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Intervista Omar Yaghi, insignito nei giorni scorsi al Colle del Premio Balzan 2024 per la chimica: le sue «molecole trasformano l’umidità in risorsa idrica potabile»

I residenti trasportano l'acqua potabile lungo il fiume Madeira in secca in Brasile foto Edmar Barros/Ap I residenti trasportano l'acqua potabile lungo il fiume Madeira in secca in Brasile – foto Edmar Barros/Ap

Catturano l’umidità dell’aria per trasformarla in acqua. Intrappolano le molecole di anidride carbonica (CO2) presenti nell’atmosfera. A creare e sviluppare questa nuova classe di prodigiosi materiali nanoporosi a partire dagli anni Novanta è stato il chimico Omar Yaghi, professore dell’Università di Berkeley in California, che nei giorni scorsi è stato insignito al Quirinale del premio Balzan, prestigioso riconoscimento a scienziati e studiosi che si siano distinti per le loro scoperte, in questo caso nel campo della chimica reticolare.

Professor Yaghi, ci può descrivere in modo elementare cosa sono questi materiali, denominati MOF (strutture metallo-organiche) e COF (strutture organiche covalenti) e come funzionano?
MOF e COF possiamo immaginarceli come mattoncini Lego da combinare per creare nuove forme. Queste forme hanno superfici estremamente porose. All’interno dei pori noi possiamo catturare gas come idrogeno, metano, anidride carbonica, e acqua. Un’altra caratteristica straordinaria di questi materiali è quella di avere una superficie estremamente elevata: in 1 grammo è contenuta una superficie grande come un campo da football. Questo è lo spazio nel quale è possibile immagazzinare i gas.

Di quali materie prime sono composti?
I MOF sono fatti a partire da unità organiche legate a metalli. Si possono usare anche metalli molto comuni come zinco, ferro, rame, potassio, calcio. Per la parte organica possiamo utilizzare, per esempio, l’acido lattico, che è un componente del latte, e legarlo al calcio per ottenere un MOF. Questa chimica permette di utilizzare materie prime molto diffuse e comuni per creare materiali poco costosi ed estremamente utili. Questo è l’avanzamento che abbiamo ottenuto: usare i componenti della vita e della natura per realizzare materiali in grado di risolvere alcuni problemi ambientali. Invece i COF sono fatti interamente da unità organiche, senza metalli.

Grazie ai MOF è possibile catturare l’acqua dall’atmosfera, anche nel deserto, usando soltanto l’energia solare come unica fonte energetica. Ci spiega come?
A occhio nudo, MOF e COF hanno l’aspetto del borotalco o dello zucchero semolato. Per utilizzarli è necessario un rivestimento, oppure modellarli in forme diverse, come pellets, o cubi, o qualsiasi forma che possa essere contenuta in un apparecchio. Questo apparecchio deve avere delle ventole per far sì che vi entri dell’aria: quando l’aria entra in contatto con il MOF, questo estrae l’acqua dall’aria. L’apparecchio funziona in modo che solo acqua venga estratta dall’atmosfera, e nient’altro. Una volta che i pori si sono riempiti d’acqua, si può scaldare il materiale a 50° o 60°C e l’acqua viene rilasciata, condensata e si può bere. Lo stesso principio vale per la cattura della CO2: la CO2 si lega ai pori e, una volta scaldato il materiale a 60°C viene rilasciato e il ciclo può continuare.

Esistono già dei prototipi di apparecchiature per la «cattura» dell’acqua?
Diversi prototipi sono stati testati nel deserto. Ma vorrei sottolineare che questa tecnologia è utile non solo nelle zone aride, ma può funzionare ovunque nel mondo, per esempio dove non è disponibile acqua potabile, come può succedere in una zona interessata da una catastrofe. Oppure in agricoltura.

Il chimico Omar Yaghi
Il chimico Omar Yaghi

Sono brevettati? E sono accessibili?
Si, certo. Se non lo fossero, nessuno sarebbe interessato al loro impiego. Quando esiste una tecnologia di cui le persone hanno bisogno, si trova il modo di finanziarla da parte dei governi o delle Ong.

Quanto potranno costare queste apparecchiature?
Sono fatte di alluminio, il metallo più economico. E anche i MOF sono a basso costo. Non costeranno più di un microonde o di una macchina per fare il caffè.
Quindi sarà possibile staccarsi dalla rete idrica? Senza pagare più oneri per la distribuzione e quant’altro?
Troveranno il modo di farceli pagare… ma in linea principio, sì, si può avere il controllo sulla propria acqua.

Quando saranno disponibili? Tra 3 anni, 10 anni…
Prima. Le start up con le quali lavoro sono pronte a commercializzare queste apparecchiature tra 6-12 mesi. Tutti gli aspetti tecnici sono stati risolti. Un apparecchio per uso domestico può produrre 100-200 litri di acqua al giorno per vari anni. In generale, con una tonnellata di MOF si possono produrre 3 mila litri di acqua al giorno per 6-7 anni. Se si usa un’apparecchiatura un po’ più grande ed elettrificata, si possono produrre fino a 60 mila litri al giorno per 7 anni. Poi l’apparecchiatura può essere completamente disassemblata e riciclata.

Sembra magia.
Quando si libera la creatività umana non ci sono limiti all’immaginazione. Sembra magia, ma è realtà.

I materiali che lei ha sintetizzato rendono più efficiente la cattura della CO2 dall’atmosfera. Ma resta il problema di dove e come stoccare la CO2. Secondo i geologi si può stoccare nel sottosuolo in modo sicuro. Si può mineralizzare e trasformare in roccia, per millenni. Posso farle io una domanda? Abbiamo altre soluzioni? Cosa risponde a chi teme che la cattura e lo stoccaggio della CO2 possa servire per continuare ad utilizzare i combustibili fossili?
Secondo il mio punto di vista è una pessima analisi, anche perché potrebbe essere applicata a qualunque altra soluzione si possa trovare. Quello che voglio dire è che anche se è disponibile una soluzione come questa, i governi responsabili devono mettere comunque limiti alle emissioni. Come in altri campi dove servono dei limiti, perché i processi non sfuggano al controllo. Inoltre, quando la soluzione verrà introdotta, la società comincerà a pensare in modo diverso, perché si sarà creata una nuova economia basata sulla sostenibilità.

Quando si cominceranno ad utilizzare su scala industriale questi materiali?
La tecnologia per la cattura della CO2 dai cementifici, per esempio, viene già commercializzata. Invece, per quanto riguarda la cattura della CO2 dall’aria, la cosiddetta Direct air capture (DAC) è ancora necessario incrementare la produzione a quantità dell’ordine di tonnellate. Nel giro di pochi anni ci arriviamo. Ci sono molti progetti sperimentali.

Dove verrà utilizzata?
Nei grandi complessi industriali. Alcuni si sono già dotati di impianti di cattura della CO2 che però utilizzano materiali tossici, corrosivi, che non sono così resistenti e quindi efficienti. I MOF invece durano anni e migliorano l’efficienza.

Dunque, lei crede che ce la faremo a rispettare l’Accordo di Parigi?
Credo che la società debba porsi di fronte ai cambiamenti climatici come ad una crisi, non come a un problema. Come è successo per la crisi dei mutui negli Usa o per la pandemia. Queste sono crisi. Fino ad ora, con la riduzione volontaria delle emissioni non è successo nulla. Serve essere uniti e investire in un’unica direzione, altrimenti non si trovano soluzioni. Come è successo per la pandemia, se ci fossimo posti il problema dei costi, non ne saremmo usciti.

Cosa ha reso possibile queste sue scoperte? L’avanzamento della ricerca pura? La potenza di calcolo dei computer? Adeguati finanziamenti? Visioni…
È stato possibile perché qualcuno ha deciso di fare qualcosa che tutti dicevano fosse impossibile. C’era un dogma in questo campo di studi che negava la possibilità di fare quello che abbiamo fatto. Più che i finanziamenti, ad essere determinante è stata la volontà umana di cambiare un dogma. Sono gli scettici, quelli che dicono «non è possibile» i veri nemici della scienza, che ne impediscono il progresso. Ce ne sono ovunque, dentro e fuori il mondo scientifico.

Lei è nato in Giordania, in un campo profughi palestinese. La sua esperienza di vita è in qualche modo legata alle sue scoperte scientifiche?
Direi di no. Quello che è successo è che da bambino, avrò avuto 10 anni, mi sono innamorato delle molecole: ho visto dei disegni di molecole in un libro trovato in biblioteca. Non sapevo cosa fossero, naturalmente, ma sono stato catturato dalla loro bellezza. E da allora ho voluto saperne sempre di più. E anche quando abbiamo scoperto questi nuovi materiali a catturarmi, all’inizio almeno, è stata la loro bellezza, più che le implicazioni d’uso

 

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Dopo Trump Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante

Il neo eletto presidente degli Stati uniti Donald Trump foto di Alex Brandon/Ap Il neo eletto presidentedegli Stati uniti Donald Trump – foto di Alex Brandon/Ap

Quali lezioni dovremmo trarre dalla vittoria di Donald Trump? Secondo alcuni, i Democratici sono stati sconfitti perché hanno progressivamente perso il carattere di partito della working class.

Per diventare la forza di riferimento dei ceti professionali, delle persone più istruite, e tendenzialmente benestanti. Altri hanno posto l’accento, invece, sulla frattura tra certe aree del paese – prevalentemente urbane e tendenzialmente più sviluppate – e quelle che invece non riescono e riprendersi dallo shock delle delocalizzazioni. Le prime vedono i Democratici meno in difficoltà, le seconde spesso favoriscono Trump. Tutte le spiegazioni devono tener conto dell’appartenenza, ma con sfumature diverse, che possono essere legate al «ruolo nel processo di produzione» (per riprendere un’espressione marxista ancora utile) oppure a elementi di carattere identitario (nazione, gruppo etnico, religione). Qui la faccenda si complica ulteriormente, perché il carattere di terra di emigrazione degli Stati uniti rende il tema dell’identità ineludibile ma sfuggente.

Non c’è dubbio che la prima ipotesi cui abbiamo accennato appare confermata dai dati elettorali, e in qualche misura si armonizza con una tendenza che si sta manifestando in tutti i paesi nei quali il partito principale della sinistra (sia esso di tradizione socialista o meno) si è collocato, dopo la «rivoluzione recuperante» del 1989, al centro. A partire dagli anni Novanta, la restaurazione della democrazia nei paesi dell’ex blocco sovietico si rivela come il momento decisivo per l’instaurazione di un diverso modo di concepire i rapporti tra economia e politica, che esalta gli effetti benefici del mercato e svilisce quelli dell’intervento pubblico.

Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante. Sono gli anni di Clinton, di Blair, e dei loro epigoni continentali. Sono loro a portare alle estreme conseguenze l’idea che i vecchi partiti socialisti o liberal progressisti dovessero diventare i partiti dello sviluppo economico, puntando sulla scommessa che una volta ampliata la torta sarebbero aumentate le porzioni per ciascuno. In realtà le cose vanno in modo diverso dal previsto. Mano a mano che accettano le premesse e gli obiettivi della nuova visione «neoliberale» della politica, questi partiti vengono di fatto «catturati» da una nuova classe dirigente, fatta non più di militanti con un solido radicamento nel movimento operaio e nelle battaglie antifasciste della prima metà del Novecento, ma di consulenti e «tecnici» di varia estrazione, che non hanno alcun interesse a distribuire in modo più equo la torta. Chi è più «meritevole», ha diritto a tagliare la fetta che gli spetta prima degli altri, e pazienza se poi non rimane molto da spartire.

Nel nuovo secolo i nodi vengono al pettine. La promozione di politiche di austerità dopo la crisi del 2008 colloca i partiti della nuova sinistra neoliberale in una pozione insostenibile, non solo rispetto a quel che rimaneva – dopo le delocalizzazioni – della classe operaia intesa in senso stretto, ma anche rispetto all’area, dai confini meno netti, dei diversi tipi di lavoratori subordinati. Le politiche di flessibilità del lavoro, difese da queste forza politiche, a partire dagli anni Novanta, come un’opportunità per i lavoratori, si sono rivelate in molti casi una trappola fatta di precarietà, redditi bassi, e subordinazione al debito.

Quindi, in un certo senso, è vero che la sinistra dovrebbe darsi da fare per recuperare il voto della working class intesa in senso ampio, non solo gli operai, ma anche la vasta platea di chi lavora in posizione subordinata (di diritto o di fatto). Si tratta, tuttavia, di una verità parziale. Uno degli effetti più profondi, e più difficili da invertire, della rivoluzione neoliberale, è infatti un mutamento sul piano della visione dell’essere umano, e del suo ruolo nella società.

Ciò che gli attivisti della sinistra più critica nei confronti del neoliberalismo chiamano working class è un’astrazione priva di concretezza, perché le classificazioni sociali che guardano al ruolo nel processo di produzione, o al livello di reddito, non sono allineate con quelle identitarie. In una società dove la solidarietà di classe si è affievolita fino a scomparire, ciascuno solidarizza, nella misura in cui ne sente il bisogno, soltanto con i suoi, con quelli del proprio gruppo. Tutti gli altri sono concorrenti, potenzialmente nemici in una società che sta diventando a «somma zero».

Recuperare il voto della working class in queste condizioni potrebbe rivelarsi impossibile, se non si mette in campo uno straordinario impegno sul piano della «visione del mondo», per erodere le basi su cui ancora si sostiene l’egemonia neoliberale. La sinistra dovrebbe, in questo, seguire la lezione di Stuart Hall. L’intellettuale caraibico che negli anni Settanta indicò alla sinistra britannica sconfitta da Margaret Thatcher la strada di una rilettura del Gramsci studioso dell’egemonia come premessa per comprendere i fattori ideologici del nuovo liberalismo emergente.

 * Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano. Collabora regolarmente all’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore, a la Rivista dei Libri e al quotidiano Il Riformista. Google Books

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Intervista L’europarlamentare Pd: «Sull’Ucraina nessuna svolta e un silenzio inaccettabile su Gaza». «Con Schlein ci siamo sentite, io rispetto la sua posizione e lei la mia: non era una scelta facile. Ma sono molto preoccupata per le posizioni del titolare dell’immigrazione»

Strada: «No a un governo Ue che vuole più armi e meno diritti» Cecilia Strada – Ansa

Cecilia Strada, europarlamentare indipendente eletta nel Pd. Nelle ore prima del voto sulla commissione Ue non si era espressa. Come mai?

Ho preso tempo per riflettere.

Il discorso in aula di von der Leyen non l’ha convinta?

No, pensavo da giorni di votare contro e non ho cambiato idea.

Perché?

Questa commissione non mette al centro del suo agire le vere priorità: giustizia sociale, diritti, lavoro. Parole che sono addirittura scomparsa dai titoli che indicano le competenze dei vari commissari. La delega a scuola, cultura e diritti sociali è stata chiamata «Persone e preparazione». C’è una involuzione anche semantica. Von der Leyen ha parlato per 40 minuti in aula e il termine che ha usato più spesso è stato «competitività», senza mai dire a cosa serve. E poi continua a mettere al centro il tema della guerra, cui intende reagire armandoci sempre di più. Io mi sono candidata per cambiare questo stato di cose, vorrei un’Europa di pace e diplomazia, che investe più su come proteggere i lavoratori nella transizione ecologica che in spese militari.

Anche la scelta del titolare dell’Immigrazione pare non l’abbia entusiasmata.
Ho ascoltato in audizione Magnus Brunner, mi è parso aperto all’ipotesi di esternalizzazione delle frontiere, persino alla costruzione di nuovi muri contro i migranti. Non lo nascondo: è una commissione lontanissima dai miei valori. Compresa la scelta di Raffaele Fitto come vicepresidente: non per una questione personale, ma per la sua appartenenza al gruppo Ecr, la cui presenza nel perimetro della maggioranza non era nei patti che abbiamo sottoscritto a luglio con Popolari, Liberali e Verdi. I numeri del voto in aula confermano che questa strategia ha indebolito la presidente, che ha raggiunto il minimo storico di voti, 370. E tuttavia non sono felice di aver votato no, perché non mi sfugge quanto sia importante dare all’Europa un governo pienamente operativo, soprattutto dopo l’elezione di Trump.

Una commissione spostata a destra che trascura i vostri obiettivi è un problema per tutto il Pd.

Capisco il ragionamento che ha fatto Schlein, e cioè che se questa commissione non fosse partita ne sarebbe potuta arrivare una anche peggiore, più spostata a destra. È legittimo ritenere che in questa fase bisognasse prendere quello che c’è, pur con molti mal di pancia. Non è stata una scelta facile.

Vi siete sentite con la segretaria?

Sì, come sempre ci siamo parlate con franchezza e serenità. Io capisco la sua posizione e lei la mia, e nel Pd ho trovato grande rispetto per le posizioni indipendenti.

Oggi ci sarà l’ennesimo voto sull’Ucraina, lei come si comporterà?

Il mio voto sarà ancora negativo: dopo 1000 giorni di guerra sono sempre più convinta che la soluzione non sia fornire all’Ucraina armi sempre più potenti e togliere le restrizioni all’uso contro la Russia. Anche nel popolo ucraino cresce il desiderio di un negoziato, che non vuol dire una resa. E a chi dice che non si tratta con un criminale rispondo che la pace si fa con un nemico.

A Bruxelles sta nascendo la consapevolezza che è necessaria una svolta diplomatica?

No, non mi pare. Continua a dominare l’idea di armare Zelensky fino alla vittoria finale, un’ipotesi che non esiste davanti a una potenza nucleare, una frase retorica e poco responsabile visto che a morire sono gli ucraini. Anche Kiev dovrà mettere qualcosa sul tavolo del negoziato, io penso al congelamento della procedura di adesione alla Nato.

Nel voto sull’Ursula bis il Pd si è diviso da M5S e Avs. Avrà ripercussioni sulla costruzione di un fronte alternativo in Italia?

Credo di no, se tutti siamo d’accordo che è necessario costruire un’alternativa alla disastrosa situazione italiana. Capisco l’esigenza di ciascuno di tirare l’acqua al proprio mulino, ma è il momento di unirsi per provare a portare più diritti alle persone. La destra ormai è più spaccata di noi, come si è visto anche oggi nel Parlamento italiano, eppure riescono sempre a unirsi quando è il momento di togliere diritti alle persone.

Fdi canta vittoria dopo il voto sulla commissione.

Una totale contraddizione. Per anni gridano no all’Europa, a luglio votano no a von der Leyen e ora esultano perché hanno un vicepresidente. Vigileremo su Fitto, ora il suo compito è portare avanti il progetto europeista. Non dovrà più rispondere a Meloni ma alle istituzioni Ue. Le contraddizioni sono tutte in casa loro.

Resta un assordante silenzio dell’europarlamento sul Medio Oriente.

Si fanno dibattiti, ma a Strasburgo non si riesce a produrre uno straccio di risoluzione, neppure dopo il mandato di arresto per Netanyahu: una cosa vergognosa. Con che faccia condanniamo Putin e utilizziamo un doppio standard verso Israele? Faccio parte di un intergruppo che da tempo chiede di sospendere gli accordi di cooperazione con Israele e di fermare l’export di armi. Ma sia in Parlamento che nel Consiglio europeo c’è un muro, nonostante il grande lavoro di Borrell. Così l’Ue perde la faccia davanti al mondo.

 

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Lo strappo Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura

Antonio Tajani e Matteo Salvini foto di Fabio Frustaci/Ansa Antonio Tajani e Matteo Salvini – foto di Fabio Frustaci/Ansa

La doppia spaccatura del centrodestra sul decreto fiscale non è «la maggioranza in frantumi», come finge di credere Elly Schlein, ma certo non è neppure solo una «schermaglia non particolarmente seria» come se la rivende la premier Giorgia Meloni e deve avercela messa davvero tutta per mascherare l’ira. È invece il segno che nella coalizione di governo sono saltati gli equilibri che permettevano di negare ogni divisione perché poi, al momento del voto, l’unità si ricomponeva magicamente. Quella è già storia di ieri.

Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura.

Spacciare l’inedito fattaccio per una semplice divergenza d’opinione come fa Forza Italia, neanche si trattasse di una discussione tra amici a cena, dimostra solo che gli azzurri sono in realtà consapevoli della portata dello strappo. La Lega ha reagito colpendo su un emendamento azzurro che almeno vedeva il governo neutrale, quello sulla sanità in Calabria, ma l’innesco della spirale bastonata-rappresaglia è comunque quanto di meno gradito per l’inquilina di palazzo Chigi.

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Destra divisa, Meloni furiosa

È probabile che Antonio Tajani abbia davvero scelto di portare la sfida sino alle estreme conseguenze su pressione dell’azienda madre, Mediaset, spaventatissima dalla prospettiva di un innalzamento della pubblicità Rai per colmare il buco del canone decurtato. La premier ne è convinta ed è facile che colga nel segno. Ma la consolazione è di respiro corto. Quella motivazione, se reale, spiega comunque solo in parte l’affondo degli azzurri. Forza Italia è infatti impegnata su una quantità di fronti, non solo su quelli che tirano in ballo i sacri interessi Mediaset. Si oppone a qualsiasi manovra contro l’affare Unicredit-Bpm, ove mai prendesse quota. Il mercato è sacro. Mira a trasformare la disfatta della Lega sull’autonomia differenziata in una rotta scomposta e definitiva. Pretende che il commissario europeo Fitto sia sostituito dal suo ex capogruppo Cattaneo e già che ci si trova insiste per un rimpasto, parola tabù per Giorgia Meloni, che registri la sua accresciuta importanza nella coalizione.

Più delle richieste imperative degli eredi di re Silvio o delle proteste della Fi del sud, cioè quasi tutta, contro l’autonomia di Calderoli, l’elemento destabilizzante è questo. La maggioranza è la stessa che aveva vinto le elezioni due anni fa ma gli equilibri al suo interno non lo sono affatto. La maggioranza vincente nel 2022 vedeva due partiti di destra competere sullo stesso elettorato per aggiudicarselo, con l’aggiunta di Fi come foglia di fico moderata, utile ma in via di estinzione. Due anni dopo la competizione è tra il partito di destra e la delegazione italiana del Ppe, decisa a riproporre in Italia lo schema europeo che prevede sì un’alleanza con la destra meno incarognita, quella guidata da Giorgia Meloni, ma in funzione subordinata non certo al timone.

Per battere quella pista, che è in realtà quasi obbligato a seguire, Tajani deve per forza evidenziare il ruolo del suo partito, dare la caccia a un elettorato diverso da quello di FdI e della Lega, brandire bandiere e parole d’ordine diverse a volte ai confini dell’inconciliabilità. Non per rompere la coalizione, tentazione “terzopolista” che non lo sfiora, ma per assumerne la guida o almeno poter trattare con la componente di destra da pari a pari. In questo nuovo quadro il mare molto mosso è per forza la regola, la stabilità degli anni scorsi difficilmente riproponibile.

Una Lega che già versa in condizioni disperate, soffre l’emorragia di voti, prende schiaffi su tutti i fronti, è condannata ora al ruolo ingrato del vaso di coccio. Quanto Matteo Salvini possa resistere nella parte del leader che sbraita e ruggisce ma in realtà fa la parte del punching ball è incerto e se accettasse di prestarsi all’umiliante ruolo potrebbe non restare a lungo al timone del Carroccio.

Messa da parte la maschera dell’indifferente, in privato la premier Meloni ha ordinato ieri ai suoi alleati di smettere di prendersi a mazzate una volta per tutte. Ma stavolta la voce grossa, di fronte a una mutazione strutturale della maggioranza, non può bastare.

 

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Medio Oriente L'accordo garantisce a Israele ampia libertà di manovra e si costruisce sull'offensiva pesantissima contro la popolazione libanese, mentre Netanyahu seppellisce la questione palestinese

Macerie nel quartiere di Dahiyeh a Beirut in Libano dopo un attacco israeliano foto Ap Macerie nel quartiere di Dahiyeh a Beirut in Libano dopo un attacco israeliano

Quella del Libano è una tregua «sporca»: perché, arriva – sperando che arrivi davvero – sotto una pioggia di bombe su Beirut e, come sempre, accompagnata dal diritto di Israele a romperla in qualunque momento.

Ci sarà una doppia tutela in Libano, scrivevano ieri i media locali: nel sud quella israelo-americana, a nord del fiume Litani quella Hezbollah-Iran, in mezzo l’Onu e le forze libanesi. Israele ovviamente si riserva il diritto di colpire quando vuole, Hezbollah, a sua volta, di decidere per tutto il Libano e non soltanto per la «resistenza».

MENTRE ISRAELE rendeva noto che soltanto ieri aveva colpito 180 bersagli in Libano, la 91a divisione delle Forze di difesa israeliane (Idf) raggiungeva il fiume Litani, nel sud del Libano e l’area di Wadi Saluki. È la prima volta dal 2000, anno in cui Israele si ritirò dal Libano meridionale, che le truppe dell’esercito israeliano raggiungono il fiume Litani.

Quindi Hezbollah ha perso? Per Hezbollah, l’accordo con Israele è un compromesso strategico che mantiene i fondamenti della sua «missione di resistenza» senza sacrificare la capacità di operare come attore politico-militare in Libano. Il partito descrive l’accordo come «una pausa tattica», necessaria per riorganizzare le forze e affrontare le prossime sfide, senza mai abbandonare la lotta contro quello che considera «il nemico sionista».

Insomma, si cerca di indorare la pillola. Fonti vicine a Hezbollah a Beirut affermano che, sebbene il ritiro dei combattenti a nord del fiume Litani possa essere interpretato come una concessione tattica, questo è in realtà un «adattamento temporaneo» al contesto attuale, «necessario per proteggere i civili» e preservare l’integrità del suo arsenale.

In realtà tutte le aree sciite legate a Hezbollah sono state sgomberate e in parte distrutte. Il Partito di Dio ha perso il suo segretario generale Hassan Nasrallah, è stato decimato l’alto comando militare e gran parte del suo arsenale. Questo non è certo un risultato paragonabile a quello del 2006 quando Hezbollah difese se stesso e il Libano bloccando l’avanzata di Israele nel sud.

IN QUEL MOMENTO Hezbollah aveva raggiunto il massimo della sua popolarità non solo nel Paese dei Cedri ma anche in buona parte del Medio Oriente, nonostante il Partito di Dio appartenga alla minoranza sciita e sia fortemente sostenuto dall’Iran.
Certo, Hezbollah è ancora qui e non si sconfigge un’idea, o un’ideologia ben radicata nella società, con una guerra.

Come pure Hamas è ancora qui nonostante i 45mila palestinesi uccisi a Gaza – di cui il 70% donne e bambini – e la decimazione della sua leadership. Lo ha dimostrato il passato che non si sradica la resistenza di un popolo. Però sono mesi che il Partito di Dio sbaglia i calcoli e sopravvaluta la sua forza nei confronti dell’avversario.

Questa è la logica che ha portato al disastro attuale. Con un’attenuante non da poco. Anche gli analisti militari meno favorevoli a Hezbollah pensavano che la resistenza libanese fosse comunque capace di infliggere danni importanti a Israele. E invece è stato Israele a sorprendere con una guerra tecnologica e molto cyber che ha decapitato la leadership e i quadri Hezbollah.

Una guerra che non ha rinunciato a fare tabula rasa senza alcuna pietà di tutto il Libano provocando migliaia di morti e danni per miliardi dollari, in un Paese già stremato dalla crisi economica e dall’afflusso di centinaia di migliaia di profughi.

MA SOPRATTUTTO perché questa è una tregua sporca? Il premier israeliano Benyamin Netanyahu non vuole solo sconfiggere l’asse iraniano. Vuole metterlo in ginocchio. Fare in modo che non sia più una minaccia nei prossimi decenni. E al tempo stesso vuole seppellire la questione palestinese. In altre parole: imporre una nuova realtà regionale. È il suo sogno da più di trent’anni.

L’elezione di Donald Trump potrebbe permettergli di realizzarlo.

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Si chiude la Conferenza sul clima a Baku, la Cop 29, all’indomani della rielezione di Trump

che potrebbe portare al ritiro degli Usa, mentre i complessi negoziati su obiettivi, risorse,

interventi, misurano la distanza tra le posizioni dei governi del mondo.

Ancor prima di cominciare la conferenza sul clima Cop 29 forse è colpita e affondata. Trump, neo
rieletto presidente degli Usa firmerebbe un ordine esecutivo per ritirare ancora una volta gli Stati
Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. E potrebbe farlo già nel suo primo giorno nello studio ovale,
anticipa il “Wall Street Journal”. Avviene però, su un altro piano, che i paesi cosiddetti in via di
sviluppo, per partecipare con cuore e sincerità alle scelte di Cop 29 sarebbero decisi a chiedere una
moltiplicazione per dieci dell’aiuto previsto nei confronti dei paesi più deboli (loro stessi). I paesi
ricchi – o considerati tali – per accedere alla richiesta che giudicano dirompente, vorrebbero almeno
coinvolgere gli emergenti, a partire dai Brics. Ammesso che questi ultimi accettino, questo non
sarebbe come consegnare le chiavi del globo a Xi? (La Cina è la C di Brics). E Trump potrebbe
accettarlo? Probabilmente sì, visto che il mondo extra America (Usa) non gli aggrada (questo è uno
sfacciato eufemismo); ma tutti gli altri capi, Musk in testa, non sarebbero d’accordo. Il motto è
quello di sempre. “L’America agli americani. E tutto il resto anche”. La questione è molto seria e
rischia di trasformare il circo di Baku in un evento importante. In ogni caso, il seguito di Baku Cop
29, guidata dal presidente azero Muxtar Babayev, sarà la Cop 30, guidata da Lula. Ne vedremo delle
belle.

1. Un’apertura a tutta pagina “à la une”, come dicono i francesi, di qualche anno fa su “Le Monde”
diceva così: “La fin du pétrole n’est pas pour demain”. La data è mercoledì 18 aprile 2018. Vi si
sostiene che quanto al petrolio, per le automobili non ci dovrebbero essere eccessivi problemi, ma è
ben diverso il problema di navi e aerei. Il vicolo cieco, “le point aveugle”, come dicono loro, non
sta però nei motori e nei carburanti per farli girare, ma è la petrolchimica. Come ridurla o perfino
farne a meno? Se le cose stavano così sette anni fa, i cambiamenti nella petrolchimica non sono mai
avvenuti; anzi l’aumento di domanda e offerta è imbarazzante.

2. La volontà di fare le cose sul serio, di vincere prima ancora di cominciare, consiste spesso nella
scelta del terreno di gioco. Chiaramente a Baku si sono avvantaggiati i petrolieri ed i loro amici,
mentre per i poveri ambientalisti la gara era persa in partenza.
Come pensate che voterebbe la popolazione del mondo, o quella dell’Europa, o della Cina,
dell’India, o quella della vostra città se a ogni abitante fosse chiesto di rispondere al drammatico
dilemma sul clima, articolato così: auto sì, auto no? Tram sì o tram no? Lavatrice e frigo sì o
lavatrice e frigo no? Oggi o tra vent’anni? Avendo la furberia di connettere al sì e al no utilità e
disagi reali e immediati?
I veri credenti del trionfo del “verde” odierebbero questo modo di porre la questione dando del
“quasi negazionista” a chi se ne serve.
Ripeterebbero gli argomenti, le cifre e le date proposte dal Wwf e da altri ambientalisti: per limitare
“il riscaldamento globale a non più di 1,5°C, le emissioni globali devono essere ridotte del 43%
entro il 2030, del 60% entro il 2035 e raggiungere lo zero netto entro il 2050. La
checklist NDCsWeWant del WWF indica elementi importanti che i Paesi dovrebbero includere nella
progettazione dei nuovi piani nazionali, in linea con questi obiettivi”.
Le NDC sono le Nationally determined contributions, i piani e i finanziamenti nazionali che ogni
Stato deve mettere in atto per contrastare il cambiamento climatico.
“Il primo inventario globale” all’apertura dei giochi di Baku, “ammette un quasi unanime consenso
sugli accordi di Parigi in tema di clima, ma nonostante tale progresso, il mondo non è in grado di
affrontare l’obiettivo della temperatura futura”. Nessun accordo “sui livelli di resilienza e di
mobilizzazione necessari a liberalizzare flussi finanziari da NDC (i contributi determinati a livello
nazionale) da adottare nel 2025, conosciuti anche come NDC 3.0.” (…) “NDC 3.0 deve essere
progressivo e più ambizioso dell’NDC consueto e può essere l’ultima opportunità per trascinare il
mondo sulla strada con la traiettoria di emissioni in linea con gli accordi di Parigi, nell’obiettivo di
1,5C’.” Sono parole, di fronte a fatti, come il frigo.

3. Vecchi film del tempo antico raccontano la fine del mondo, cioè la fine del genere umano, a volte
per uno scontro con un altro corpo celeste, inevitabile e repentino, a volte per una malattia diffusa e
invincibile, a volte, con più senso, descrivendo l’esito del già avvenuto, recente, conflitto nucleare.
Nel film post atomico si narra la fine di tutto. Prevalgono ormai buoni sentimenti, ricerca di affetti
perduti, forse non del tutto, oppure una riflessione su quanto non si è fatto, come studi, viaggi,
amori, rabbie, perdoni; e poi si mostrano città, un tempo vitali, ormai ridotte al silenzio. Il tempo è
di allora, di quando si aveva tutto quanto o lo si sarebbe potuto avere (o fare) e lo si è perso per
sempre; fino ad arrivare, riconciliati con la vita, all’ “ultima spiaggia”, a un suicidio sereno. Forse è
una metafora del nostro tempo incerto per via dell’effetto serra, un film come “L’ultima spiaggia”?
(“On the beach”, di Stanley Kramer, 1958).
Oppure è più coerente pensare al nostro tempo futuro come a un anno mille, pieno di paure,
apocalittico, leggendario, anno ultimo e finale, con tutti i terrori, le caverne sconosciute abitate da
draghi e demoni e streghe crudeli sempre pronte a punirci per colpe incomprensibili, inevitabili. Se
fosse così – gli storici hanno ben saputo raccontare l’anno mille e il giorno dopo, pieno di
agricolture nuove, nuove tecniche e opere, viaggi, scoperte, poemi, cattedrali e grandi navi. Cosa
porterà con sé, dopo di sé, Cop 29, dalla insolita Baku?

4. Una volta, negli incontri internazionali, la moda era quella de “Il Congresso si diverte”; ma erano
tempi in cui le delegazioni, lontane dalle capitali consuete, dai palazzi aviti e dalle guerre in corso,
si davano tempo e potevano aspettare tempi più calmi. L’esempio più noto è stato il famoso
Congresso di Vienna, le feste da ballo e le trattative dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia e
l’attesa preoccupata di saperne di più sulla sua rivincita, fino a Waterloo con il diavolo finalmente
incatenato a S. Elena.
Oggi non è più così e tutto sembra precipitare con velocità accelerata. Chi fa la parte di Napoleone
oggi? Forse Donald Trump che assicura di denunciare subito l’accordo di Parigi 2015 sul clima? Si
può fare la fragilissima pace climatica, con Napoleone contro?

5. La riunione del Cop 29 di Baku dura 12 giorni. Ricordarne i titoli offre già qualche indicazione
sul risultato finale e sulle scommesse tentate che hanno qualche effetto su come andrà la storia del
mondo nel corso dei secoli avvenire.
Il primo giorno, 11 novembre, è l’apertura: le delegazioni arrivano, si sistemano, si fanno visita. C’è
un primo quadro dei presenti e degli assenti; alcuni di questi ultimi ci tengono a farlo sapere: è il
segno del loro dissenso dalla riunione stessa. Alcuni paesi hanno deciso di non partecipare, altri
sono presenti, ostentatamente, senza i capi di Stato o di governo. I capi di Stato o di governo, quelli
presenti, fanno comparsa e dichiarazione durante il secondo e il terzo giorno. Dai tempi del
Congresso di Vienna in poi sono i giorni dei rapporti diplomatici, dedicati agli incontri e alle
dichiarazioni ufficiali dei vari leaders o capi (allora erano re e gran ministri) che vogliono far sapere
il loro impegno e il loro pensiero. Al quarto giorno il genere umano comincia davvero a fare i conti
con sé stesso; infatti il 14 novembre si discute di finanza e di annessi e connessi; e su tale
argomento torneremo. Il 15 novembre, quinto giorno, il tema previsto è l’energia; da un punto di
vista realistico è la questione cruciale: riguarda anche petrolio e gas, indispensabili per l’energia di
oggi nel globo; il mondo potrebbe sopravvivere senza plastica? Senza petrolchimica? Il giorno 16 è
la volta di scienza, tecnica, informatica e tutto il resto connesso; il 17 è una giornata di riposo; si
prevede di ripulire i saloni delle riunioni e delle feste, le cucine, gli alloggi e al tempo stesso – forse
– rimettere in tiro teste, pensieri e programmi delle tante realtà partecipanti; e la stampa e la
propaganda a rincorrere tutte le rivelazioni e le indiscrezioni del caso. Si ricomincia il 18 con lo
sviluppo umano come argomento: forse qualche delegazione porrà il tema della crescita-decrescita
della popolazione, (un guaio globale o una degna soluzione ambientale?) Del rapporto antico tra
maschi e femmine, delle nuove costumanze, quelle con sigle sempre più complesse; segue, al 19
novembre, la discussione sul cibo e sull’agricoltura; il 20, un altro problemino assai sentito: il tema
è la città, i trasporti, il connesso turismo; gran finale dei temi politici in discussione il giorno 21
novembre dedicato alla natura e alla biodiversità. L’ultimo giorno, 22 novembre, è dedicato a
negoziare e trattare.
Non si è lasciato indietro niente. O almeno così sembra. Ogni paese chiede impegni e date certe a
ogni altro; sono soprattutto i paesi economicamente più deboli a chiedere certezze ai ricchi o
presunti tali. Gli argomenti, pressanti, ben noti, sono due: noi paesi poveri vogliamo soldi per
ridurre l’uso dei fossili, cui siamo appena arrivati, da neppure cent’anni e per passare a nostra volta
a energie non inquinanti, come volete voi; vogliamo però anche denaro, per mangiare, curare la
nostra gente nel modo adeguato, farla studiare e imparare; vogliamo denaro sufficiente anche per
sopravvivere, altrimenti… Altrimenti vi invadiamo. Con i nostri migranti, è chiaro, non con le armi
e gli armati, come fareste voi. Il tema dei migranti non è però all’ordine del giorno. Come il voto al
Congresso di Vienna. Troppo indelicato trattarne.

6. Si discute di tutto questo, a Baku; intanto le persone venute chissà da dove si conosceranno e
cercheranno di imparare come si sta insieme e come si vive lontano. Come si può convivere,
crescere, essere liberi sia qui che là.
La finanza, argomento di discussione del 14 novembre è di certo un aspetto irrisolto dei vertici.
L’antica Cop 3, qualche decennio fa, all’indomani del protocollo di Kyoto, indicava con chiarezza
l’impossibilità pratica di raggiungere un accordo perfino tra le delegazioni di Unione Europea e
Stati Uniti.
Si può rileggere nello scritto di Gian Guido Piani su “Il protocollo di Kyoto adempimento e sviluppi
futuri” (Zanichelli Editore, 2008) un paio di frasi: “Il progetto sarà in grado di ripagarsi e generare
un margine ragionevole di profitto, cioè vale la pena di realizzarlo?”. Oppure, “Qual è il risultato
economico del progetto rispetto ad altri in alternativa?”. Oggi l’esistenza di altre notevoli forze nel
globo, quanto a dire di altre voci nella discussione, per esempio i paesi del Brics (Brasile, Russia,
India, Cina, Sudafrica) ma non solo essi, rende più complicata la pratica, prevista in teoria, di
fissare gli impegni dei paesi più ricchi, in concorrenza o antagonismo tra loro, con una serie di
varianti molto difficili da interpretare. Occorrerà molta pazienza, molto buon senso, negli affari e
non solo, per tirarne fuori un modello accettabile.

7. Le proposte messe in campo si riducono a tre con qualche variante inevitabile: la prima è tassare
il trasporto di merci, poi il trasporto di persone – compreso il turismo – poi ancora il traffico di
valuta. Il trasporto marittimo di merci rappresenta il 3 per cento delle emissioni mondiali di gas
serra. Continuando con l’esposizione che ne fa “Le Monde” di sabato 16 novembre 2024 nelle
pagine Planète, “una tassa da 150 a 300 dollari per tonnellate equivalenti di CO2 potrebbe valere
fino a 127 miliardi di dollari ogni anno tra 2027 e 2030…. L’idea di un tale prelevamento rientra
nelle opzioni nel piano d’azione che l’Omi, l’Organisation maritime internationale, deve presentare
nel 2025 per raggiungere la neutralità fossile nel 2050.” Si guarda anche al settore aereo
responsabile del 2 per cento delle emissioni mondiali. “Gli esperti propongono di tassare il
cherosene degli aerei commerciali e privati” con un introito di 18 miliardi dollari con una tassa di
0,33 euro per litro.
Qualcuno suggerisce anche una tassa sui biglietti o un’altra sui voli dei ricchi – i voli con jet privati,
oppure i frequenti voli turistici di Tizio o di Caia, che da sanzionarsi con tasse crescenti – e questo è
il secondo punto possibile. Poi vi sono le misure più sbrigative nei confronti dei movimenti di
finanza internazionale; per esempio un aggravio di X centesimi di dollaro o di euro per ogni
trasferimento internazionale di valuta. Ne seguirebbe la raccolta di un peculio cospicuo senza
infastidire minimamente gli operatori.

8. Siccome l’appetito vien mangiando si sottolinea il disaccordo tra paesi “in via di sviluppo” che
vogliono moltiplicare per dieci “gli aiuti” dei paesi ricchi, da cento a mille miliardi almeno, mentre i
ricchi sono in disaccordo. Da un lato, senza dirlo troppo, non tutti questi ultimi sono disposti a
favorire, con miliardi regalati, l’espansione di probabili concorrenti in ogni campo, con merci simili
e prezzi assai ridotti. D’altra parte proclamano la necessità di iscrivere i Brics, o almeno una parte
di essi, al Circolo dei Benestanti, o come altro lo vogliamo chiamare.

9. Solo un cataclisma (una volta si sarebbe detto una rivoluzione) potrebbe convincere quelli del
Circolo dei Benestanti ad aprire le porte, le città e i forzieri ad altra gente, talvolta arrivata per mare.
Certo è una situazione difficile; chissà che Lula in occasione di Cop 30 non ne inventi una delle sue.

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