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Siria Il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese ridotto a condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni

Un uomo siriano con la bandiera dell'opposizione siriana passa accanto a una foto del deposto presidente siriano Bashar Assad foto Ap Unuomo con la bandiera dell'opposizione siriana passa accanto a un poster rimosso del deposto presidente Bashar Assad

Nessuno può uscire indenne da una guerra civile che in Siria ha frantumato il Paese in mille pezzi, con milioni di profughi: oltre 12 milioni di siriani in questi anni hanno dovuto lasciare le loro case, la metà fuggendo fuori dai confini.

PAESI TRA I PIÙ FORTI E RICCHI del mondo arabo in una generazione si sono disintegrati e in Siria il regime è evaporato senza opporre resistenza: un segnale positivo – non ci sono state troppe vittime – ma anche negativo perché significa che lo stato si è dissolto quando lo hanno abbandonato i suoi sponsor principali, Russia, Iran e Hezbollah. Questo significa che il suo esercito non ha combattuto perché sapeva di battersi per un clan, quello degli Assad, e non più per una nazione e uno stato. L’esercito si è liquefatto, come quello iracheno nel 2014 davanti all’Isis, anche prima dell’offensiva dell’Hts e dei suoi alleati filo-turchi: aveva perso motivazione, è stato umiliato da servizi segreti che trattavano i generali come camerieri al servizio del clan al potere.

La Siria è stata ridotta a una scatola vuota, desertificata come i corridoi abbandonati del palazzo di Assad, svalutata come le banconote razziate alla Banca centrale di Damasco.

Un finale triste perché con il regime è stato archiviato per sempre il partito Baath. Fondato in Siria nel dopoguerra da un greco ortodosso, Michel Aflaq, e da un sunnita, Salah Bitar, il partito Baath era nelle mani insanguinate degli Assad mentre quello iracheno di Saddam Hussein era stato sciolto, con l’esercito, dagli Usa. Non restava quasi nulla dell’ideologia socialista e panaraba originaria – che aveva segnato negli anni Sessanta il riscatto dei più poveri di fronte alle strutture feudali – se non il principio della laicità dello stato. Un giorno qualcuno lo ricorderà.

SI PONE QUINDI IL PROBLEMA urgente che abbiamo visto altre volte: il cambio di regime implica la ricostruzione dello stato, della società civile e di quella politica in un Paese già ridotto a una sorta di condominio militare di grandi potenze e di mille fazioni. In realtà è già iniziata una nuova spartizione, perché quella precedente non ha retto.

Israele vuole la sua “fascia di sicurezza” e ha cominciato a prendersi a sud il versante siriano del Golan – non accadeva dal 1973 – e a bombardare ogni bersaglio “utile”: prima erano pasdaran iraniani e Hezbollah, adesso caserme, basi aeree e depositi di armi, affermando che non devono cadere in mano a gruppi «ostili». Tra gli ostili non ha nominato Hts, il movimento salafita di Al Julani sponsorizzato dalla Turchia, ma è chiaro cosa pensa lo stato ebraico: la Siria, come l’Iraq, come la Libia – e un giorno forse l’Iran – non deve avere un apparato bellico che possa minimamente minacciarlo.

Israele sta massimizzando la guerra lanciata dopo il 7 ottobre: ha steso al tappeto la mezzaluna sciita, gli Hezbollah vengono martellati ogni giorno nel Sud del Libano, ha sbriciolato con l’attacco del 26 ottobre le difese aeree iraniane. Assad è caduto anche per questo e gli effetti si sentiranno a breve in Libano.

LA CADUTA DI ASSAD ha suscitato reazioni forti in un Paese con una lunga storia di interazioni complesse con il vicino siriano. Politici e leader religiosi libanesi hanno commentato l’evento con dichiarazioni che riflettono non solo i sentimenti legati alla fine del regime siriano ma anche le implicazioni che potrà avere sul futuro. Il Libano con una fragile tregua non è uscito ancora dalla guerra e come in passato può entrare nella centrifuga dei conflitti interni.

La spartizione della Siria coinvolge in pieno la Turchia sponsor dei ribelli jihadisti e non da oggi. Erdogan, come Israele, vuole ampliare la sua “fascia di sicurezza” di almeno 40 km fino alla periferia di Aleppo e puntare verso i curdi che secondo i suoi piani non devono avere uno stato e neppure un’autonomia nel Rojava. Intensi scontri armati sono in corso nel nord della Siria al confine con la Turchia tra le fazioni filo-turche e i rivali curdi. Questi erano anche alleati degli Usa nella lotta al Califfato ma Trump – che già in passato li aveva lasciati alla mercé dei turchi – dice di non volere essere coinvolto. Ma gli Usa, che hanno un contingente in Siria, sono sempre attori di primo piano in Medio Oriente e la Turchia è un Paese Nato mentre Israele è il maggiore alleato degli Usa. Solo uno sprovveduto può pensare di stare in Medio Oriente affacciato a un balcone a guardare gli eventi.

COSA CONTROLLA OGGI Al Julani che ha nominato il nuovo premier Mohammed al Bashir promettendo che le donne non dovranno portare il velo e l’amnistia per i soldati? Una parte importante della Siria, ma lo attendono milizie alauite, druse e quelle dell’Isis, oltre ai curdi. E soprattutto dovrà pagare la cambiale con Erdogan. La Siria ha di fronte sfide proibitive, dal rapporto con le potenze straniere al rientro dei profughi in un Paese dove l’80% vive sotto la soglia di povertà. Il rischio è che i nuovi governanti saranno a capo di una mini-Siria sempre sotto l’incubo di rivalità e spartizioni.

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Ultim'ora

Siria, le milizie islamiste prendono Damasco, Assad in fuga

Sulla via di Damasco Israele, che ha frantumato Hamas e Hezbollah, con l’atomizzazione del mondo arabo vede un traguardo all’orizzonte: il suo affermarsi come unica superpotenza regionale

Un combattente dell'opposizione siriana strappa un dipinto raffigurante il presidente siriano Bashar Assad e il suo defunto padre Hazef Assad all'aeroporto internazionale di Aleppo foto Ghaith Alsayed/Ap Un combattente dell'opposizione siriana strappa un dipinto raffigurante il presidente siriano Bashar Assad e il suo defunto padre Hazef Assad all'aeroporto internazionale di Aleppo foto Ghaith Alsayed/Ap

Per i jihadisti anti-Assad, lanciati all’attacco dal loro padrino Erdogan, l’assedio di Damasco è sempre più vicino e si specula già sulla spartizione della Siria tra le milizie e le potenze coinvolte, Turchia, Israele (che occupa il Golan dal 1967), Iran, Russia (tre basi militari), Stati Uniti.
Come se la Siria – dove l’esercito si sta dissolvendo come quello iracheno davanti all’Isis – fosse solo un campo di battaglia e non anche un popolo.
La tragedia dei siriani non si ferma: 300mila profughi in una settimana di avanzata dei jihadisti e di raid aerei russi. La Siria è un Paese di profughi: su 24 milioni 7,2 sono rifugiati interni, 5,5 in altri Paesi (la maggior parte in Turchia, Libano, Giordania e Germania). Il 90% dei siriani vive sotto il livello di povertà, il 47% dei rifugiati è sotto i 18 anni e un terzo non va a scuola. Tutte le cifre sono dell’Unhcr che teme altre ondate di profughi sia nei Paesi vicini che verso l’Europa.

La Siria è una partita geopolitica fondamentale ma si compie sulla pelle di un popolo, come si è già verificato con i destini di altri della regione, dai palestinesi ai curdi agli iracheni. In realtà la Siria come nazione unita e indipendente deve scomparire nella disgregazione del Medio Oriente esplosa con la fine dell’Iraq di Saddam Hussein dovuta all’invasione americana nel 2003, proseguita con al Qaeda e l’Isis, la colonizzazione israeliana della Palestina e ora con la fulminea ascesa dei jihadisti di Hay’at Tahrir al Sham (Hts), teleguidati con droni e satelliti dalla Turchia di Erdogan.

Israele, che ha frantumato Hamas e più che dimezzato Hezbollah, vede un traguardo all’orizzonte: l’atomizzazione del Medio Oriente arabo e il suo affermarsi come unica superpotenza regionale. I colpi assestati a Hezbollah e pasdaran iraniani in Siria e Libano hanno sguarnito le deboli difese di Assad che ora vede un appoggio sempre meno convinto della Russia di Putin, pronto a trattare per le sue basi militari nel Mediterraneo sia con la Turchia che con Israele e gli Stati uniti, come del resto il Cremlino ha fatto sempre in questi anni con Erdogan e Netanyahu. E ovviamente la partita russa è assai condizionata alla guerra in Ucraina.

Al disegno egemonico israeliano manca solo l’Iran, l’ossessione di Netanyahu da vent’anni, che con Trump alla presidenza dal 20 gennaio dovrà affrontare la già sperimentata strategia della «massima pressione». La repubblica islamica, del resto, promette di sostenere Assad ma anch’essa come la Russia non è troppo convincente: in questi anni si è dissanguata spendendo 20 miliardi di dollari per tenere in piedi il regime alauita, la minoranza di Bashar Assad – il cui padre Hafez nel 1979 fu l’unico leader arabo a sostenere la rivoluzione islamica sciita di Khomeini – salita al potere nel 1971.

Teheran, che sta negoziando con Ankara e Mosca, è in grado di tenere le posizioni della Mezzaluna sciita, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen? L’operazione è complicata e gli iraniani hanno già evacuato dalla Siria in Libano i capi dei pasdaran. L’ammiraglio Tony Radakin, capo delle forze armate britanniche, in un discorso al Royal United Services Institute di Londra, ha rivelato questa settimana che Israele ha usato i suoi F-35 per effettuare gli attacchi del 26 ottobre contro siti militari in tutto l’Iran. «Israele – ha detto – ha usato più di cento aerei e nessuno di questi si è dovuto avvicinare a meno di cento miglia dal bersaglio nella prima ondata, distruggendo quasi l’intero sistema di difesa aerea iraniano e la capacità dell’Iran di produrre missili balistici per almeno un anno».

Gli inglesi se ne intendono perché sono stati i loro aerei da ricognizione dal 7 ottobre a individuare con gli Usa oltre il 70% dei bersagli da colpire a Gaza e in Libano. Questa è una “grande guerra” del Medio Oriente dove per la prima volta si usano in battaglia caccia come gli F-35 con sistemi di bombardamento e intelligence di ultimissima generazione, non disponibili da nessun altro. Un avvertimento non solo agli stati della regione ma anche a Russia e Cina. «Tutto questo non avviene certo per caso, come non è casuale il coinvolgimento di Israele negli eventi in Siria», afferma Alastair Crooke, ex diplomatico britannico e agente del servizio di intelligence all’estero MI6.

La Turchia, come Israele, vede anch’essa vicino il traguardo di abbattere il regime di Assad. Erdogan è stato in passato il principale sostenitore della rivolta armata contro il leader siriano, al punto di usare anche il capo di Hamas a Damasco Khaled Meshal, che arrivò a scatenare una guerra civile tra palestinesi a Yarmouk, nella capitale siriana. Passati 13 anni da quella ribellione, esplosa dopo le proteste antigovernative del 2011 e degenerate in un sanguinoso conflitto, l’escalation può materializzare tre degli obiettivi di Erdogan: ampliare la presenza militare al Nord, spezzando l’unità della Siria, spingere al ritiro le forze curde siriane, in particolare quelle legate al Pkk, alleate degli Usa contro l’Isis, rimpatriare dalla Turchia in Siria oltre tre milioni di profughi siriani.

Cosa aspetta i siriani in caso di caduta del regime? Al Jolani, ex qaidista capo di Hts, con una taglia Usa sulla testa, in un’intervista alla Cnn (con una giornalista velata) ha dichiarato che «il popolo non deve avere paura di un governo islamico» e che le truppe straniere dovranno ritirarsi, senza per altro mai nominare Israele. I siriani – mentre persino l’Isis ha rialzato la testa – sono divisi tra i filo-islamisti che vedono la possibile vittoria della rivoluzione e i laici e le minoranze che temono di finire in un emirato islamico come a Idlib. Il finale, come avrebbe detto il poeta siriano Adonis, è che di questo popolo travolto dal caos rischieremo di raccogliere le ceneri.

 

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Il re solo Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio […]

Le tre crisi che stringono Parigi

Nel suo seguitissimo discorso televisivo il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato come un orleanista, cioè come il punto di equilibrio che esclude l’estrema destra e la sinistra. Questo vecchio sogno francese può essere compreso da un lettore italiano con Antonio Gramsci il quale, nei Quaderni del carcere, ha parlato di un «cesarismo senza Cesare», cioè di quel regime che non dispone di una grande personalità «eroica» (è difficile, in Francia, che Macron sia giudicato tale), ma capace di trovare una soluzione a una crisi caratterizzata da un equilibrio tra forze politiche in cui non è esclusa una conclusione catastrofica.

Nel suo discorso Macron ha detto che lui pensa all’«interesse generale». Questa categoria ha una storia.

François Guizot, pensatore di riferimento della Monarchia di Luglio (1830-48), oltre che presidente del consiglio per pochi mesi, l’ha usata spesso. Guizot mise in discussione sia il concetto di sovranità affidata a Dio sia quello di sovranità affidata al popolo, opponendosi sia ai sostenitori dell’Ancien Régime che ai repubblicani e ai democratici che vedevano nel 1789 un punto di partenza e non le colonne d’Ercole della politica.

Filosofo piuttosto modesto, lontano dal genio di Hegel, Guizot pensava che il governo fosse l’organo che consegnava la verità alla società. La sua idea di governo, espressione di un sistema elettorale ultra-censuale in cui solo i più ricchi avevano diritto di voto, presupponeva che il potere fosse detenuto da una piccola élite di notabili, gli unici in grado di comprendere l’interesse generale riducendolo così alla difesa dei loro privilegi. Sordo alla volontà del paese di vedere ampliata la base del suffragio elettorale Guizot fu rovesciato dalla rivoluzione del febbraio 1848.

Certo, non siamo più ai tempi di Guizot. Ma la sua idea-guida – quella per cui il popolo è sempre in minoranza – è il cuore del messaggio presidenziale oggi. Macron è l’erede di un liberalismo che pone la ragione dalla parte del potere e mai dalla parte del popolo. Questa spiegazione mi sembra più pertinente di quella psicologizzante che lo presenta come un individuo orgoglioso che si paragona a un Dio dell’Olimpo. Macron è responsabile della crisi attuale e il suo discorso all’indomani del voto di sfiducia del governo Barnier ha dimostrato che si assume questa responsabilità rifiutando qualsiasi mea culpa.

Questa crisi presenta tre aspetti. È strettamente politica. Non è la prima volta nella storia francese che l’Assemblea nazionale si divide in tre gruppi. È già accaduto tra il 1848 e il 1910. Lo hanno ricordato Julia Cagé e Thomas Piketty in Una storia dei conflitti politici (La Nave di Teseo). Oggi la possibilità di trovare una maggioranza di compromesso su alcune questioni importanti è bloccata. Da un lato, l’estrema destra (Rassemblement National) è per la prima volta una «creatrice di Re»; dall’altro lato, la destra e la sinistra sono più divise che mai. Una parte della destra guarda a Le Pen, mentre un’altra guarda al macronismo che ha raccolto l’eredità della destra liberale giscardiana. A sinistra la spaccatura tra la famiglia socialista e la France Insoumise è molto più profonda di quella che esisteva un tempo tra socialisti e comunisti.

La crisi è anche istituzionale: la Quinta Repubblica sembra si stia esaurendo. Macron si sta dimostrando incapace di ergersi al ruolo di arbitro e rimane leader di uno schieramento ormai in minoranza. Le forze politiche pensano, volenti o nolenti, solo alle elezioni presidenziali, chiave di volta dell’architettura istituzionale della Quinta Repubblica, mentre l’urgenza è quella di dare potere al parlamento, almeno per i trenta mesi che ci separano dalla prossima elezione del Capo dello Stato.

Infine, la crisi è sociale. La cosa più grave dell’attuale situazione francese è che questa dimensione fondamentale della crisi passa in secondo piano, assorbita dalla cronaca che a volte si trasforma in una tragicommedia: 51 giorni per trovare un primo ministro a capo di un governo composto da persone totalmente sconosciute al grande pubblico, ad eccezione di pochi. La posta in gioco in questo momento è la direzione che si vuole dare al paese.

Si stanno delineando tre opzioni principali. La prima, guidata da Macron, è quella di un liberalismo duro ed europeista, pronto a fare concessioni sulle questioni sociali all’ideologia lepenista. La scelta di Bruno Retailleau come ministro degli interni e come unico «peso massimo» politico nell’ultimo governo Barnier ne è stata una chiara dimostrazione. La seconda opzione, quella della sinistra, propone misure di giustizia sociale senza abbandonare l’Unione europea e senza cedere ai richiami di Le Pen. La terza opzione è quella di Le Pen di cui si capisce ancora poco perché il suo partito, pur cercando di darsi un’aria di rispettabilità, mantiene una concezione tribunizia della politica, facendosi portavoce di una parte dell’opinione pubblica che teme il declassamento sociale e la perdita di identità della Francia e che vede nell’immigrazione il capro espiatorio da sacrificare per riscattare il paese.

Dietro le palinodie del Capo dello Stato, che ha deplorato con discutibile indignazione il fatto che i deputati socialisti abbiano votato per la censura, dimenticando il ritiro degli elettori di sinistra a favore del suo schieramento nel giugno scorso, sorge una domanda seria: la crisi sarà risolta in parlamento, come dovrebbe essere la norma in una vecchia democrazia come la Francia, o nelle strade, con il rischio di una risposta con la forza da parte di un governo ormai privo di egemonia? In questi casi la miopia e la sordità sono nemici pericolosi in politica.

* Maitre de conférences chez universite de Rouen - Traduzione di Roberto Ciccarelli

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Palestina L’elemento cardine è il dolo specifico: la distruzione di un gruppo in tutto o in parte e in quanto tale, indipendentemente da ciò che i membri individuali abbiano fatto

Gaza City, la distruzione lasciata dall'offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona di Al Shifa Ap Gaza City, la distruzione lasciata dall’offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona di Al Shifa – Ap

A Gaza, il bilancio degli ultimi 14 mesi è catastrofico. Oltre 44mila palestinesi uccisi, tra cui 11mila donne, 17mila bambini, oltre 700 neonati. Più di 900 famiglie cancellate. Oltre 100mila feriti. 10mila sotto le macerie. Migliaia, inclusi adolescenti e bambini, amputati, spesso senza anestesia. Uomini, donne, bambini incarcerati, torturati, a volte vittime di stupro. Una popolazione intera traumatizzata, sfollata molteplici volte. Case, quartieri, città, tutte le università, centinaia tra scuole, chiese, moschee, biblioteche, archivi, campi agricoli, la rete idrica e fognaria: tutto raso al suolo. Nessun bambino a Gaza va a scuola da più di un anno e non vi tornerà presto. Dei 36 ospedali solo 17 rimangono parzialmente funzionanti, sebbene come scheletri nel deserto di macerie, dopo essere stati bombardati, assediati, saccheggiati, i pazienti bruciati vivi al loro interno o nelle tende in cui si erano assiepati in cerca di rifugio.

La redazione consiglia:
Sopravvivere al genocidio a Gaza City

Una terra straziata, dove non rimane nulla che possa sostenere la vita. Questa è Gaza, dopo oltre un anno di “guerra” in nome di un presunto “diritto all’autodifesa” che Israele continua a rivendicare contro il parere negativo della Corte internazionale di Giustizia, che nel 2004 ha detto e nel 2024 ha ribadito che Israele non può esercitare il diritto all’autodifesa all’interno del territorio che occupa, per altro contro la Carta delle Nazioni unite e il diritto internazionale.

Per 14 mesi, nel mio ruolo di Relatrice Speciale Onu mi sono ritrovata a fare da testimone del genocidio in corso. La distruzione e la sofferenza inflitte al popolo palestinese non risalgono all’ottobre 2023, ma a decenni di occupazione in cui Israele ha sottratto impunemente terra e abitazioni, uccidendo adulti e bambini, arrestando quasi un milione di palestinesi (inclusi 10mila minorenni, una media di 600 all’anno) sulla base di ordini militari persecutori. L’occupazione, che la Corte internazionale ha dichiarato illegale e da smantellare incondizionatamente, è ciò che fa da contesto al genocidio, che genocidio è, nonostante il negazionismo di una parte consistente dei media e della politica occidentale.

Cos’è il genocidio, e perché dobbiamo affermare che Israele ne è responsabile? Come ho concluso nel mio quarto rapporto presentato al Consiglio dei Diritti umani dell’Onu nel marzo scorso, Israele si è macchiato di tre degli atti che costituiscono genocidio come descritti nella Convenzione del 1948: l’uccisione di membri del gruppo, l’inflizione di gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo e la deliberata imposizione di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica del gruppo, in tutto o in parte, in quanto tale. L’elemento cardine è il cosiddetto dolo specifico (mens rea): il perseguimento della distruzione, in tutto o in parte, di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale (indipendentemente da ciò che i membri individuali del gruppo abbiano fatto o facciano).

Da ottobre 2023, a seguito dell’attacco inflitto da Hamas, Israele ha intensificato la distorsione dei principi cardine del diritto internazionale umanitario, quali i principi di distinzione tra combattenti e civili, di proporzionalità e precauzione in ogni parte dell’azione militare. I palestinesi sono stati sussunti nell’astrazione di categorie quali «scudi umani» (concetto impropriamente applicato all’intera popolazione per giustificare attacchi indiscriminati), espulsioni di massa mascherate come «ordini di evacuazione», gli sfollati concentrati in «zone sicure» (trappole di morte dove sono stati ferocemente bombardati). Strumenti di diritto volti a prevenire il riproporsi delle peggiori ferite della storia sono stati completamente svuotati di significato e, da strumenti atti a proteggere la popolazione civile, sono diventati il mezzo per giustificarne la distruzione. Bisogna smettere di trattare quella a Gaza come una guerra. L’obiettivo di una guerra è sconfiggere militarmente il nemico. Distruggere è l’obiettivo del genocidio le cui vittime sono, diffusamente e precisamente, i civili.

A ottobre, nel mio quinto rapporto, ho mostrato all’Assemblea Generale dell’Onu, la volontà israeliana di distruggere il popolo palestinese, come gruppo in quanto tale. Tramite una triplice lente che guardi olisticamente alla totalità della condotta israeliana in tutto il territorio palestinese occupato (anche la Cisgiordania) e rispetto alla totalità del popolo palestinese in quanto tale, è possibile individuare la volontà di distruzione totale: lo svuotamento del territorio dagli “amalechiti”, evocata per 14 mesi da leader, ufficiali e soldati israeliani coinvolti nell’assalto, per permettere la colonizzazione definitiva della terra di Palestina, che i ministri del gabinetto Netanyahu chiamano eufemisticamente «incoraggiamento alla migrazione».

Negare o invisibilizzare questo obiettivo di lungo periodo significa perdere di vista la matrice di sostituzione coloniale del progetto israeliano sin dal 1948. «Il genocidio come distruzione coloniale» è il titolo del mio ultimo rapporto: ogni processo di colonialismo di insediamento porta con sé un intento genocidario, un seme distruttivo piantato in Palestina dai primi insediamenti israeliani attraverso massacri ed espulsioni, e attualmente in corso a Gaza.

Il genocidio è un crimine diverso dallo sterminio. Si può avere genocidio anche senza uccidere nessuno: quattro su cinque atti di genocidio previsti dalla Convenzione sul Genocidio non prevedono l’uccisione dei membri del gruppo. Ce lo insegnano 500 anni di storia coloniale europea, che l’occidente ha convenientemente rimosso dalla memoria collettiva, ma il sud del mondo e i suoi popoli no. Ed è per questo che Gaza oggi è la cartina di tornasole della giustizia internazionale globale. Se la violenza genocida di Israele non verrà fermata, il futuro del popolo palestinese sarà simile a quello di altri popoli indigeni dove il colonialismo di insediamento ha quasi spazzato via interi gruppi umani: negli Stati uniti, in Canada, in Australia, in Nuova Zelanda.

A riconoscere il genocidio palestinese non sono solo esperti in materia – tra cui William Schabas, il principale accademico mondiale sul tema – e organizzazioni quali Forensic Architecture e Amnesty International, ma la Corte internazionale di Giustizia, che già a gennaio, sulla base di un riconoscimento prima facie del rischio di genocidio a Gaza, ha richiesto a tutti gli stati di porre in essere misure che portassero Israele a fermare una condotta presumibilmente genocidaria. La Convenzione sul Genocidio è chiara: gli Stati sono chiamati non solo a punire il crimine, ma a prevenirlo. In questo tutto l’occidente, e non solo, ha fallito.

L’Italia ha fallito. La nostra Costituzione afferma che l’Italia «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Nel continuare a sostenere Israele, fornendo appoggio economico, politico o militare, l’Italia viene meno non solo ai suoi obblighi internazionali, ma alla Costituzione stessa.
Negare il genocidio – come fatto recentemente dal ministro degli esteri Tajani – considerarlo un argomento di dibattito, oggetto d’opinione personale e non una definizione legale, è il sintomo di un paese che ha sacrificato il popolo palestinese sull’altare della convenienza politica. Quanto meno come misura precauzionale, l’Italia ha l’obbligo di sospendere tutti i suoi rapporti con Israele sino a che non termineranno le indagini sulle violazioni della Convenzione.

La società civile italiana ha dimostrato nell’ultimo anno di condannare ad alta voce il genocidio, l’apartheid e l’occupazione di Israele in Palestina. Tocca ora al nostro governo fare lo stesso, nell’interesse di palestinesi e israeliani, di tutti quelli che quella bellissima e oggi martoriata terra «tra la riva e il mare» chiamano casa. Il momento per agire è ora, il tribunale della storia ci giudicherà.

 

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Medio Oriente Parla Salih Muslim, del partito dell'unione democratica curda: La prospettiva di un assedio ci ha costretti a decidere di evacuare. Tra noi ci sono ezidi, armeni, assiri. Chiunque non sia arabo sunnita è in pericolo: evacuati anche gli sciiti

«La legittimazione rende Hts più pericolosa dell’Isis. Minoranze a rischio»

 

Ancora una volta la mezzaluna turca è tornata a sventolare sulla cittadella di Aleppo, esposta da un miliziano in posa dopo l’offensiva che ha portato la città nelle mani di Hayat Tahrir al-Sham (Hts). Una debacle militare dell’esercito siriano che ricorda la caduta di Mosul, avvenuta in una notte del giugno 2014 per mano dello stato Islamico.

«Hts è un’organizzazione ombrello sotto cui sono raccolti diversi gruppi ed elementi jihadisti – Spiega Salih Muslim, membro della presidenza del Partito dell’unione democratica (Pyd) – al suo interno si trovano salafiti passati per organizzazioni come Ahrar al-Sharqiya o il fronte daghestano, persino fuoriusciti di daesh. Un tempo erano noti come Jabhat al-Nusra».

IN SEGUITO alla cattura di Aleppo l’Esercito nazionale siriano (Sna) ha mobilitato le proprie forze e iniziato un’invasione su larga scala della regione di Shebah e la città di Tall Rifaat, completamente circondate in seguito alla fuga dell’Esercito Arabo Siriano (Saa). «In Hts almeno esiste una disciplina, loro sono bande di pazzi e criminali. Appena iniziati gli attacchi hanno iniziato a filmarsi mentre tagliano teste – commenta il politico curdo – Sono uno strumento nelle mani della Turchia, e sappiamo che la volontà del governo turco è l’annientamento dei curdi ovunque si trovino, per cui non sappiamo cosa faranno o dove si fermeranno».

LA RESISTENZA di Tall Rifaat è durata pochi giorni prima che la Daanes (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord-Est della Siria) prendesse la decisione di concentrare gli sforzi nell’evacuazione dei civili: «La prospettiva di un assedio ci ha costretto a decidere di evacuare – spiega Muslim – tra noi ci sono ezidi, armeni, assiri e altri popoli, chiunque non sia arabo sunnita è in pericolo, anche i villaggi sciiti sono stati evacuati». Con Tall Rifaat sotto controllo, l’attenzione dell’Sna si è rivolta verso Manbij, bastione a maggioranza araba della Daanes a Ovest dell’Eufrate. La città fu liberata nel 2016 a seguito dell’operazione “Martire Abu Leyla”, intitolata all’omonimo fondatore del Battaglione del Sole del Nord, una delle molte fazioni dell’Esercito Libero Siriano che hanno rigettato l’ingerenza turca nella rivoluzione siriana. Da allora le pressioni turche non sono mai cessate e Manbij è divenuta uno degli obiettivi prioritari dell’esercito turco, seconda solo a Tall Rifaat. «La leadership turca ha sempre detto che vuole compiere il Misak-ı Millî – Sostiene Salih Muslim, riferendosi al Giuramento nazionale, una serie di decisioni prese dal morente parlamento ottomano che tracciò i confini rivendicati dai nazionalisti turchi – Questo è un pericolo per tutta la Siria».

In un comunicato del Consiglio memocratico siriano, organo parallelo alla Daanes responsabile del dialogo intersiriano, il regime di Damasco viene ritenuto principale responsabile dell’escalation, reo di aver rifiutato in tutti questi anni di impegnarsi in un dialogo che potesse aprire la strada alla transizione concludendo la guerra civile, preferendo piuttosto contare su forze esterne per imporre il suo dominio.

«HEZBOLLAH, gli iraniani, la Russia e altri gruppi avevano formato un equilibrio nella regione di Aleppo sostenendo l’Esercito arabo siriano. Nel momento in cui Hezbollah e gli iraniani si sono ritirati, il Saa da solo non è stato in grado di mantenere le posizioni»,spiega Muslim. «Al momento siamo impegnati militarmente per difendere la popolazione da un possibile genocidio, umanitariamente per accogliere e proteggere gli sfollati, politicamente per aprire un canale con Hts affinché non succeda niente ai civili, specialmente a Sheikh Meqsoud – spiega Muslim riferendosi al quartiere curdo di Aleppo in stato di assedio – Se rispettano l’autonomia del quartiere possiamo convivere, ma se sfollano le persone come ad Afrin, le opprimono e torturano come ha fatto daesh, non lo accetteremo. In questi quartieri vivono quasi 400.000 tra curdi, cristiani e altre minoranze che vi hanno trovato rifugio, non vogliamo siano costretti ad abbandonare le proprie case».

Il leader di Hts Abu Muhammad al-Jolani ha lanciato una campagna di immagine volta a far dimenticare il suo passato al fianco di Abu Bakr al-Baghdadi e guadagnare legittimità agli occhi della comunità internazionale. Il leader jihadista si è prodigato nel rassicurare le minoranze per mezzo stampa, siano essi cristiani, curdi o persino gli odiati alawiti a cui appartiene lo stesso Bashar al-Assad. Nonostante l’efficace manovra comunicativa, nella Siria del Nord l’esperienza di Afrin, in cui alle stesse rassicurazioni sono seguiti sei anni di terrore, queste dichiarazioni vengono accolte con non poco scetticismo.

«L’OPINIONE pubblica deve conoscere queste forze, alcuni pensano si tratti di gruppi di opposizione ma non è così, l’essere legittimati li rende forse più pericolosi dell’Isis – Conclude Salih Muslim – noi li conosciamo bene, abbiamo visto e subito i loro massacri, in passato la comunità internazionale ci ha lasciati soli, speriamo non sia così anche questa volta».

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Autonomia differenziata Pubblicata la sentenza della Corte costituzionale. Si apre la partita del referendum. Sulla permanenza del quesito abrogativo, attesa il 12 dicembre la Cassazione. Ministri e governatori che insistono che nulla è cambiato offrono argomenti per il sì

Roberto Calderoli - Ansa Il ministro Roberto Calderoli, nel corso dei lavori della Camera dei deputati, sulle mozioni in materia di autonomia differenziata,

La sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata – una delle più belle che si ricordi con le 39 ricorrenze della parola solidarietà/solidaristico – plana sulla politica italiana con effetti diversi tra la maggioranza di destra e le opposizioni, sia quelle politiche che quelle sociali. La prima incredibilmente tace annichilita dal dispositivo che culturalmente smonta non solo la legge Calderoli, ma anche le basi politico-ideologiche del patto che tiene insieme la coalizione. Le opposizioni assaporano il successo ma hanno ora da affrontare nell’immediatezza la questione sulla decisione della Cassazione circa la sussistenza o meno del referendum abrogativo della legge.

Ieri si è registrata una curiosa concomitanza per due riforme che la destra sta portando avanti. Alle 11,30 la Corte costituzionale ha depositato la sentenza con cui cancella i punti principali della legge Calderoli e ne riscrive molti altri; dopo poco la commissione Affari costituzionali della camera ha votato il mandato al relatore sulla separazione delle carriere dei magistrati (in aula il 9 dicembre per la sola discussione generale). Ebbene sulla seconda riforma sono piovute dichiarazioni esultanti della maggioranza («giornata storica» il sintagma più ricorrente), mentre sulla sentenza della Consulta c’è stato il silenzio. A rendere distopica la giornata l’esultanza di Antonio Tajani, il cui partito ha votato sempre la legge Calderoli, felice perché il Commercio con l’estero non potrà più essere devoluto alle regioni. Grottesco è apparso il «si va avanti con le intese» di Luca Zaia e Alberto Stefani, segretario della Liga Veneta. Analogo il comunicato del tardo pomeriggio del padre della legge, Roberto Calderoli: «La sentenza della Consulta conferma che la strada intrapresa dal governo è giusta»; quindi avanti con le Intese sulle funzioni non Lep, mentre «si lavora» a «ulteriori interventi legislativi» solo per i Lep e i fabbisogni standard. La consueta assertività di Fdi e Giorgia Meloni ieri non si è vista o sentita, sostituita dal silenzio.

L'effetto della sentenza della Corte costituzionale sui primi quattro articoli, i fondamentali, delle legge Calderoli per l'autonomia differenziata
L’effetto della sentenza della Corte costituzionale sui primi quattro articoli, i fondamentali, delle legge Calderoli per l’autonomia differenziata

Qui entra in gioco il discorso delle opposizioni. Lunedì sera, il giorno precedente la sentenza, il direttivo del Comitato promotore del referendum abrogativo si è riunito per una valutazione sul da farsi davanti alla Cassazione.

Questa a metà dicembre dovrà decidere se dopo l’abbondante “sbianchettatura” della Consulta dei punti focali della legge Calderoli, sussistano i presupposti per svolgere il referendum. Questo verrebbe meno se vengono abrogati «i contenuti normativi essenziali» e «i principi ispiratori» della legge: ieri qualcuno come Stefano Ceccanti o Peppino Calderisi ha sostenuto che la Consulta abbia intaccato entrambi e quindi la Cassazione bloccherà il referendum. Al direttivo del Comitato referendario è invece prevalsa la decisione di sostenere in Cassazione (o con una memoria o in udienza pubblica) che le ragioni del quesito permangono, soprattutto quelle politiche, diverse da quelle giuridiche. Peraltro tesi avvalorata dalle dichiarazioni di Zaia, Calderoli ed altri della Lega per i quali «non cambia nulla e si va avanti». Certo, poi, dopo il via libera eventuale della Cassazione andrebbe sostenuta a gennaio, di nuovo in Corte costituzionale, l’ammissibilità del quesito stesso. Tema su cui c’è nel Comitato ampia fiducia di una risposta affermativa. Ed è per tale fiducia, si è detto lunedì sera, che la mobilitazione va tenuta alta: infatti se si andrà alle urne andrà scalata la montagna del quorum.

Questi ragionamenti ci fanno tornare alla maggioranza e alla tempistica di un nuovo intervento normativo. Palazzo Chigi e Calderoli concordano sull’opportunità di attendere i due passaggi, cioè Cassazione a metà dicembre e Consulta a metà gennaio. Solo allora, a seconda anche dell’orientamento dell’opinione pubblica, ci sarà un intervento normativo. Se infatti crescerà il movimento referendario in termini tali da far temere il raggiungimento del quorum, la destra tenterà nuovamente di bloccare il referendum, appunto con nuove norme che obbligherebbero a riportare il quesito in Cassazione per una nuova valutazione della sua sussistenza. Il “calderolismo” sembra ancora un karma di queste destre. Auguri.

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