Le fiamme di Aleppo È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale
Jihadisti in posa davanti alla cittadella di Aleppo – Ap
Nei calcoli di Mosca, doveva essere Kyiv a cadere in tre giorni, non Aleppo. Così i russi hanno cacciato il loro comandante, costretti a guardarsi le spalle, con un occhio alle proprie basi navali di Tartus e Latakia, cuore della proiezione nel Mediterraneo (Cirenaica) e in Africa. Negli ultimi cinque anni il mondo ha coltivato l’illusione che i fronti siriani, lungo i quali si sa dove si comincia ma raramente dove si va a finire, si fossero in qualche modo cristallizzati. Troppo difficile seguirne le dinamiche tutt’altro che lineari.
Dinamiche dove il nemico non è mai uno solo, e logiche fra loro diverse guidano gli interventi di molteplici attori esterni: la Russia e gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Iran e la Turchia.
Da più parti si è sottolineato il modo dirompente in cui, partendo dalla roccaforte di Idlib, i miliziani jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ricondizionati in veste islamo-nazionalista, hanno messo a nudo la debolezza del regime di Assad, raddoppiando l’estensione di territorio su cui esercitano controllo, imboccando l’autostrada M5 verso Hama (dove al momento si trova la linea del fronte), puntando su Homs (la città-martire, cruciale per il controllo della costa) in direzione Damasco (la cui sola idea di conquista ha significati simbolici immensi). Si è scritto dell’indecifrabilità di ciò che accade nella cerchia di potere del regime, e di come le forze armate, costituite da una congerie di milizie demoralizzate, dipendano dal supporto militare esterno.
Per Teheran la sopravvivenza del regime degli Assad, amico sin dalla guerra Iran-Iraq, è strategicamente imprescindibile, a partire dalla connessione territoriale con il Libano. Impegnato nella propria sopravvivenza in casa, nel pieno di un cessate-il-fuoco quantomai instabile, Hezbollah, che proprio in Siria si è distinto come forza militare regionale, ha dovuto dichiarare di non poter inviare truppe. Tutto ciò che è arrivato, finora, sono qualche centinaio di miliziani sciiti dall’Iraq.
Sull’altro versante, il leader di Hts, al-Jolani, è riuscito negli anni a smarcarsi tanto dall’Isis quanto da al-Qaida, per poi accreditarsi con Ankara e portare la Turchia nel cuore delle guerre siriane. È infatti solo dal terzo giorno dell’offensiva di Hts che la coalizione di miliziani prezzolati da Ankara, convergendo su Aleppo, ha aperto un nuovo fronte contro le Syrian Democratic Forces (Sdf) a guida curda. Sviluppatosi all’ombra del primo, questo secondo fronte appare ogni giorno più importante: è qui, infatti, che vediamo i curdi di Aleppo, assediati, incolonnarsi in uscita dalla città. Ed è sempre qui che i curdi hanno dovuto cedere l’enclave di Tal Rifaat, da sempre una spina del fianco per Erdogan. Qui vediamo miliziani jihadisti trascinare le combattenti curde sui camion, esibite come trofei di guerra.
Dietro alle quinte, la partita in questi anni è stata giocata su quanto concedere alla persistente richiesta turca – osteggiata dagli Usa di Obama al tempo dell’intervento a difesa di Kobane – di estendere lungo il proprio confine con la Siria una propria fascia di sicurezza contro le formazioni curde. Occorre ricordare come già nel 1998, la Russia in cui Putin era a capo del servizio segreto negoziò l’espulsione del leader del Pkk Abdullah Ocalan da Damasco e una fascia sul confine di tre miglia dove colpire, previo assenso di Damasco. Il Putin di oggi non ha fatto che riproporre le medesime linee di riconciliazione turco-siriana: con il problema che Erdogan oggi occupa militarmente, anche tramite le predatorie milizie islamiste che foraggia, diverse regioni a ridosso del confine, mentre insiste su una fascia di sicurezza profonda ben 22 miglia. La novità è che dalla scorsa estate Damasco non insiste più sul ritiro immediato delle truppe turche da Jarablus, Azaz, al-Bab e Afrin, ma mostra incline ad accettare un impegno graduale nel futuro. Questo piano, tuttavia, sembrerebbe naufragato proprio attorno alle modalità previste per liberarsi dell’autogoverno curdo a Est dell’Eufrate, nonché delle forze statunitensi qui stazionate: Erdogan si è mostrato scettico circa il fatto che, all’indomani di un’operazione che avrebbe dovuto vedere nientemento che il supporto dell’aviazione turca (con rischio di escalation con l’alleato americano) le truppe di Damasco avrebbero poi ceduto l’effettivo controllo sul Nord.
È noto che Donald Trump intende portare a termine il disimpegno delle forze statunitensi dal Nord-Est della Siria: un ritiro che già aveva iniziato, scontrandosi i comandi dell’esercito, nel corso del suo primo mandato presidenziale. Qui i militari americani affiancano le Sdf nelle azioni anti-Isis. La notizia di ieri, gli scontri fra le Sdf e le forze di Damasco nella regione semidesertica di deir Ezzor è importante perché segna la fine di uno stato di non aggressione fra curdi e regime. La versione dei primi è di essere intervenuti davanti al rinfocolarsi di attività delle milizie dell’Isis, che – galvanizzate dalle avanzate jihadiste – avrebbero colto l’opportunità per cercare di colpire alle spalle. È evidente, tuttavia, che c’è una posta più grande sul tavolo, ed essa riguarda il destino stesso dell’autogoverno guidato dalle forze di difesa curde. Resta da vedere fin dove si spingeranno le offensive: oltre quale linea, chi inizialmente ha gioito per i duri colpi inferti ad Assad, iraniani e russi, inizierà a temere di perdere il controllo in mosaico siriano delicatissimo, incastonato in un Medio Oriente in cui la deterrenza non pare più funzionare per nessuno.
Aleppo, la grande città-mercato della borghesia sunnita che infine si sentì tradita dal regime, venne riconquistata da Damasco dopo tre anni di massacri. Era l’inizio del 2016 e incombeva la prima presidenza Trump. Russia e Iran si affacciavano con un loro successo su mondo più unipolare di quello di oggi, e sancivano come l’opposizione siriana non potesse rappresentare un’alternativa credibile ad Assad. Alla vigilia di un nuovo mandato per Trump, gli equilibri più fragili iniziano a saltare, mentre i fronti di guerre fra loro distanti appaiono più che mai fra loro connessi, e a noi vicini.
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Scenari Inflazione, produzione e scambi. Le ultime proiezioni del Fondo mondiale internazionale disegnano un quadro mediocre. Che rischia di rivelarsi persino ottimistico
Vari simboli di valute monetarie su un marciapiede a Mosca, in Russia – Maxim Shipenkov/Ansa
La proiezione di ottobre 2024 del Fondo monetario internazionale per l’economia mondiale nel 2025-2029 ruota attorno al numero tre: una dinamica sul 3% l’anno del Pil, degli scambi fra paesi, dei prezzi al consumo. Lo stesso Fmi definisce deludente la prospettiva della crescita.
Se il quadro è mediocre, non si deve escludere che risulti ottimistico.
Su scala mondiale l’inflazione potrebbe essere più alta, lo sviluppo della produzione e degli scambi inferiore, le tensioni geopolitiche esplosive. Ciò per il concorso di cinque possibili motivi: calo dell’offerta; espansione della domanda; banche centrali incerte; bassa produttività; crisi della cooperazione internazionale.
Autarchia, protezionismo, conflitti e tensioni geopolitiche stanno frantumando le relazioni commerciali e finanziarie internazionali.
Comportano un generale aggravio dei costi, un restringimento dell’offerta aggregata di beni e servizi. Ceteris paribus uno shock d’offerta di tale segno contrae attività economica e occupazione, innalza il livello dei prezzi. L’autarchia assume la forma di sussidi statali ancora più cospicui degli attuali alle produzioni nazionali, anche alle imprese meno efficienti, incapaci di sostenere la concorrenza estera. È negativa e distorsiva più dello stesso protezionismo. La guerra non appena li utilizza consuma i beni militari, che è poi molto oneroso riprodurre, e spiazza i beni e i servizi civili, aumentando così i costi e i prezzi complessivi. Non a caso Keynes, pacifista, cento anni fa diceva (nella Fine del laissez-faire) che «le merci e i servizi ottenuti con le spese militari sono destinati a estinzione immediata e infruttifera».
ALLO SHOCK D’OFFERTA potrebbe unirsi uno shock di domanda: una espansione della domanda aggregata mondiale legata a due fattori. Ovunque si stanno pianificando e attuando spese militari aggiuntive, che moltiplicano la domanda globale. Inoltre negli Stati uniti la nuova amministrazione darebbe concreto seguito alla duplice promessa con cui Trump ha vinto le elezioni per «rendere di nuovo grande l’America»: effettuare nel medio termine maggiore spesa pubblica per almeno 7,5 trilioni di dollari (25% del Pil attuale!), bloccare l’immigrazione ed espellere immigrati sebbene vi siano pieno impiego e scarsità di manodopera. Già attraverso le aspettative l’effetto inflazionistico sarebbe molto forte. Date le dimensioni dell’economia americana, come è avvenuto nel 2021 e nel 2022 prima della guerra in Ucraina, dagli Usa l’inflazione si estenderebbe al resto del mondo
I TASSI D’INTERESSE, già calmierati in termini reali dall’attuale inflazione core, si stanno ulteriormente riducendo. Nell’abbassare i tassi nominali le banche centrali sono condizionate dalla pressione miope della politica e del mondo degli affari, in particolare di chi specula sui mercati finanziari. Ma se l’inflazione ripartisse il prezzo del danaro potrebbe bruscamente salire, sgonfiando le borse sopravvalutate e frenando direttamente gli investimenti. Lo shock d’offerta tenderebbe allora a risolversi nel peggiore degli scenari: inflazione e disoccupazione. Se invece le banche centrali lasciassero i tassi invariati o continuassero a ridurli e la domanda globale si dilatasse l’aumento della disoccupazione ne risulterebbe contenuto, ma l’inflazione sarebbe più alta. Si riproporrebbe comunque il dilemma della stagflation.
PARTICOLARMENTE INCERTA in questo quadro incerto è la produttività. Il suo incremento stabilizzerebbe i prezzi e favorirebbe la crescita più della stessa accumulazione di capitale. Ma nell’ultimo ventennio la dinamica della produttività totale dei fattori nei paesi dell’Ocse ha progredito solo dello zero virgola per cento l’anno. Ict e Intelligenza artificiale non hanno ancora dispiegato l’effetto sperato, di estendere la produttività agli altri settori.
CIÒ CHE È PIÙ GRAVE, la cooperazione economica internazionale e la stessa pace sono minate da autarchia, protezionismo, conflitti, ma anche dall’affermarsi di paesi nuovi. Vi si unisce la fragilità, economica e politico-istituzionale, degli Usa, dove la stessa democrazia è scossa dall’asprezza dello scontro fra i partiti, da tensioni sociali, da spinte centrifughe. Gli equilibri mondiali stanno quindi attraversando una fase di transizione confusa, imprevedibile negli sbocchi. Ai cinque originari Brics ( Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) si sono aggiunti dal Egitto, Emirati Arabi uniti, Etiopia, Iran. Decine di altre nazioni hanno deciso di candidarsi.
Se una parte venisse accolta il club supererebbe la metà dell’economia del globo. In questo molto variegato consesso anti-occidentale al di là delle motivazioni politiche v’è un intento economico comune, che ne riassume altri: sottrarsi al signoraggio del dollaro. L’accettazione del dollaro ha sinora consentito agli Usa di indebitarsi verso l’estero, di vivere per decenni al disopra delle proprie risorse col risparmio che i paesi creditori non impiegano al loro interno e trasferiscono all’economia americana.
Dal dopoguerra il mondo ha beneficiato di una pax americana, non solo economica. Ma le debolezze attuali degli Stati uniti suscitano dubbi sulla loro primazia. La finanza statale è dissestata, con un disavanzo superiore al 7% del Pil e un debito che travalica ormai il 120% del Pil sommandosi a un debito privato pur esso alto. Con buona pace del rapporto Draghi l’economia è ancor meno competitiva di quella europea. Per lo scemare della concorrenza interna la crescita della produttività totale dei fattori dall’1,9% l’anno del 1920-1970 si è ridotta nell’ultimo ventennio allo “zero virgola”, come in altri paesi.
Dal 2009 la competitività in termini sia di costo unitario del lavoro sia di prezzi è scemata di un terzo. La bilancia dei pagamenti correnti è afflitta da un passivo strutturale, giunto a sfiorare il trilione di dollari l’anno. La posizione debitoria netta verso l’estero è quindi in continua ascesa e già varca 23 trilioni, l’80% del Pil. Una vendita di dollari da parte della Cina e la sfiducia nella moneta di riserva alimenterebbero la stagflation. Le crepe nella cooperazione fra paesi la renderebbero più difficile da governare.
Come in passato, lo sbocco peggiore delle contraddizioni e dei contrasti interni al capitalismo è la guerra. Forse non è nell’interesse di una Cina tuttora bisognosa di progresso economico. Forse la Russia non ha la forza economica per sostenerla. L’Europa non ha il peso geopolitico. Gli Usa, consci di essere sfidati perché indeboliti, potrebbero far leva sullo strapotere militare. Come spesso accade, il verificarsi di un insieme di eventi sfavorevoli non è valutabile in termini di probabilità commensurabili. Tuttavia la logica – non dimostrativa – e l’analisi empirica invitano a non escludere lo scenario più negativo.
* Pierluigi Ciocca è un banchiere ed economista italiano, è stato vicedirettore generale della Banca d'Italia dal 1995 al 2006
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La mobilitazione Oggi e domani a Schengjin e Tirana proteste contro i centri di detenzione per migranti
Un gruppo di giovani attivisti albanesi hanno protestato oggi davanti al porto di Shengjin dove questa mattina la nave Libra della marina militare italiana, ha sbarcato 16 migranti – ARMAND MERO
Le roboanti dichiarazioni e le conferenze stampa spettacolari sembrano un lontano ricordo. Sul campo, regna il silenzio. Per gli italiani che lavorano in Albania, ben più pagati e meglio trattati rispetto ai colleghi albanesi, questa missione sembra ormai una sfida alla noia.
A Tirana non si discute molto del fallimento del protocollo. Nel pieno della discussione sul bilancio dello Stato albanese, a tenere banco sono le partecipatissime proteste dei pensionati. Proteste che hanno costretto Edi Rama a varare un bonus di fine anno che varia dai 100 ai 150 euro. Ma si discute anche dei regolamenti di conti della criminalità organizzata, dell’uccisione di un ventottenne figlio di un ex magistrato, di violenza giovanile dopo la morte per accoltellamento di un ragazzo di 14 anni da parte di un altro adolescente nei pressi della scuola elementare più nota e centrale della Capitale. Edi Rama ha annunciato di voler imporre una stretta ai social network a partire da TikTok e Snapchat, accusati di veicolare modelli diseducativi.
A rompere il silenzio che sta calando sul protocollo Rama-Meloni sarà il Network Against Migrant Detention che dopo la conferenza stampa che si è tenuta il 6 novembre a Tirana ha rilanciato per oggi e domani una due giorni di mobilitazioni con l’obiettivo di portare la protesta nei centri per migranti di Shengjin e Gjader, oltre che nei palazzi del potere della capitale.
Il network è una vera e propria alleanza di attiviste e attivisti albanesi, italiani e italoalbanesi che si sta allargando anche a Grecia, Spagna e Germania. La critica ai Cpr come modello di detenzione amministrativa lesiva dei diritti e della dignità umana è l’innesco per la critica alla violazione della sovranità albanese sul proprio territorio e all’approccio neocoloniale italiano, all’esternalizzazione delle frontiere europee, allo smantellamento dei principi fondanti del diritto d’asilo. Un’alleanza alla pari, dunque, che ribalta la retorica sull’amicizia, la riconoscenza e il debito che gli albanesi avrebbero nei confronti dell’Italia e che sono stati centrali nella costruzione della narrazione sull’accordo.
La posta in palio è altissima: dare l’ultima spallata al protocollo è necessario per porre un argine alla moltiplicazione di un modello che gli altri paesi europei vorrebbero replicare. Ma l’affermazione della libertà di movimento non passa solamente dalle mani dei magistrati italiani e della Corte di Giustizia dell’Ue.
Il 28 e 29 novembre sono state celebrate le due feste più importanti di un’Albania che spera finalmente di entrare nell’Unione europea: l’indipendenza dall’impero ottomano e la liberazione dall’occupazione nazifascista. Le centinaia di attiviste e attivisti che chiederanno ai militari italiani di tornarsene a casa propria, restituiranno in parte quanto fu fatto a migliaia di albanesi negli anni ’90. Sono certo che saranno di nuovo i benvenuti, una volta dismesso il ruolo di carcerieri di lager per migranti.
* L’autore è consigliere comunale di Bologna, eletto con Coalizione civica
Commenta (0 Commenti)Dall’Italia agli Stati Uniti Il rischio più che concreto è quello di abitare un mondo sconvolto dalla policrisi, con uno Stato del tutto incapace di proteggere i bisogni fondamentali delle persone e con “capi politici” sempre più isolati dal controllo democratico
Il governo delle destre che, con tutte le sfumature possibili del nero, dall’Italia agli Stati Uniti segna questa fase politica, è una commistione tra pensiero reazionario, tecno-finanziarizzazione e chiusura dei già residuali spazi democratici. Una nuova configurazione di poteri tecno-economici, potremmo dire, alleati con la destra per rispondere alla diffusa richiesta politica di “protezione e controllo”. Certo le istituzioni sono ancora il luogo dove le regole del gioco vengono disegnate, il codice del capitale prende forma e si decidono ammontare e direzione degli investimenti pubblici. Dove si sceglie a chi prendere e a chi dare; chi punire e chi premiare, chi indebolire e chi rafforzare. Decenni di narrazione sull’iperglobalizzazione hanno messo in ombra il ruolo che le istituzioni, anche quelle nazionali, possono svolgere in questa o quella direzione. Le destre al governo non si sviluppano dunque nell’anti-politica del primo Trump o nella post-politica della terza via di Blair e Veltroni, ma nell’iper-politica del tempo attuale. Lo fanno tramite la politicizzazione del quotidiano, in assenza però di intermediazione organizzata (se non quella dei media) e senza un discorso ideologico (se non quello del senso comune). La politica è ovunque fuorché nelle istituzioni, che sono occupate dalla nuova configurazione dei poteri, per riprendere la bella tesi di Anton Jäger (Iperpolitica, Nero Edizioni, 2024).
Anche per questo, non va trascurata la nomina di Elon Musk e Vivek Ramaswamy a capo del nuovo DOGE (Department of Government Efficiency). L’idea alla base della nascita del DOGE riflette la critica di lunga data di Trump agli “sprechi burocratici”, una critica che lo accomuna al governo di Giorgia Meloni e ad altri governi di destra, che oggi – a differenza del passato – biasimano apertamente le strutture dello Stato, specie quelli più autonomi dal controllo diretto del potere politico. Qualcosa di molto lontano dalla concezione fascista, per la quale: “tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”, come scritto alla voce Dottrina del fascismo dell’Enciclopedia Italiana, redatta per metà da Giovanni Gentile e per l’altra metà da Benito Mussolini.
In questo quadro, è del tutto plausibile attendersi che organismi come il National Institutes of Health (NIH) e la National Science Foundation (NSF) saranno sottoposti a un sempre maggiore controllo e definanziamento, magari in nome della necessità di privilegiare progetti “utili” e di “mobilitare i capitali privati”. La chiusura delle agenzie che si occupano di “regolazione” va nella stessa direzione: la messa in mora della capacità amministrativa e regolativa dell’apparato statale. La decostruzione intenzionale dello Stato è dunque la cifra delle destre al Governo. La produzione sistematica dell’ingovernabilità, l’uso politico dei codici di comportamento, il blocco del turn-over, il definanziamento, sono parte di un disegno volto a incapacitare l’azione pubblica.
La declinazione specifica di questo disegno politico – come del resto è già avvenuto per la diffusione del neoliberalismo – si adatta alle particolarità e alla storia dei singoli Paesi. Nel caso americano, il sogno reaganiano di uno Stato più piccolo è si è evoluto – attraverso il cospirazionismo dello “Stato profondo” – in una domanda di assenza dello Stato. In questa chiave, la scelta di affidare a persone palesemente inadeguate i ruoli chiave dell’azione dei ministeri è ciò che permette, nel contempo, di confermare l’inutilità dello Stato e invocare la forza della politica “che sa decidere”. Il rafforzamento del potere esecutivo e la fedeltà assoluta al “capo” previste dal “premierato” sono al servizio di questi scopi.
L’etica dell’ingovernabilità – cioè l’azione del Governo contro l’architettura dello Stato – diventa anche il terreno di competizione dell’arena politica. Per questo, essere di sinistra, oggi, significa anzitutto opporsi al tentativo della “politica decidente” e plebiscitaria di erodere lo Stato, di scarnificarne le funzioni e di cancellarne le leve operative. Significa combattere il definanziamento del SSN, opporsi ai tagli all’Università, sostenere una massiccia politica di assunzioni di giovani nella Pubblica Amministrazione, proporre un ruolo per la regolazione pubblica nella lotta al cambiamento climatico, mettere in prima piano la giustizia fiscale, rinforzare il rapporto tra Stato, territori e diritti di cittadinanza. L’attacco alla separazione dei poteri e il rifiuto del diritto come orizzonte comune della dialettica politica vanno letti in questo quadro. Il rischio più che concreto è quello di abitare un mondo sconvolto dalla policrisi, con uno Stato del tutto incapace di proteggere i bisogni fondamentali delle persone e con “capi politici” sempre più isolati dal controllo democratico. Non un orizzonte che si possa guardare con serenità.
@FilBarbera
Commenta (0 Commenti)Siria in fiamme I jihadisti, rinobilitati sui nostri media come “i ribelli”, avanzano in modo fulmineo sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele e dagli Usa che hanno qui la base militare
Un gruppo di jihadisti calpestano il ritratto del presidente siriano Bashar al-Assad ad Aleppo – foto Ansa
Aleppo, come l’irachena Mosul, è una delle «città martiri» del Medio Oriente e forse era destino della Siria che da qui tutto dovesse ricominciare, da quella qalat, la millenaria cittadella fortificata, che non l’ha mai salvata da nessuna guerra, dove anni fa raccolsi sui gradoni uno degli ultimi chiodi rimasti conficcati per secoli nel grande portale di legno frantumato dalle battaglie brutali tra l’esercito siriano e i jihadisti. Per anni la città, fino al 2016, è stata sotto le bombe dei ribelli, dei barili esplosivi del regime di Damasco, dei raid dei jet russi, sgretolata, lacerata, affamata e con migliaia di cadaveri sepolti in fretta nelle fosse comuni.
La tregua in Libano non era ancora cominciata che il primo ministro israeliano Netanyahu aveva già annunciato il suo piano di destabilizzazione della regione: lo stato ebraico vuole avere la possibilità di concentrarsi sull’Iran e la battaglia contro la sua influenza coinvolge inevitabilmente la Siria di Assad dove Israele occupa dal 1967 le alture del Golan e tiene nel mirino da anni i suoi rivali. E così da Idlib i demoni del jihadismo, si sono risvegliati con un’avanzata fulminea sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele, dagli Stati uniti, che hanno qui la base militare a guardia ai pozzi petroliferi, contrastati dalle deboli forze di Assad, dai pasdaran iraniani, dagli ultimi Hezbollah rimasti e dall’aviazione russa, intervenuta con ritardo e forse con poca convinzione. E così i tagliagole jihadisti sono tornati a nobilitarsi sui nostri media come “i ribelli”.
Tra Putin e Netanyahu, che negli ultimi giorni sono tornati in contatto, intercorre un vecchio patto non scritto: Mosca, intervenuta direttamente a sostegno di Assad nel 2015 _ quattro anni dopo la rivolta cominciata nel marzo del 2011 _ ha sempre debolmente protestato contro i centinaia di raid dello stato ebraico in Siria e questo nonostante Assad sia un alleato di Mosca come pure lo sono l’Iran, fornitore di droni a Mosca, e gli Hezbollah. Bisogna ricordare che senza la regia del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 dagli americani, lo stato islamico (Isis) e i gruppi jihadisti affiliati di Al Qaida avrebbero conquistato dopo Mosul in Iraq anche Aleppo e forse Damasco.
Ma il patto Putin-Netanyahu ha resistito al punto che Israele ha persino bombardato, senza concrete reazioni di Mosca, un edificio dell’ambasciata iraniana a Damasco. Ci sono 1,5 milioni di cittadini israeliani di lingua russa e 80-100mila israeliani in Russia, mentre gli oligarchi russi fanno affari tra Tel Aviv a Dubai e il ben noto miliardario russo Abramovic da qualche tempo è diventato il più ricco cittadino di Israele. Per tutti questi legami redditizi dal punto di vista economico il dittatore russo e il premier israeliano – che al Cremlino è stato sei volte – cercano di non pestarsi i piedi, al punto che Netanyahu non sopporta il leader ucraino Zelenski pur di origine ebraica. Sul Libano e la Siria l’ambiguità russa è palpabile.
Come pure avevano resistito, tra mille difficoltà, fino a questa offensiva jihadista i patti scaturiti dal cosiddetto “processo di Astana” con il quale Russia, Iran e Turchia si erano accordati per stabilire le zone di de- escalation che includevano il governatorato di Idlib e i distretti adiacenti di Hama, Aleppo e Latakia. Ma con la guerra del Libano e i durissimi colpi assestati da Israele a Hezbollah e agli alleati di Teheran il fronte siriano si è clamorosamente indebolito. In poche parole l’Iran non è più in grado con i suoi pasdaran – nel mirino costante di Israele – di tenere in piedi pezzi strategici della Siria – porti e autostrade – che erano serviti finora come anelli decisivi nella catena di rifornimento militare.
Erdogan ha quindi deciso di approfittarne dando il via libera ai jihadisti con l’obiettivo di impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord, tenere sotto controllo i curdi e poi magari usare questi territori per liberarsi di milioni di profughi siriani, forse il suo obiettivo più stringente. Assad è assai debole, l’Iran è in crisi, Hezbollah deve ripiegare e Putin è sempre più assorbito dall’offensiva in Ucraina. Così ora il leader turco – che strepita assai sul destino dei palestinesi senza fare nulla di concreto – ha nuove carte in mano per negoziare con Putin e Assad, con gli americani e anche con Israele.
Quanto a Netanyahu il suo obiettivo immediato è impedire a Hezbollah di ricostruire il proprio arsenale militare, in parte distrutto con i bombardamenti a tappeto in Libano. Le filiere del transito di armi e dei componenti dei missili assemblati nelle strutture clandestine di Hezbollah passano dalla Siria. Israele bombarda regolarmente obiettivi in territorio siriano legati all’Iran e a Hezbollah: poche ore prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco libanese l’aviazione israeliana ha distrutto tre varchi tra la Siria e il Libano, lanciando un messaggio chiaro. Poi Netanyahu ha chiesto a Putin di bloccare i traffici di Hezbollah nel porto siriano di Latakia dove c’è la base navale russa.
La destabilizzazione della Siria serve a Netanyahu per colpire il bersaglio grosso del premier, ovvero l’Iran: questa è la parte più importante del suo piano che sottoporrà Trump una volta insediato alla Casa Bianca. Piegati gli Hezbollah, decimati i palestinesi, frantumata la Siria, pronti a colpire l’Iran, l’asse israelo-americano vede più vicino il progetto “imperiale” di fare dello stato ebraico l’incontrastata superpotenza della regione.
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