La nuova sfida Non si tratta più solo di abrogare una brutta legge, ma di affermare in positivo un regionalismo che sia costituzionalmente orientato
Dopo le decisioni della Corte costituzionale e dell’Ufficio centrale per i referendum, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Non si tratta più solo di abrogare una brutta legge, ma di affermare in positivo un regionalismo che sia costituzionalmente orientato. Questo ora è scritto in una sentenza della Consulta e la Cassazione ha aperto le porte al definitivo smantellamento della normativa vigente. Dai giudici non ci si può aspettare di più, tocca al popolo della Costituzione far valere le sue ragioni.
Prima di lanciarci nella campagna per l’abrogazione totale della legge 86 del 2024 aspettiamo fiduciosi di superare l’ultimo ostacolo – il sindacato sull’ammissibilità che verrà svolto sempre dalla Consulta a fine gennaio – ma vale la pena cominciare a riflettere su come affrontare la battaglia decisiva.
Come riuscire a convincere 25 milioni di cittadini a schierarsi dalla parte giusta, dalla parte della Costituzione e della sua attuazione. In molti, giustamente, chiedono al governo di fermarsi, forse però dovremmo pensare anche a rilanciare.
Spetta ai soggetti che hanno sostenuto il referendum, e a tutti coloro che hanno già ottenuto questi grandi e non scontati risultati, indicare la rotta del cambiamento. Ripartendo magari dalle chiare indicazioni della Consulta. Un regionalismo – è scritto nella sentenza – che per essere in armonia con il complesso della forma di Stato italiana deve reggersi sui principi di solidarietà, eguaglianza, garanzia dei diritti fondamentali e preservare l’unità della Repubblica.
L’opposto rispetto alla prospettiva di un regionalismo fondato sui principi di appropriazione e differenziazione, che ha mosso i “governatori” ad autoproclamarsi rappresentanti di un inesistente «popolo regionale» separato dal resto del territorio nazionale e a chiedere tutte le materie possibili, sottraendo le risorse al resto della Nazione.
La strada alternativa dunque c’è e deve essere ora percorsa con coraggio e fantasia, è nostra responsabilità esplorarla. Alla Corte costituzionale spetta infatti richiamare i principi e porre dei limiti insuperabili, ma non può certo essere un giudice a scrivere le leggi, neppure a definire i rapporti tra Stato e regioni, né le modalità in concreto della tutela dei diritti su tutto il territorio nazionale. Spetta alla politica, che opera entro i limiti della Costituzione, dare attuazione ad un regionalismo solidale.
D’altronde, a ben vedere, neppure l’auspicata vittoria al referendum – se mai ci sarà – e l’abrogazione per intero della legge Calderoli ci esimerebbe dal proporre un altro regionalismo: perché non iniziare sin d’ora? Vero è che la pronuncia popolare assicurerebbe una forza politica e una legittimazione straordinaria, frutto del “plusvalore” democratico del referendum.
Diciamo così: il consenso popolare – se ci sarà – ci porrà in una situazione di vantaggio e potrà sbarrare la strada a chi ancora prova a oscurare il passaggio di fase sancito dalla decisione del nostro garante della Costituzione (le dichiarazioni del ministro per gli affari regionali e del presidente della regione Veneto tendono a ribaltare il significato di quanto deciso della Consulta e sono francamente al limite del vilipendio all’autorevolezza della Corte), ma non sarà neppure esso definitivo. Un referendum abrogativo vittorioso può cancellare totalmente la legge e assicurare una forza politica e una legittimazione straordinaria, ma non può fare nulla in positivo. E allora perché non anticipare questo passaggio per mostrare sin d’ora qual è il nostro orizzonte e assumerci le nostre responsabilità? Una campagna referendaria tutta all’attacco, in nome della solidarietà regionale e non solo contro l’illegittimo egoismo appropriativo.
È il modo migliore per chiedere il voto, non solo per dare un colpo definitivo a un regionalismo moribondo, ma per iniziare a guardare a un altro regionalismo possibile. Magari convincendo i più che vale la pena andare a votare. Si tratta di
Leggi tutto: Regionalismo solidale, la via della Costituzione - di Gaetano Azzariti
Commenta (0 Commenti)Non solo kurdi Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala
Curdi siriani partecipano ai funerali delle persone uccise negli attacchi aerei turchi. Novembre 2022 – Ap
Nel corso della guerra si sono sviluppate in Siria due realtà diverse e opposte: l’insurrezione teocratica, promossa dalle formazioni islamiste che hanno schiacciato la gioventù democratica presente nelle prime rivolte, e la rivoluzione confederale giunta dal Rojava, che ha costruito istituzioni politiche, economiche e di genere di carattere radicalmente trasformativo. La rivoluzione confederale non va tuttavia confusa con i curdi, che sono soltanto una sua componente. La maggior parte dei combattenti delle Forze siriane democratiche (Sdf) è araba, così come gran parte del personale dell’Amministrazione autonoma del nord-est (Daa).
La Daa è attaccata dalla fazione teocratica che da anni ha imposto un “governo ad interim” animato dalla Fratellanza musulmana lungo il confine nord-occidentale, e sulle cui milizie la Turchia ha il diretto controllo. Con il collasso dello stato siriano le Sdf hanno allargato la loro presenza in ampi territori delle regioni di Tabqa, Raqqa e Deir el-Zor, ma si sono viste sottrarre da queste forze l’area di Sheeba e Manbij. Nel resto della Siria si sono posizionati, oltre a Tahrir al-Sham, forze arabe e druse provenienti da sud, la cui composizione politica è contraddittoria.
Le Sfd non hanno equipaggiamenti sufficienti per resistere a lungo alla Turchia. Per questa ragione avevano trovato nel tempo una deterrenza in accordi diplomatici con la Russia, le cui forze d’interposizione erano presenti nella parte occidentale della Daa ma si sono ritirate; e con gli Usa nella parte orientale, da dove potrebbero ritirarsi non appena Trump salirà al potere. Lo status quo su cui si reggeva (difficilmente) la Daa, colpita costantemente, dal 2019, da bombardamenti turchi, è quindi in gran parte superato. Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala.
La Daa non può che cercare, come sta facendo, la carta del dialogo interno, a partire dalle differenze tra i nuovi attori politici. Tahrir al-Sham ha imposto i suoi pieni poteri a Damasco, escludendo tutte le altre forze dal nuovo Governo di transizione, che ripropone plasticamente la composizione del Governo di salvezza di Idlib. Non è un buon segno, ma significa anche che ha escluso gli esponenti del Governo ad interim, con cui i rapporti sono peggiorati durante la recente offensiva. Questo approccio unilaterale dovrebbe durare fino al 1 marzo, e potrebbe scontentare anche i movimenti arabi e drusi del sud. Il nuovo ministro dell’economia Basel Abdul Aziz ha annunciato riforme di libero mercato per ingraziarsi gli attori internazionali, ma al Julani sa che la maggior parte della popolazione siriana lo teme piuttosto che amarlo e spesso lo disprezza. Una deregulation economica sarà inoltre in continuità con le politiche che avevano esposto al malcontento il deposto regime nel 2011 ed è difficile che la base più povera dell’opposizione la apprezzerebbe.
Il comandante delle Sdf Mazlum Abdi e la comandante delle Ypj Rojhelat Afrin hanno annunciato negli scorsi giorni che la rivoluzione confederale è pronta a negoziare una soluzione pacifica con tutte le forze in campo, compresi il nuovo governo e la Turchia. Proprio la fragilità politica degli islamisti al potere, tuttavia, potrebbe indurli a reprimere la fazione attraverso cui potrebbe maggiormente incanalarsi il malcontento di parte dei siriani. Il Congresso democratico promosso dal movimento confederale esprime partiti, clan e personalità arabe che potrebbero formulare ingombranti proposte alternative per il paese nei prossimi mesi.
Secondo l’analista Amberin Zaman la compagine al potere ad Ankara, invece, potrebbe accettare accordi con le Sdf a patto che queste ultime annuncino pubblicamente la rescissione di ogni relazione con il Pkk, e se tutti i volontari delle Ypg in Siria provenienti dall’estero (anzitutto da Turchia, Iraq e Iran) lasciassero il paese. La Turchia vorrebbe inoltre che maggiore peso fosse dato tra ai partiti curdi siriani conservatori che oggi, pur di opporsi alla componente socialista, supportano il Governo ad interim. Sebbene non siano ben visti né in Rojava né nel resto della Siria, questi gruppi permetterebbero di riverniciare in senso pluralistico la cancellazione dell’esperienza politica per cui migliaia di giovani curde e curdi hanno perso la vita.
La figura di spicco della coalizione che sostiene il Governo ad interim per conto della Turchia, Hadi al-Bahra, ha proposto non a caso una transizione molto lunga prima arrivare a nuove elezioni: un anno e mezzo. Il tempo necessario per operare una repressione completa del movimento confederale, producendo nuove ondate di profughi e perfezionando l’ingegneria demografica che le sue milizie attuano dal 2018. La via è stretta. È importante comprenderlo per supportare l’unica rivoluzione reale emersa dalla guerra. Come non c’erano alternative alla scelta confederale di non difendere un esercito baathista privo ormai del supporto dei suoi stessi soldati, così non c’è alternativa ai tentativi di dialogo con le forze insorte il 27 novembre. È probabile che il governo Al-Bashiri continuerà a lasciare mano libera alla Turchia in Rojava, liquidando il problema confederale senza sporcarsi le mani. La strada per lavorare sulle contraddizioni di questo scenario, tuttavia, resta politica, non militare.
Commenta (0 Commenti)Democrazia reale Nel 1975 la legge Reale dispose tra le altre cose l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine con molta più facilità. Si apriva la fase della legislazione dell’emergenza
Roma, San Giovanni, festa della liberazione, 25 aprile 1978
In principio fu la circolare del 26 luglio 1943 emanata all’indomani della caduta del regime fascista a disporre misure emergenziali per l’ordine pubblico. Il testo era firmato dal presunto criminale di guerra generale Mario Roatta.
Precisava che «qualunque pietà e riguardo nella repressione è un delitto» e aggiungeva «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito» intimando ai militari «Si tira sempre a colpire come in combattimento». Lo stato d’assedio disposto contro le manifestazioni popolari organizzate contro il fascismo e contro la guerra provocò oltre 80 morti, 300 feriti e 1.500 arresti.
Nel dopoguerra la Repubblica nata dalla Resistenza ma guidata da un governo conservatore varò, il 18 marzo 1950, un piano straordinario d’intervento finalizzato a: impedire le occupazioni delle terre; assegnare al prefetto la possibilità di vietare fino a tre mesi le manifestazioni pubbliche; proibire comizi all’interno delle fabbriche; vietare lo «strillonaggio» dei giornali nelle strade. Una delibera del governo definita da Piero Calamandrei «Dichiarazione dei diritti dello Stato di Polizia».
Mentre prendeva corpo il conflitto di Corea e si entrava negli anni della Guerra Fredda, il 1 giugno 1950, venne emanata la «circolare Pacciardi» con cui il ministro della Difesa militarizzò l’ordine pubblico collocando il conflitto sociale in una dimensione che faceva del movimento operaio e contadino un «nemico interno» dello Stato e una «quinta colonna» comunista. Con quegli ordini il Comandante militare territoriale divenne responsabile delle truppe in operazioni di ordine pubblico mentre i militari furono autorizzati a sparare sui dimostranti «dopo rapida e serena valutazione della situazione» e ad eseguire arresti indiscriminati tra la folla.
Tali misure portarono ad un bilancio rappresentato (e mai smentito dal governo) da Pietro Secchia in Parlamento nell’ottobre 1951: negli incidenti tra manifestanti e forze dell’ordine dal gennaio 1948 al luglio 1950 vi furono tra i lavoratori 62 morti, 3.123 feriti, 91.433 arrestati, 19.313 condannati per 7.598 anni di carcere.
Su questi caratteri si andò formando la nozione degasperiana della «democrazia protetta» incentrata da un lato su un modello di sviluppo fatto di bassi salari, disoccupazione, alta produttività e sgravi alle imprese e dall’altro sul coordinamento delle leggi speciali contro scioperi e sabotaggi.
Nel 1952, contestualmente alla ratifica del piano anticomunista «Demagnetize» di matrice statunitense e adottato dal servizio segreto italiano, l’esecutivo Dc presentò la legge «Polivalente» ovvero una messa a sistema di tutti i provvedimenti elaborati in materia di ordine pubblico, disciplina del lavoro e diritti sindacali. Un intervento che si propose di riformare il codice penale in materia di conflitti sociali reprimendo scioperi, occupazioni di terre e fabbriche, sabotaggi e «scioperi al rovescio». Una legge che il 6 giugno 1952 ottenne «l’accordo e l’impegno» in Parlamento dei neofascisti del Msi per voce di Giorgio Almirante.
Dopo gli anni duri della Guerra Fredda fu l’autunno caldo operaio del 1969 a suscitare nuovi istinti regressivi. Alla fine dell’anno i sindacati presentarono le stime dei lavoratori denunciati che ammontavano a circa 10.000 persone per un complesso di 16.359 reati contestati e 143 arresti. La forza del movimento operaio impose l’approvazione contestuale (20 e 22 maggio 1970) tanto dello Statuto dei lavoratori quanto dell’amnistia promossa dal deputato socialista Giolitti.
In un quadro in cui fino al 1974 gli episodi di violenza politica afferivano per il 94% all’estrema destra il 22 maggio 1975 fu varata la «legge Reale» dal nome del repubblicano Oronzo Reale. Tra le altre cose la legge dispose l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine con molta più facilità ed impunità, reintrodusse il fermo di polizia, integrò le riforme sul raddoppio dei termini della carcerazione preventiva e anche sull’interrogatorio.
Si apriva la fase della «legislazione dell’emergenza» e del disciplinamento penale delle questione sociale in Italia. Un ritorno al passato denunciato da Lelio Basso: «La legge Reale ha alla sua base una concezione dei rapporti tra il cittadino e lo Stato che è stata la concezione tipica del fascismo, tipica del codice Rocco». Contro votarono Pci e sinistra indipendente.
Posizione, quella dei comunisti, che non «tenne» alla prova dell’ingresso in maggioranza del partito quando la legge venne rinnovata l’8 agosto 1977. In quel passaggio – notano Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo – «per la prima volta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole ad un massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costituzionali». Una nuova postura del Pci che – scrive Paul Ginsborg – «sui temi cruciali che riguardavano i giovani politicizzati, il diritto a manifestare, i poteri della polizia, la detenzione preventiva, la riforma carceraria, vide i comunisti mantenere un silenzio che non lasciava presagire nulla di buono».
Quel nulla di buono si tradusse in 254 morti e 371 feriti in quindici anni di applicazione della legge che passò indenne anche il referendum per la sua abrogazione l’11-12 giugno 1978. Cinquanta anni dopo il varo della legge Reale, in un contesto in cui lo stato di guerra permanente e la crisi economica liberista informano in modo totalitario il nostro presente, il Paese guidato da un partito post-fascista torna a specchiarsi pericolosamente nella sua «democrazia reale».
Commenta (0 Commenti)Ravenna, 11 dicembre 2024 – Pierluigi Randi, meteorologo Ampro (Associazione meteo professionisti), quale è il quadro del maltempo (l’intervista è stata fatta nella tarda mattinata di ieri, ndr)?
“Andiamo verso la fase conclusiva dei fenomeni, che già in mattinata si sono attenuati. Di positivo c’è che le piogge più consistenti sono state in pianura”.
Con effetti benefici sui fiumi?
“Esattamente. Se vogliamo fare una panoramica, nessuno dei nostri fiumi ha superato la soglia 3, quella cioè di emergenza. Il Senio ad Alfonsine è a 10 metri, con soglia di attenzione a 12 e il livello sta scendendo. Il Lamone è piuttosto alto a Mezzano, ma ha già toccato il picco di 6,5 metri, con soglia di attenzione a 7,5. A Faenza il Lamone è sotto soglia uno. Insomma, le piene più consistenti le hanno avute Senio e Lamone, ma il livello dell’acqua sta scendendo. Il Santerno è sempre stato in soglia uno”.
Lo scioglimento della neve causerà dei problemi?
“No, a meno che non si verifichino - e non sono previsti - aumenti consistenti di temperatura. La neve si fonderà nei prossimi giorni e va specificato che la fusione della neve è graduale. Non avremo picchi violenti come se ne hanno durante le piogge violente”.
Quali sono le previsioni meteo dei prossimi giorni?
“La fase iniziata domenica sta volgendo al termine. Domani (oggi, ndr) avremo piogge deboli, in esaurimento. Tra venerdì e sabato - ma più probabilmente questo secondo giorno - pioverà ancora. Il fenomeno sarà meno intenso e più veloce di quello attuale. Non saranno fenomeni preoccupanti”.
E la prossima settimana?
“Limitandoci ai primi giorni, avremo il ritorno dell’alta pressione, quindi bel tempo, aumento delle temperature e nebbie. Non ci saranno precipitazioni”.
Tornando alla pioggia di queste ore, quanta se ne è accumulata?
“In pianura, in provincia di Ravenna, siamo a 80-90 millimetri. A Sant’Alberto siamo a 103, 90 circa a Conselice e Alfonsine, 80 nel Lughese, 60-70 nel Faentino. Valori più alti sui rilievi: siamo tra i 110 e i 120 millimetri a Riolo Terme, Casola Valsenio e Brisighella. Consideri che in media, in tutto dicembre, l’accumulo di pioggia gli anni scorsi era di 90 millimetri. In questi due giorni è caduto dunque l’equivalente di quanto solitamente piove in tutto il mese”.
Dobbiamo abituarci a queste piogge intense?
“Sì. Dobbiamo imparare a conviverci, perché questi fenomeni si ripeteranno. Il conviverci non significa esserne schiavi. Dobbiamo abbandonare paura e impotenza, anche se non è facile da dire a chi è stato alluvionato e ha subìto quanto accaduto nel maggio 2023 e nel settembre di quest’anno. Però non è che ogni volta arrivi un’alluvione, per fortuna. Non dobbiamo subire troppo questi fenomeni. Stavolta c’è stata preoccupazione, ma non ci sono state né esondazioni, né rotture di argini”.
Quale è l’importanza degli interventi strutturali e di manutenzione?
La prima cosa da fare è la messa in sicurezza del territorio: per farlo occorrono tempo e grandi investimenti, e questi spettano alla parte amministrativa. Poi serve unità di intenti: inutile perdersi in polemiche. Ora sappiamo cosa fare, dunque agiamo. Nel Forlivese e nel Cesenate i fiumi hanno causato danni, anche perché le aree dei fiumi sono state completamente pulite. Ecco, non ricadiamo in questi errori. ’In mezzo’ al fiume di certo non deve esserci la sequoia secolare, ma nemmeno deve esserci il vuoto. Serve la vegetazione ripariale, perché senza vegetazione l’acqua arriva più in fretta e più veloce”.
Commenta (0 Commenti)Medio oriente Il senso comune è inorridito e reattivo, ma gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare il feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo
Una coppia israeliana osserva gli edifici danneggiati in un villaggio nel Libano meridionale, vicino al confine tra Israele e Libano – Leo Correa /Ap
Ora che il regime siriano di Assad è stato spazzato via con sorprendente rapidità, da milizie fondamentaliste intrecciate con la storia di Al Qaeda e dello stato islamico e con progetti imprevedibili, Israele spinge oltre il confine siriano la sua presenza militare.
Soddisfatto per la caduta di un alleato di Teheran, Netanyahu (che però non ha motivo di fidarsi dei nuovi vicini) coglie l’occasione per muovere ancora un passo verso la grande Israele ed allargare i confini di fatto dello stato ebraico.
Intanto con il venir meno del retroterra siriano e il moltiplicarsi degli «incidenti» appare sempre più chiaro che il cessate il fuoco in Libano non è affatto un primo piccolo passo verso la pace, ma una tregua, una pausa tattica per ridare fiato e slancio alla guerra. Se non addirittura un espediente per allargarla e permettere a Israele di aggredire e invadere l’entità nazionale libanese in quanto tale e nel suo insieme, non facendo più distinzioni tra Hezbollah e il resto dei libanesi, per poi spingersi, nel caso, verso la Siria.
Questa più che probabile evoluzione è del tutto coerente con il fatto che la guerra israeliana non può e non intende finire. Basterebbe ascoltare e prendere sul serio come merita l’estrema destra messianica e spietata che tiene in piedi il governo di Netanyahu, che del resto non ne è così ideologicamente distante, per constatare che l’obiettivo minimo è l’annessione di Gaza, della Cisgiordania e di un pezzo di Libano meridionale. Con relativa espulsione della popolazione araba e palestinese. Quello massimo un’espansione territoriale ancora maggiore e un potere di controllo incontrastato sull’intera regione.
Non desta dunque alcuno stupore il fatto che anche i più blandi e patetici inviti alla prudenza e alla moderazione da parte degli alleati di Tel Aviv siano rimasti sempre inascoltati e che l’appoggio occidentale venga sistematicamente piegato di fatto a questo disegno espansionistico. Il movimento dei coloni e le forze politiche che li rappresentano lo hanno esplicitato ripetutamente senza peraltro nascondere l’estrema violenza prima bellica, poi persecutoria, che sono disposti a dispiegare per conseguirlo.
IN ISRAELE gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare questo feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo. Secondo quel classico schema che a partire dall’emergenza conduce alla riduzione e infine alla sospensione della democrazia. Qualcosa di simile all’istituto della «dittatura», che nell’antica Roma veniva attivato temporaneamente nel momento in cui la Repubblica era ritenuta in pericolo. E che, protraendo più o meno artificiosamente l’eccezione in uno stato di guerra permanente, può anche consolidarsi in una nuova forma di governo.
Innumerevoli sono stati i cambi di regime e le guerre di conquista motivate dalla sicurezza della nazione. Non è forse con l’argomento di una minaccia di ostile accerchiamento occidentale della Russia che Putin ha motivato l’invasione dell’Ucraina e consolidato il suo potere autocratico?
E così la sicurezza di Israele si è trasformata, molto aldilà delle sue effettive esigenze, nella motivazione di una guerra permanente che non aspira a una pace in qualche modo condivisa ma all’annichilimento dell’avversario e a un equilibrio fondato essenzialmente se non solo sulla forza militare.
Guerra permanente che non può più concedersi il lusso della democrazia e men che meno la messa in discussione del comando. E, infatti, le crepe non tardano a mostrarsi: dall’allargarsi dello stato di polizia e della repressione, all’impunità giudiziaria del premier, dagli attacchi alla libertà di stampa alla sospensione di tutti i normali dispositivi di verifica democratica.
INTANTO A GAZA, all’escalation delle parole, che evocano l’apocalisse e tutti i gironi dell’inferno, rispondono l’inazione, l’impotenza e infine la rassegnazione piagnucolosa della comunità internazionale. Nessuno ormai se la sentirebbe di approvare o anche solo di mostrare comprensione per la mostruosa sproporzione della rappresaglia israeliana e la strategia di massacro attuata dall’Idf. Ma non è difficile ravvisare tutti i segni di una crescente assuefazione nella contabilità ritualmente indignata delle vittime indifese e, infine, un atteggiamento di sconsolata rinuncia. Nei media non sono molte le immagini che provengono da Gaza, ancor meno i filmati che abbiamo potuto vedere. Ma quelle che ci vengono mostrate assomigliano assai più alle immagini di un terremoto che a quelle di una guerra. Persone disperate che si aggirano sopra cumuli di macerie, carovane di fuggiaschi e carretti carchi di masserizie che si spostano tra due ali di palazzi interamente crollati, sacchi bianchi o grigi di cadaveri allineati nella polvere ai piedi degli infermieri, soccorritori che scavano tra le macerie. Spariscono invece, o compaiono solo raramente e in miniatura all’ombra di un carro armato, gli autori di questa distruzione. Che ci si mostra piuttosto come una catastrofe naturale o, per chi ci vuole credere, come una nemesi divina. Lo specifico, inconfondibile, feroce volto della guerra, della violenza esercitata con determinazione da esseri umani, che così nitidamente ci trasmettevano gli scatti e i filmati del Vietnam non varcano invece i confini assediati di Gaza.
Eppure è forse solo, fuori dalle letture storiche, su queste infinite tragedie quotidiane, sulla sofferenza subita e su chi la infligge nel momento stesso in cui questo accade, sulle singole vittime e sui singoli carnefici, sulla base di un’etica materiale della contingenza, di un senso comune inorridito e reattivo, che si può giudicare questa guerra, vederne e determinarne la finitezza, combatterne i fautori.
Del resto la traduzione dello scempio di Gaza nelle categorie del diritto da parte della Corte penale internazionale, con l’incriminazione di Netanyahu e Gallant, si è subito infranta contro il muro dei rapporti di forze e il gioco degli interessi sovranazionali. Diversi paesi, che pur aderiscono alla Cpi e si ritengono irreprensibili difensori dei diritti umani, si sono esibiti in grottesche contorsioni pur di disapplicare, nel caso di Israele, le norme sottoscritte, mostrando al tempo stesso di non volerle abiurare. Infine è stata ventilata l’ipotesi di offrire a Israele una via d’uscita, incaricandosi di indagare in proprio sui crimini che il suo esercito avrebbe commesso e su chi li avesse ordinati.
Come concedere alla mafia di procedere a un’indagine imparziale sui suoi interessi e i suoi delitti.
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Autonomia differenziata Aggirata la Consulta. Salvato il lavoro istruttorio svolto fino al 5 dicembre sulla base di norme illegittime
Roberto Calderoli in Senato – foto Ansa
Il governo dà una prima risposta alla sentenza della Corte costituzionale che ha demolito la legge sull’autonomia differenziata, e lo fa con una nuova “calderolata”, una furbizia normativa pensata dal ministro Roberto Calderoli. Nel decreto Milleproroghe approvato ieri sera dal consiglio dei ministri, un articolo mira a salvare il lavoro del Comitato Cassese per la definizione dei Lep, con un nuovo trucco puramente normativo, dopo che la Corte lo aveva privato delle sue basi legali.
La sentenza della Consulta aveva dichiarato illegittime le procedure legislative alla base della macchina voluta dalle destre per definire i Livelli essenziali delle prestazioni. Per aggirare il parlamento, il governo Meloni aveva inserito nella legge di bilancio del 2023 una serie di commi con i quali si attribuiva a una Cabina di regia istituita presso la Presidenza del consiglio il compito di definire i Lep. Questi poi sarebbero stati promulgati attraverso una serie di decreti del presidente del consiglio (Dpcm), vale a dire puri atti amministrativi, sui quali il parlamento non può nemmeno dare un parere. Nel marzo 2023 il governo, sempre con un Dpcm, aveva istituito un Comitato di 61 esperti, guidato dal professore Sabino Cassese: il suo incarico era di fornire una relazione sui Lep sulla base della quale il governo avrebbe emanato i Dpcm. Quindi non solo per la definizione dei livelli che qualificano i diritti sociali, veniva espropriato il parlamento, ma addirittura ci si affidava ai tecnici, con una delegittimazione della politica stessa: anzi una autodelegittimazione del governo delle destre.
Il Comitato Cassese (Clep), come il nostro giornale ha puntualmente raccontato, è stato attraversato da numerose polemiche, cominciate dalle dimissioni di autorevoli membri, fino alle critiche a Cassese allorché nell’autunno dello scorso anno rifiutò di presentarsi in Senato in audizione per riferire il lavoro del Clep. Dulcis in fundo, l’accelerazione per concludere i lavori entro l’anno, nonostante il 14 novembre la Consulta avesse preannunciato la sentenza di bocciatura della legge Calderoli in un comunicato molto chiaro.
Il 5 dicembre è arrivato il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale, che ha sbianchettato la maggior parte della legge Calderoli. Tra le parti dichiarate illegittime vi erano tutti i riferimenti normativi che riguardavano la definizione dei Lep, necessari per la devoluzione di una serie di materie e funzioni delicate, come scuola, sanità, ecc. L’illegittimità, spiegavano i giudici della Consulta, dipendevano esattamente dal fatto che il parlamento veniva esautorato su una materia centrale come i diritti sociali, e i relativi Livelli essenziali delle prestazioni. Insomma il lavoro del Clep da quella sentenza non ha più le basi normative per andare avanti. È solo un club di illustri studiosi che fanno accademia.
La “calderolata” del Milleproroghe è allora una “sanatoria” normativa che dà una base giuridica al lavoro del Comitato Cassese a partire dal 5 dicembre, giorno della sentenza della Consulta.
L’articolo del decreto prevede che sia «fatto salvo il lavoro istruttorio e ricognitivo» svolto sulla base delle norme dichiarate illegittime dalla Corte; inoltre «l’attività istruttoria per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e dei relativi costi e fabbisogni standard, a decorrere dal 5 dicembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025, è svolta presso il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie». Insomma Il Comitato potrà concludere i propri lavori, sotto l’ala protettiva di Calderoli. Viene ridata una legittimità normativa, ma quella politica è impossibile.
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