Non regge una visione esclusivista delle proprie «verità»: nell’ambito delle forze democratiche e di sinistra vi è un pluralismo costitutivo di idee e nessuno può ergersi a portatore della linea «giusta».

Ma c’è anche un secondo elemento, specifico della situazione italiana: giustamente, nei documenti citati, si denuncia la logica perversa del maggioritario che domina da anni nella politica del nostro paese. Il paradosso, tuttavia, è che si rimane subalterni a questa logica quando il tema delle alleanze viene ad assumere un’indebita centralità, e soprattutto quando si ignora la necessaria distinzione tra il piano degli accordi elettorali e il piano delle alleanze politico-programmatiche e della proposta di governo. Specie in presenza di un sistema elettorale come quello oggi vigente in Italia, è possibile, – e credo sarà doveroso – sfruttarne i meccanismi e realizzare forme di coordinamento tra il più ampio possibile arco di forze democratiche. Accordi che puntino a neutralizzare proprio gli effetti distorsivi del maggioritario. Con un obiettivo politico, che molti tendono colpevolmente a sottovalutare: impedire quanto meno che, come nel 2022, la destra – capace sempre di compattarsi – ottenga una super-maggioranza in grado, come i fatti stanno dimostrando, di mettere ulteriormente a repentaglio i fondamenti costituzionali della nostra democrazia; e, perché no, provare anche a determinare nuovi rapporti di forza in parlamento. Vi pare poco?

Attorno a questo obiettivo possono convergere forze molto diverse: da quelle che si pongono un orizzonte rivoluzionario a quelle che vogliono difendere i principi del costituzionalismo liberal-democratico. E se si ritiene, come alcuni sostengono con buone ragioni, che sia necessario anche il «centro», perché mai le forze della sinistra radicale dovrebbe essere escluse, o auto-escludersi, o che non possano finalmente provare ad avere una propria rappresentanza parlamentare?
Ho l’impressione che tra gli elettori di sinistra ci sia una certa stanchezza e ritrosia ad intraprendere l’ennesima «traversata nel deserto»; nel deserto, si sa, si incontrano poche oasi e molti miraggi.

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L’inverno di Kiev Pesa l’effetto Trump. Il presidente ucraino di fatto accetta la divisione (forse per molti anni) del Paese che è esausto: son più di 100mila i soldati ucraini incriminati per diserzione

I militari ucraini in una trincea in prima linea, vicino a Bakhmut, regione di Donetsk foto Efrem Lukatsky/Ap I militari ucraini in una trincea in prima linea, vicino a Bakhmut, regione di Donetsk foto Efrem Lukatsky/Ap

Come c’erano una volta due Germanie, ci saranno due Ucraine. Zelenski riconosce ora quello che la gran parte dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, pensa da tempo: l’esercito ucraino non ha i mezzi militari né gli uomini necessari per riconquistare la Crimea e il Donbass. E non li ha mai avuti già dal 2014.

Quando la Russia, con i ribelli filorussi – e anni di guerra civile -, occupò quei territori. Era solo la metà dell’ottobre scorso quando Zelenski presentava il suo «piano per la vittoria», adesso ha ammesso, in videoconferenza con i lettori del quotidiano Le Parisien, che l’Ucraina «non ha la forza di riconquistare la Crimea e il Donbass, de facto – ha dichiarato – questi territori sono controllati dai russi. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin al tavolo dei negoziati».

GLI UCRAINI DEVONO dunque prepararsi a cedere almeno una parte di quel 20% conquistato con la forza dai russi, questo è il messaggio. Zelenski ne ha preso atto, anche se poi bisognerà capire che cosa si debba intendere per “Donbass”, se tutto il territorio occupato tra il 2022 e il 2024 o solo i distretti di Donetsk e Lugansk controllati da Mosca fin dal 2014. Ma di fatto il presidente ucraino accetta che il Paese sarà diviso in due parti per alcuni anni (forse per molti anni) con una formula transitoria, almeno finché al potere a Mosca ci sarà questo regime. Con l’elezione di Trump, Kiev ha capito che rischiava di essere abbandonata al suo destino, come dimostrava il tweet volgare con cui il figlio del presidente eletto statunitense paragonava gli aiuti a un paese aggredito a una «paghetta» per Zelensky.

ORMAI SONO cambiati i termini della questione ucraina. Dopo gli annunci roboanti, sotto l’effetto Trump siamo passati dalla questione dei territori a quella della sicurezza. L’Ucraina aveva posto il ripristino della sovranità piena come condizione imprescindibile per mettere fine alla guerra ma il rapporto di forze sul campo, diventato sempre più favorevole alla Russia che continua a bombardare a tutto spiano anche i civili, ha reso questa ipotesi di fatto impossibile, sicuramente molto lontana e costosa in termini di vite umane e di sostegno economico occidentale. Oggi l’Ucraina sa che dovrà sacrificare i territori conquistati dalla Russia in attesa di giorni migliori, in uno scenario che ricorda appunto le due Germanie (separate per decenni ma che alla fine si sono riunite).

L’UCRAINA, in cambio dei sacrifici territoriali, chiede reali garanzie di sicurezza, in modo da assicurarsi che il conflitto non riprenda non appena l’Occidente volterà le spalle. Quali potrebbero essere queste garanzie? L’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe la garanzia suprema, grazie all’articolo 5 che prevede la solidarietà automatica in caso di aggressione. Ma Putin non lo accetterà mai e Trump è della stessa opinione. Si sta discutendo quindi un’altra opzione: lo schieramento in Ucraina di truppe dei paesi Nato che agiscano indipendentemente e offrano una garanzia concreta di difesa della sovranità del paese, oppure quella di truppe europee ma sotto l’egida delle Nazioni unite.Il fatto che i leader europei ne parlino è già un passo avanti ma non a tutti piacciono questi discorsi. Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha affermato che «concentrarsi sui negoziati di pace aiuta la Russia».

A RUTTE, CHE DEVE essere uno stratega da divano, deve essere sfuggito qualche passaggio, dall’arrivo alla Casa bianca di un presidente che si è vantato di poter risolvere la guerra in Ucraina nell’arco di 24 ore, ma soprattutto che l’Ucraina è un Paese esausto. Nei primi 10 mesi di quest’anno hanno disertato più soldati ucraini che nei due anni precedenti di guerra, il che evidenzia la difficoltà di Kiev nel ricostituire la prima linea mentre la Russia conquista sempre più territorio nell’Ucraina orientale: più di 100mila soldati sono stati incriminati in base alle leggi sulla diserzione in Ucraina dall’invasione della Russia nel 2022, secondo i dati del procuratore generale di Kiev. Anche i russi sono stanchi di guerra e la crisi economica morde ma Putin conta sui mercenari e persino sulle truppe nordcoreane.

RUTTE, CHE IERI era a cena con Zelesnki a Bruxellex dove si svolgeva un vertice ristretto sull’Ucraina, continua a insistere che bisogna prepararsi alla guerra, all’aumento delle spese militari anche a costo di tagliare le spese per il welfare: ma forse dal presidente ucraino questa volta sentirà una musica un pò diversa. Perché lo stesso Zelesnki non appare più tanto saldo in sella. L’attentato che ha eliminato a Mosca il generale Kirillov rivendicato dall’Sbu, i servizi di sicurezza ucraini, significa che l’Ucraina vuole portare la guerra nel cuore della società russa, in modo che anche la popolazione russa ne subisca gli effetti in un momento in cui le città sono bombardate quotidianamente da Mosca. Ma mentre si attende la rappresaglia di Mosca – che ha arrestato per l’assassinio un giovane uzbeko – Zelenski ha già alzato la posta: ora dovrà far accettare l’esistenza di due Ucraine, un cambio di rotta vertiginoso che può costargli caro.

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L'analisi Assad si è portato via le casse dello Stato, mentre Israele sta disintegrando tutto l’apparato militare e si allarga nel Golan; a nord Erdogan occupa due cantoni e apre la caccia ai curdi

Il potere è una scatola vuota per Al Julani Damasco, un poster sfigurato dell’ex dittatore Assad – Hussein Malla/Ap

Il crollo del regime di Assad e i raid di Israele consegnano al nuovo padroncino di Damasco, il jihadista Al Julani, un scatola vuota sulla quale è scritto «Ex Siria».
Bashar al Assad che si è fatto vivo da Mosca dando la sua versione della storia – «sono i russi che mi hanno chiesto di andarmene» – si è portato via la cassa.

Le riserve della banca centrale, due tonnellate di banconote e 250 milioni di dollari erano già stati trasferiti in passato in Russia, la sua cerchia di potere aveva acquistato un quartiere della capitale russa dove trasferirsi con i proventi delle rapine a danno del popolo siriano, del contrabbando e del traffico di droga.
L’apparato bellico delle forze armate siriane non esiste più. In questi giorni con centinaia di bombardamenti israeliani è stato disintegrato all’80 per cento, dalla marina all’aviazione, alle fabbriche belliche.

La nuova Siria per decenni non potrà ricostruire una capacità militare difensiva significativa, il che vuol dire che è attaccabile in qualunque momento e farà fatica a controllare un territorio dove le milizie abbondano. Pure l’Isis, a Est nel mirino degli americani, i quali dovrebbero proteggere i loro alleati curdi, lasciati al solito, al loro destino. Con l’occupazione del Golan le truppe israeliane sono a qualche decina di chilometri da Damasco: in pratica Al Julani, che ha flebilmente protestato con Tel Aviv, è letteralmente sotto il tiro della tecnologia bellica israeliana, come ha dimostrato la guerra in Libano attuata anche con l’eliminazione della dirigenza Hezbollah. Non gli conviene neppure nascondersi, è quasi un ostaggio.

L’INCONTRO a Damasco tra Al Julani e l’inviato speciale delle Nazioni unite Geir Pedersen ha avuto risvolti quasi comici se di mezzo non ci fosse la tragedia di un popolo. Pedersen ha ribadito l’importanza di una transizione politica credibile e inclusiva, dichiarando: «La transizione deve essere guidata dai siriani e rispettare la sovranità e l’integrità del Paese». Ma certo, come no. Se Israele si è impadronita del Sud nel Golan e dei collegamenti con il Libano, a Nord Ankara, che occupa direttamente due cantoni siriani, ha scatenato le milizie filo-turche contro i curdi e il Pkk, che ora chiedono di trattare con Damasco.

DI QUALE «integrità» della Siria parla Pedersen? Il governo israeliano ha approvato un piano per raddoppiare la popolazione nella parte del Golan siriano occupata da Israele, ma afferma di non essere interessato a entrare in conflitto con la Siria, avendo preso ormai il controllo della zona cuscinetto monitorata dell’Onu. Israele ha conquistato parte delle alture del Golan durante la guerra arabo-israeliana del 1967, prima di annettere il territorio nel 1981. E gli Stati uniti, sotto l’amministrazione di Donald Trump, hanno riconosciuto questa annessione nel 2019, in violazione delle risoluzioni Onu. Tra un po’, con Trump alla Casa Bianca, Netanyahu e il suo governo di estremisti di destra sperano che gli Usa riconoscano l’annessione di tutto il Golan e delle colonie in Cisgiordania.

Si intravede già il solito giochetto coloniale israeliano del divide et impera. Nelle 34 località delle alture del Golan annesse da Israele vivono circa 30mila cittadini israeliani, oltre a 23mila drusi, una comunità che per la maggior parte si dichiara siriana ma ha lo status di residente in Israele. Ora qualche comunità drusa nella parte del Golan siriano appena occupato ha già chiesto di essere annessa a Israele. Tra pressioni esterne e forze centrifughe interne l’integrità territoriale della Siria appare grandemente sotto pressione.

Il terreno è già pronto. L’amministrazione Biden ha subito avallato la narrativa secondo la quale l’occupazione del Golan e i raid israeliani sono «misure preventive di legittima difesa» contro potenziali minacce provenienti dalla Siria. Insomma Israele può invadere tutto i territori che gli pare dei Paesi confinanti: la questione del doppio standard attuato sistematicamente dagli americani è diventata imbarazzante.

A meno che non rientri in una strategia più ampia, evocata tra sussurri e grida nei corridoi diplomatici, ovvero che se la Russia si è messa d’accordo per liberare la Siria da Assad – e ora tratta con Al Julani sulle basi russe – può anche negoziare sull’Ucraina. E anche questa volta la Russia, come spesso accade, non ha niente da dire. sull’occupazione israeliana del Golan. Forse non è un caso.

MAL DI LÀ delle questioni politiche e militari in Siria è in corso, certo non da oggi, una tragedia umanitaria. La metà del patrimonio abitativo è distrutto o inagibile, rendendo complicato anche il ritorno dei profughi, il 90% dei siriani vive sotto la soglia di povertà. Al Julani ha un bilancio statale stimato dal Financial Times in meno di 100 milioni di dollari: per fare un confronto Israele ha annunciato che nel raddoppio dei residenti nel Golan investirà circa 10 milioni di dollari, un decimo di quanto ha in mano il capo jihadista per gestire tutto il Paese. È evidente che i soldi della Turchia non basteranno e quindi si aprirà la corsa ai fondi delle monarchie del Golfo, in gran parte già aderenti al Patto di Abramo.

Il vuoto lasciato dalla caduta del regime di Assad pone interrogativi cruciali sulla sicurezza regionale e sulle dinamiche geopolitiche immediate e future. Ma è già chiaro che indebolita e stremata la Siria oggi lotta ancora per la sopravvivenza.

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Principi e convivenza Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza», contro il quale oggi si scende in piazza a Roma, è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana

Dove punta l’attacco della destra

 

Obbedire, dalle strade alle scuole alle galere. Non solidarizzare, con i migranti o con chi non ha un tetto e occupa una casa vuota. Non protestare, neanche con il proprio corpo perché è considerato un’arma se lo porta in giro chi dissente. Arma terribile, non come le pistole di ogni misura che le forze di polizia potranno d’ora in avanti raddoppiare per non restare mai senza, neanche quando litigano con il marito, la moglie o il vicino.

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Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza», contro il quale oggi si scende in piazza a Roma, è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana. Ed è un biglietto da visita per questa maggioranza di governo che nella continua rincorsa alle posizioni più reazionarie ha finito con il portare in parlamento un provvedimento da stato di guerra. Guerra ai poveri, ai migranti, alle minoranze.

Non c’era bisogno che il sottosegretario alla ferocia si dichiarasse un orgoglioso liberticida perché il disegno apparisse chiaro. Come chiaro è l’eterno tentativo di reagire ai bisogni sociali che non si riescono – non si vogliono – ascoltare, con la repressione e il codice penale. Reagendo anche alle proprie difficoltà. Da qualche tempo infatti, dai Tar ai tribunali ordinari, dalla Cassazione alla Corte costituzionale, il governo va incontro a ripetute e pesanti bocciature giudiziarie quando impone i suoi diktat.

Ognuna di queste bocciature – dalla pretesa di impedire gli scioperi all’abitudine di distribuire fogli di via agli attivisti, dai respingimenti e deportazioni dei migranti alla volontà di ignorare il diritto costituzionale e il diritto europeo, si tratti di concedere asilo o di spaccare il paese tra regioni ricche e regioni povere – dovrebbe provocare imbarazzo, autocritiche, marce indietro. Invece produce altri attacchi alle giurisdizioni e il rilancio imperterrito di ogni provvedimento contrario alla legge. E tutto questo disprezzo, tutta questa arroganza costituita non preoccupa affatto le stesse persone che appena uno studente alza la voce per una contestazione si indignano e sono pronte a battersi per le libertà, dei ministri o di qualche altra autorità.

Ci si chiede, anche con preoccupazione, come mai siano sempre più i giudici e le giudici a mettersi di traverso lungo il cammino del governo. Se questa non sia la coda di una lunga stagione di supplenza giudiziaria, se c’entri almeno un po’ la famosa «esondazione» delle toghe dai loro ambiti di cui parla Nordio.

Ogni prudenza è legittima visti i disastrosi esiti dell’opposizione giudiziaria in passato, non solo in Italia, e conoscendo i magistrati al di là della caricatura interessata che ne fa il governo. Ma probabilmente bisogna cercare una motivazione più profonda per capire perché i diversi provvedimenti del governo, diversi anche negli ambiti, finiscano regolarmente per impattare contro il muro delle sentenze. Bisogna cercarla nella portata della sfida in atto.

Il governo Meloni sta puntando al cuore dello stato di diritto, provando ad abbattere uno a uno i principi fondamentali che necessariamente trovano (ancora) una tutela nelle leggi e soprattutto nelle leggi superiori.
Tanto alta è la posta in gioco. Ed è quasi tutta riassunta in un solo disegno di legge, battezzato «sicurezza» senza troppo sbagliare, se la si vuole intendere come sicurezza del governo e delle polizie, non dei cittadini.

L’ampiezza della mobilitazione che abbiamo visto in campo in queste settimane e che aspettiamo oggi a Roma, la larghezza del fronte – politico e sociale, non giudiziario – che vuole fermare il disegno di legge, dice quantomeno che la minaccia è avvertita ben chiara. E che si può provare a resisterle.

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La nuova sfida Non si tratta più solo di abrogare una brutta legge, ma di affermare in positivo un regionalismo che sia costituzionalmente orientato

La consegna delle firme sul referendum per l'abrogazione della legge sull'autonomia differenziata - LaPresse

Dopo le decisioni della Corte costituzionale e dell’Ufficio centrale per i referendum, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Non si tratta più solo di abrogare una brutta legge, ma di affermare in positivo un regionalismo che sia costituzionalmente orientato. Questo ora è scritto in una sentenza della Consulta e la Cassazione ha aperto le porte al definitivo smantellamento della normativa vigente. Dai giudici non ci si può aspettare di più, tocca al popolo della Costituzione far valere le sue ragioni.

Prima di lanciarci nella campagna per l’abrogazione totale della legge 86 del 2024 aspettiamo fiduciosi di superare l’ultimo ostacolo – il sindacato sull’ammissibilità che verrà svolto sempre dalla Consulta a fine gennaio – ma vale la pena cominciare a riflettere su come affrontare la battaglia decisiva.

Come riuscire a convincere 25 milioni di cittadini a schierarsi dalla parte giusta, dalla parte della Costituzione e della sua attuazione. In molti, giustamente, chiedono al governo di fermarsi, forse però dovremmo pensare anche a rilanciare.

Spetta ai soggetti che hanno sostenuto il referendum, e a tutti coloro che hanno già ottenuto questi grandi e non scontati risultati, indicare la rotta del cambiamento. Ripartendo magari dalle chiare indicazioni della Consulta. Un regionalismo – è scritto nella sentenza – che per essere in armonia con il complesso della forma di Stato italiana deve reggersi sui principi di solidarietà, eguaglianza, garanzia dei diritti fondamentali e preservare l’unità della Repubblica.

L’opposto rispetto alla prospettiva di un regionalismo fondato sui principi di appropriazione e differenziazione, che ha mosso i “governatori” ad autoproclamarsi rappresentanti di un inesistente «popolo regionale» separato dal resto del territorio nazionale e a chiedere tutte le materie possibili, sottraendo le risorse al resto della Nazione.

La strada alternativa dunque c’è e deve essere ora percorsa con coraggio e fantasia, è nostra responsabilità esplorarla. Alla Corte costituzionale spetta infatti richiamare i principi e porre dei limiti insuperabili, ma non può certo essere un giudice a scrivere le leggi, neppure a definire i rapporti tra Stato e regioni, né le modalità in concreto della tutela dei diritti su tutto il territorio nazionale. Spetta alla politica, che opera entro i limiti della Costituzione, dare attuazione ad un regionalismo solidale.

D’altronde, a ben vedere, neppure l’auspicata vittoria al referendum – se mai ci sarà – e l’abrogazione per intero della legge Calderoli ci esimerebbe dal proporre un altro regionalismo: perché non iniziare sin d’ora? Vero è che la pronuncia popolare assicurerebbe una forza politica e una legittimazione straordinaria, frutto del “plusvalore” democratico del referendum.

Diciamo così: il consenso popolare – se ci sarà – ci porrà in una situazione di vantaggio e potrà sbarrare la strada a chi ancora prova a oscurare il passaggio di fase sancito dalla decisione del nostro garante della Costituzione (le dichiarazioni del ministro per gli affari regionali e del presidente della regione Veneto tendono a ribaltare il significato di quanto deciso della Consulta e sono francamente al limite del vilipendio all’autorevolezza della Corte), ma non sarà neppure esso definitivo. Un referendum abrogativo vittorioso può cancellare totalmente la legge e assicurare una forza politica e una legittimazione straordinaria, ma non può fare nulla in positivo. E allora perché non anticipare questo passaggio per mostrare sin d’ora qual è il nostro orizzonte e assumerci le nostre responsabilità? Una campagna referendaria tutta all’attacco, in nome della solidarietà regionale e non solo contro l’illegittimo egoismo appropriativo.

È il modo migliore per chiedere il voto, non solo per dare un colpo definitivo a un regionalismo moribondo, ma per iniziare a guardare a un altro regionalismo possibile. Magari convincendo i più che vale la pena andare a votare. Si tratta di

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Non solo kurdi Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala

Una rivoluzione confederale da salvare Curdi siriani partecipano ai funerali delle persone uccise negli attacchi aerei turchi. Novembre 2022 – Ap

Nel corso della guerra si sono sviluppate in Siria due realtà diverse e opposte: l’insurrezione teocratica, promossa dalle formazioni islamiste che hanno schiacciato la gioventù democratica presente nelle prime rivolte, e la rivoluzione confederale giunta dal Rojava, che ha costruito istituzioni politiche, economiche e di genere di carattere radicalmente trasformativo. La rivoluzione confederale non va tuttavia confusa con i curdi, che sono soltanto una sua componente. La maggior parte dei combattenti delle Forze siriane democratiche (Sdf) è araba, così come gran parte del personale dell’Amministrazione autonoma del nord-est (Daa).

La Daa è attaccata dalla fazione teocratica che da anni ha imposto un “governo ad interim” animato dalla Fratellanza musulmana lungo il confine nord-occidentale, e sulle cui milizie la Turchia ha il diretto controllo. Con il collasso dello stato siriano le Sdf hanno allargato la loro presenza in ampi territori delle regioni di Tabqa, Raqqa e Deir el-Zor, ma si sono viste sottrarre da queste forze l’area di Sheeba e Manbij. Nel resto della Siria si sono posizionati, oltre a Tahrir al-Sham, forze arabe e druse provenienti da sud, la cui composizione politica è contraddittoria.

Le Sfd non hanno equipaggiamenti sufficienti per resistere a lungo alla Turchia. Per questa ragione avevano trovato nel tempo una deterrenza in accordi diplomatici con la Russia, le cui forze d’interposizione erano presenti nella parte occidentale della Daa ma si sono ritirate; e con gli Usa nella parte orientale, da dove potrebbero ritirarsi non appena Trump salirà al potere. Lo status quo su cui si reggeva (difficilmente) la Daa, colpita costantemente, dal 2019, da bombardamenti turchi, è quindi in gran parte superato. Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala.

La Daa non può che cercare, come sta facendo, la carta del dialogo interno, a partire dalle differenze tra i nuovi attori politici. Tahrir al-Sham ha imposto i suoi pieni poteri a Damasco, escludendo tutte le altre forze dal nuovo Governo di transizione, che ripropone plasticamente la composizione del Governo di salvezza di Idlib. Non è un buon segno, ma significa anche che ha escluso gli esponenti del Governo ad interim, con cui i rapporti sono peggiorati durante la recente offensiva. Questo approccio unilaterale dovrebbe durare fino al 1 marzo, e potrebbe scontentare anche i movimenti arabi e drusi del sud. Il nuovo ministro dell’economia Basel Abdul Aziz ha annunciato riforme di libero mercato per ingraziarsi gli attori internazionali, ma al Julani sa che la maggior parte della popolazione siriana lo teme piuttosto che amarlo e spesso lo disprezza. Una deregulation economica sarà inoltre in continuità con le politiche che avevano esposto al malcontento il deposto regime nel 2011 ed è difficile che la base più povera dell’opposizione la apprezzerebbe.

Il comandante delle Sdf Mazlum Abdi e la comandante delle Ypj Rojhelat Afrin hanno annunciato negli scorsi giorni che la rivoluzione confederale è pronta a negoziare una soluzione pacifica con tutte le forze in campo, compresi il nuovo governo e la Turchia. Proprio la fragilità politica degli islamisti al potere, tuttavia, potrebbe indurli a reprimere la fazione attraverso cui potrebbe maggiormente incanalarsi il malcontento di parte dei siriani. Il Congresso democratico promosso dal movimento confederale esprime partiti, clan e personalità arabe che potrebbero formulare ingombranti proposte alternative per il paese nei prossimi mesi.

Secondo l’analista Amberin Zaman la compagine al potere ad Ankara, invece, potrebbe accettare accordi con le Sdf a patto che queste ultime annuncino pubblicamente la rescissione di ogni relazione con il Pkk, e se tutti i volontari delle Ypg in Siria provenienti dall’estero (anzitutto da Turchia, Iraq e Iran) lasciassero il paese. La Turchia vorrebbe inoltre che maggiore peso fosse dato tra ai partiti curdi siriani conservatori che oggi, pur di opporsi alla componente socialista, supportano il Governo ad interim. Sebbene non siano ben visti né in Rojava né nel resto della Siria, questi gruppi permetterebbero di riverniciare in senso pluralistico la cancellazione dell’esperienza politica per cui migliaia di giovani curde e curdi hanno perso la vita.

La figura di spicco della coalizione che sostiene il Governo ad interim per conto della Turchia, Hadi al-Bahra, ha proposto non a caso una transizione molto lunga prima arrivare a nuove elezioni: un anno e mezzo. Il tempo necessario per operare una repressione completa del movimento confederale, producendo nuove ondate di profughi e perfezionando l’ingegneria demografica che le sue milizie attuano dal 2018. La via è stretta. È importante comprenderlo per supportare l’unica rivoluzione reale emersa dalla guerra. Come non c’erano alternative alla scelta confederale di non difendere un esercito baathista privo ormai del supporto dei suoi stessi soldati, così non c’è alternativa ai tentativi di dialogo con le forze insorte il 27 novembre. È probabile che il governo Al-Bashiri continuerà a lasciare mano libera alla Turchia in Rojava, liquidando il problema confederale senza sporcarsi le mani. La strada per lavorare sulle contraddizioni di questo scenario, tuttavia, resta politica, non militare.

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