Rapporti di classe Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale […]
Un momento dal palco dello sciopero generale del 9 novembre in piazza maggiore a Bologna foto Michele Nucci/LaPresse
Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco i rapporti di classe oggi in Italia. Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale sui dati cumulativi di 1900 società italiane.
E lo ha presentato in questi termini: «Nel 2023 margini record per le imprese italiane», che vuol dire in concreto «un Ebit medio del 6,6%, il miglior livello dal 2008». Per crescita del fatturato sono in testa le costruzioni, grazie alla droga del superbonus.
Poche settimane dopo un gruppo di ricerca della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma pubblicava i risultati di una ricerca intitolata: Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana. Il direttore della ricerca prof. Riccardo Gallo, nel presentarla su Il Sole 24 Ore del 22 ottobre, ha usato questi termini: «Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti (…) Oltretutto gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni».
Il 29 ottobre l’Istat ha pubblicato la notizia flash Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali, luglio-settembre 2024, dove si legge: «I 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (…) i contratti che a fine settembre 2024 sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale)».
La maggioranza dei dipendenti dunque lavora con contratti scaduti. Ciò significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio. E in più c’è l’inflazione. Inoltre gli aumenti in genere sono premi di risultato incorporati nel Welfare aziendale, non finiscono in paga base.
Risultato? La diminuzione progressiva dei redditi da lavoro, in atto da decenni, continua alla grande. Gli utili, come abbiamo visto, vanno per l’80% agli azionisti, di quel magro 20% rimasto solo il 40% viene reinvestito in fabbrica. Questo avviene quando i profitti sono alle stelle, figuriamoci che succede quando c’è aria di rallentamento o addirittura di crisi. Infatti, le trattative del contratto dei metalmeccanici e del contratto trasporti e logistica, tanto per citare due esempi significativi, sono, al momento in cui scrivo, interrotte. Alle richieste dei sindacati i padroni hanno risposto picche.
Sono decenni che in tutte le business school s’insegna che compito del management non è far crescere l’impresa ma remunerare gli azionisti.
Questa non è finanziarizzazione, è guerra di classe. Ma è la guerra «pulita». Qual è la guerra «sporca»? È quella del sistema di appalti e di subcontracting, dove regnano illegalità ed evasione fiscale. L’illegalità che i giuristi chiamano «intermediazione illecita di mano d’opera» noi la chiamiamo «caporalato», vecchia conoscenza che oggi, dove la base di reclutamento è costituita da forza lavoro immigrata più ricattabile, si è rifatta il trucco. Nella cosiddetta logistica rappresenta il 90% della forza lavoro, il che non significa che al 90% è illegale ma che una notevole componente è fatta di imprese che sotto le finte vesti del contratto d’appalto nascondono la vera natura di serbatoi di mano d’opera.
Il Tribunale del Lavoro di Milano, grazie a un paio di magistrati – guardati con sospetto – ha cercato di mettere un argine ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende. Non pesci piccoli ma multinazionali del calibro di Dhl, Geodis, Amazon, specialisti della home delivery. Hanno recuperato in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale (soprattutto Iva non pagata, contributi previdenziali non versati) e regolarizzato 14 mila lavoratori.
Ma poi c’è un terzo livello, un ulteriore girone di questo inferno, quello della schiavitù. Forse la nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.
È difficile immaginare in una situazione come questa una reazione diversa dal conflitto. Perché non ci sono i margini. 80% dei profitti agli azionisti, più del 50% dei dipendenti con contratto scaduto. Solo il conflitto può frenare l’ulteriore degrado. Se è questo che Maurizio Landini intendeva con «rivolta sociale», è il minimo che si possa dire. E se il Pd ogni tanto guardasse a questi numeri e ne facesse argomento di propaganda, piglierebbe il doppio dei voti. Ma quelli pensano alle «politiche industriali», roba che in Italia non si vede dai tempi di Mattei. E allora, piuttosto di votarli, me ne sto a casa. Non s’è ancora capito che l’astensione è «rossa»?
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I residenti trasportano l'acqua potabile lungo il fiume Madeira in secca in Brasile – foto Edmar Barros/Ap
Catturano l’umidità dell’aria per trasformarla in acqua. Intrappolano le molecole di anidride carbonica (CO2) presenti nell’atmosfera. A creare e sviluppare questa nuova classe di prodigiosi materiali nanoporosi a partire dagli anni Novanta è stato il chimico Omar Yaghi, professore dell’Università di Berkeley in California, che nei giorni scorsi è stato insignito al Quirinale del premio Balzan, prestigioso riconoscimento a scienziati e studiosi che si siano distinti per le loro scoperte, in questo caso nel campo della chimica reticolare.
Professor Yaghi, ci può descrivere in modo elementare cosa sono questi materiali, denominati MOF (strutture metallo-organiche) e COF (strutture organiche covalenti) e come funzionano?
MOF e COF possiamo immaginarceli come mattoncini Lego da combinare per creare nuove forme. Queste forme hanno superfici estremamente porose. All’interno dei pori noi possiamo catturare gas come idrogeno, metano, anidride carbonica, e acqua. Un’altra caratteristica straordinaria di questi materiali è quella di avere una superficie estremamente elevata: in 1 grammo è contenuta una superficie grande come un campo da football. Questo è lo spazio nel quale è possibile immagazzinare i gas.
Di quali materie prime sono composti?
I MOF sono fatti a partire da unità organiche legate a metalli. Si possono usare anche metalli molto comuni come zinco, ferro, rame, potassio, calcio. Per la parte organica possiamo utilizzare, per esempio, l’acido lattico, che è un componente del latte, e legarlo al calcio per ottenere un MOF. Questa chimica permette di utilizzare materie prime molto diffuse e comuni per creare materiali poco costosi ed estremamente utili. Questo è l’avanzamento che abbiamo ottenuto: usare i componenti della vita e della natura per realizzare materiali in grado di risolvere alcuni problemi ambientali. Invece i COF sono fatti interamente da unità organiche, senza metalli.
Grazie ai MOF è possibile catturare l’acqua dall’atmosfera, anche nel deserto, usando soltanto l’energia solare come unica fonte energetica. Ci spiega come?
A occhio nudo, MOF e COF hanno l’aspetto del borotalco o dello zucchero semolato. Per utilizzarli è necessario un rivestimento, oppure modellarli in forme diverse, come pellets, o cubi, o qualsiasi forma che possa essere contenuta in un apparecchio. Questo apparecchio deve avere delle ventole per far sì che vi entri dell’aria: quando l’aria entra in contatto con il MOF, questo estrae l’acqua dall’aria. L’apparecchio funziona in modo che solo acqua venga estratta dall’atmosfera, e nient’altro. Una volta che i pori si sono riempiti d’acqua, si può scaldare il materiale a 50° o 60°C e l’acqua viene rilasciata, condensata e si può bere. Lo stesso principio vale per la cattura della CO2: la CO2 si lega ai pori e, una volta scaldato il materiale a 60°C viene rilasciato e il ciclo può continuare.
Esistono già dei prototipi di apparecchiature per la «cattura» dell’acqua?
Diversi prototipi sono stati testati nel deserto. Ma vorrei sottolineare che questa tecnologia è utile non solo nelle zone aride, ma può funzionare ovunque nel mondo, per esempio dove non è disponibile acqua potabile, come può succedere in una zona interessata da una catastrofe. Oppure in agricoltura.
Sono brevettati? E sono accessibili?
Si, certo. Se non lo fossero, nessuno sarebbe interessato al loro impiego. Quando esiste una tecnologia di cui le persone hanno bisogno, si trova il modo di finanziarla da parte dei governi o delle Ong.
Quanto potranno costare queste apparecchiature?
Sono fatte di alluminio, il metallo più economico. E anche i MOF sono a basso costo. Non costeranno più di un microonde o di una macchina per fare il caffè.
Quindi sarà possibile staccarsi dalla rete idrica? Senza pagare più oneri per la distribuzione e quant’altro?
Troveranno il modo di farceli pagare… ma in linea principio, sì, si può avere il controllo sulla propria acqua.
Quando saranno disponibili? Tra 3 anni, 10 anni…
Prima. Le start up con le quali lavoro sono pronte a commercializzare queste apparecchiature tra 6-12 mesi. Tutti gli aspetti tecnici sono stati risolti. Un apparecchio per uso domestico può produrre 100-200 litri di acqua al giorno per vari anni. In generale, con una tonnellata di MOF si possono produrre 3 mila litri di acqua al giorno per 6-7 anni. Se si usa un’apparecchiatura un po’ più grande ed elettrificata, si possono produrre fino a 60 mila litri al giorno per 7 anni. Poi l’apparecchiatura può essere completamente disassemblata e riciclata.
Sembra magia.
Quando si libera la creatività umana non ci sono limiti all’immaginazione. Sembra magia, ma è realtà.
I materiali che lei ha sintetizzato rendono più efficiente la cattura della CO2 dall’atmosfera. Ma resta il problema di dove e come stoccare la CO2. Secondo i geologi si può stoccare nel sottosuolo in modo sicuro. Si può mineralizzare e trasformare in roccia, per millenni. Posso farle io una domanda? Abbiamo altre soluzioni? Cosa risponde a chi teme che la cattura e lo stoccaggio della CO2 possa servire per continuare ad utilizzare i combustibili fossili?
Secondo il mio punto di vista è una pessima analisi, anche perché potrebbe essere applicata a qualunque altra soluzione si possa trovare. Quello che voglio dire è che anche se è disponibile una soluzione come questa, i governi responsabili devono mettere comunque limiti alle emissioni. Come in altri campi dove servono dei limiti, perché i processi non sfuggano al controllo. Inoltre, quando la soluzione verrà introdotta, la società comincerà a pensare in modo diverso, perché si sarà creata una nuova economia basata sulla sostenibilità.
Quando si cominceranno ad utilizzare su scala industriale questi materiali?
La tecnologia per la cattura della CO2 dai cementifici, per esempio, viene già commercializzata. Invece, per quanto riguarda la cattura della CO2 dall’aria, la cosiddetta Direct air capture (DAC) è ancora necessario incrementare la produzione a quantità dell’ordine di tonnellate. Nel giro di pochi anni ci arriviamo. Ci sono molti progetti sperimentali.
Dove verrà utilizzata?
Nei grandi complessi industriali. Alcuni si sono già dotati di impianti di cattura della CO2 che però utilizzano materiali tossici, corrosivi, che non sono così resistenti e quindi efficienti. I MOF invece durano anni e migliorano l’efficienza.
Dunque, lei crede che ce la faremo a rispettare l’Accordo di Parigi?
Credo che la società debba porsi di fronte ai cambiamenti climatici come ad una crisi, non come a un problema. Come è successo per la crisi dei mutui negli Usa o per la pandemia. Queste sono crisi. Fino ad ora, con la riduzione volontaria delle emissioni non è successo nulla. Serve essere uniti e investire in un’unica direzione, altrimenti non si trovano soluzioni. Come è successo per la pandemia, se ci fossimo posti il problema dei costi, non ne saremmo usciti.
Cosa ha reso possibile queste sue scoperte? L’avanzamento della ricerca pura? La potenza di calcolo dei computer? Adeguati finanziamenti? Visioni…
È stato possibile perché qualcuno ha deciso di fare qualcosa che tutti dicevano fosse impossibile. C’era un dogma in questo campo di studi che negava la possibilità di fare quello che abbiamo fatto. Più che i finanziamenti, ad essere determinante è stata la volontà umana di cambiare un dogma. Sono gli scettici, quelli che dicono «non è possibile» i veri nemici della scienza, che ne impediscono il progresso. Ce ne sono ovunque, dentro e fuori il mondo scientifico.
Lei è nato in Giordania, in un campo profughi palestinese. La sua esperienza di vita è in qualche modo legata alle sue scoperte scientifiche?
Direi di no. Quello che è successo è che da bambino, avrò avuto 10 anni, mi sono innamorato delle molecole: ho visto dei disegni di molecole in un libro trovato in biblioteca. Non sapevo cosa fossero, naturalmente, ma sono stato catturato dalla loro bellezza. E da allora ho voluto saperne sempre di più. E anche quando abbiamo scoperto questi nuovi materiali a catturarmi, all’inizio almeno, è stata la loro bellezza, più che le implicazioni d’uso
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Dopo Trump Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante
Il neo eletto presidentedegli Stati uniti Donald Trump – foto di Alex Brandon/Ap
Quali lezioni dovremmo trarre dalla vittoria di Donald Trump? Secondo alcuni, i Democratici sono stati sconfitti perché hanno progressivamente perso il carattere di partito della working class.
Per diventare la forza di riferimento dei ceti professionali, delle persone più istruite, e tendenzialmente benestanti. Altri hanno posto l’accento, invece, sulla frattura tra certe aree del paese – prevalentemente urbane e tendenzialmente più sviluppate – e quelle che invece non riescono e riprendersi dallo shock delle delocalizzazioni. Le prime vedono i Democratici meno in difficoltà, le seconde spesso favoriscono Trump. Tutte le spiegazioni devono tener conto dell’appartenenza, ma con sfumature diverse, che possono essere legate al «ruolo nel processo di produzione» (per riprendere un’espressione marxista ancora utile) oppure a elementi di carattere identitario (nazione, gruppo etnico, religione). Qui la faccenda si complica ulteriormente, perché il carattere di terra di emigrazione degli Stati uniti rende il tema dell’identità ineludibile ma sfuggente.
Non c’è dubbio che la prima ipotesi cui abbiamo accennato appare confermata dai dati elettorali, e in qualche misura si armonizza con una tendenza che si sta manifestando in tutti i paesi nei quali il partito principale della sinistra (sia esso di tradizione socialista o meno) si è collocato, dopo la «rivoluzione recuperante» del 1989, al centro. A partire dagli anni Novanta, la restaurazione della democrazia nei paesi dell’ex blocco sovietico si rivela come il momento decisivo per l’instaurazione di un diverso modo di concepire i rapporti tra economia e politica, che esalta gli effetti benefici del mercato e svilisce quelli dell’intervento pubblico.
Le sinistre occidentali, che stanno perdendo il proprio radicamento operaio già dagli anni Settanta (come aveva lucidamente riconosciuto Eric Hobsbawm) si tuffano sulle nuove opportunità economiche che si stanno aprendo, assecondando il processo in corso, e facendosene in certi casi garante. Sono gli anni di Clinton, di Blair, e dei loro epigoni continentali. Sono loro a portare alle estreme conseguenze l’idea che i vecchi partiti socialisti o liberal progressisti dovessero diventare i partiti dello sviluppo economico, puntando sulla scommessa che una volta ampliata la torta sarebbero aumentate le porzioni per ciascuno. In realtà le cose vanno in modo diverso dal previsto. Mano a mano che accettano le premesse e gli obiettivi della nuova visione «neoliberale» della politica, questi partiti vengono di fatto «catturati» da una nuova classe dirigente, fatta non più di militanti con un solido radicamento nel movimento operaio e nelle battaglie antifasciste della prima metà del Novecento, ma di consulenti e «tecnici» di varia estrazione, che non hanno alcun interesse a distribuire in modo più equo la torta. Chi è più «meritevole», ha diritto a tagliare la fetta che gli spetta prima degli altri, e pazienza se poi non rimane molto da spartire.
Nel nuovo secolo i nodi vengono al pettine. La promozione di politiche di austerità dopo la crisi del 2008 colloca i partiti della nuova sinistra neoliberale in una pozione insostenibile, non solo rispetto a quel che rimaneva – dopo le delocalizzazioni – della classe operaia intesa in senso stretto, ma anche rispetto all’area, dai confini meno netti, dei diversi tipi di lavoratori subordinati. Le politiche di flessibilità del lavoro, difese da queste forza politiche, a partire dagli anni Novanta, come un’opportunità per i lavoratori, si sono rivelate in molti casi una trappola fatta di precarietà, redditi bassi, e subordinazione al debito.
Quindi, in un certo senso, è vero che la sinistra dovrebbe darsi da fare per recuperare il voto della working class intesa in senso ampio, non solo gli operai, ma anche la vasta platea di chi lavora in posizione subordinata (di diritto o di fatto). Si tratta, tuttavia, di una verità parziale. Uno degli effetti più profondi, e più difficili da invertire, della rivoluzione neoliberale, è infatti un mutamento sul piano della visione dell’essere umano, e del suo ruolo nella società.
Ciò che gli attivisti della sinistra più critica nei confronti del neoliberalismo chiamano working class è un’astrazione priva di concretezza, perché le classificazioni sociali che guardano al ruolo nel processo di produzione, o al livello di reddito, non sono allineate con quelle identitarie. In una società dove la solidarietà di classe si è affievolita fino a scomparire, ciascuno solidarizza, nella misura in cui ne sente il bisogno, soltanto con i suoi, con quelli del proprio gruppo. Tutti gli altri sono concorrenti, potenzialmente nemici in una società che sta diventando a «somma zero».
Recuperare il voto della working class in queste condizioni potrebbe rivelarsi impossibile, se non si mette in campo uno straordinario impegno sul piano della «visione del mondo», per erodere le basi su cui ancora si sostiene l’egemonia neoliberale. La sinistra dovrebbe, in questo, seguire la lezione di Stuart Hall. L’intellettuale caraibico che negli anni Settanta indicò alla sinistra britannica sconfitta da Margaret Thatcher la strada di una rilettura del Gramsci studioso dell’egemonia come premessa per comprendere i fattori ideologici del nuovo liberalismo emergente.
* Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano. Collabora regolarmente all’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore, a la Rivista dei Libri e al quotidiano Il Riformista. Google Books
Commenta (0 Commenti)Intervista L’europarlamentare Pd: «Sull’Ucraina nessuna svolta e un silenzio inaccettabile su Gaza». «Con Schlein ci siamo sentite, io rispetto la sua posizione e lei la mia: non era una scelta facile. Ma sono molto preoccupata per le posizioni del titolare dell’immigrazione»
Cecilia Strada, europarlamentare indipendente eletta nel Pd. Nelle ore prima del voto sulla commissione Ue non si era espressa. Come mai?
Ho preso tempo per riflettere.
Il discorso in aula di von der Leyen non l’ha convinta?
No, pensavo da giorni di votare contro e non ho cambiato idea.
Perché?
Questa commissione non mette al centro del suo agire le vere priorità: giustizia sociale, diritti, lavoro. Parole che sono addirittura scomparsa dai titoli che indicano le competenze dei vari commissari. La delega a scuola, cultura e diritti sociali è stata chiamata «Persone e preparazione». C’è una involuzione anche semantica. Von der Leyen ha parlato per 40 minuti in aula e il termine che ha usato più spesso è stato «competitività», senza mai dire a cosa serve. E poi continua a mettere al centro il tema della guerra, cui intende reagire armandoci sempre di più. Io mi sono candidata per cambiare questo stato di cose, vorrei un’Europa di pace e diplomazia, che investe più su come proteggere i lavoratori nella transizione ecologica che in spese militari.
Anche la scelta del titolare dell’Immigrazione pare non l’abbia entusiasmata.
Ho ascoltato in audizione Magnus Brunner, mi è parso aperto all’ipotesi di esternalizzazione delle frontiere, persino alla costruzione di nuovi muri contro i migranti. Non lo nascondo: è una commissione lontanissima dai miei valori. Compresa la scelta di Raffaele Fitto come vicepresidente: non per una questione personale, ma per la sua appartenenza al gruppo Ecr, la cui presenza nel perimetro della maggioranza non era nei patti che abbiamo sottoscritto a luglio con Popolari, Liberali e Verdi. I numeri del voto in aula confermano che questa strategia ha indebolito la presidente, che ha raggiunto il minimo storico di voti, 370. E tuttavia non sono felice di aver votato no, perché non mi sfugge quanto sia importante dare all’Europa un governo pienamente operativo, soprattutto dopo l’elezione di Trump.
Una commissione spostata a destra che trascura i vostri obiettivi è un problema per tutto il Pd.
Capisco il ragionamento che ha fatto Schlein, e cioè che se questa commissione non fosse partita ne sarebbe potuta arrivare una anche peggiore, più spostata a destra. È legittimo ritenere che in questa fase bisognasse prendere quello che c’è, pur con molti mal di pancia. Non è stata una scelta facile.
Vi siete sentite con la segretaria?
Sì, come sempre ci siamo parlate con franchezza e serenità. Io capisco la sua posizione e lei la mia, e nel Pd ho trovato grande rispetto per le posizioni indipendenti.
Oggi ci sarà l’ennesimo voto sull’Ucraina, lei come si comporterà?
Il mio voto sarà ancora negativo: dopo 1000 giorni di guerra sono sempre più convinta che la soluzione non sia fornire all’Ucraina armi sempre più potenti e togliere le restrizioni all’uso contro la Russia. Anche nel popolo ucraino cresce il desiderio di un negoziato, che non vuol dire una resa. E a chi dice che non si tratta con un criminale rispondo che la pace si fa con un nemico.
A Bruxelles sta nascendo la consapevolezza che è necessaria una svolta diplomatica?
No, non mi pare. Continua a dominare l’idea di armare Zelensky fino alla vittoria finale, un’ipotesi che non esiste davanti a una potenza nucleare, una frase retorica e poco responsabile visto che a morire sono gli ucraini. Anche Kiev dovrà mettere qualcosa sul tavolo del negoziato, io penso al congelamento della procedura di adesione alla Nato.
Nel voto sull’Ursula bis il Pd si è diviso da M5S e Avs. Avrà ripercussioni sulla costruzione di un fronte alternativo in Italia?
Credo di no, se tutti siamo d’accordo che è necessario costruire un’alternativa alla disastrosa situazione italiana. Capisco l’esigenza di ciascuno di tirare l’acqua al proprio mulino, ma è il momento di unirsi per provare a portare più diritti alle persone. La destra ormai è più spaccata di noi, come si è visto anche oggi nel Parlamento italiano, eppure riescono sempre a unirsi quando è il momento di togliere diritti alle persone.
Fdi canta vittoria dopo il voto sulla commissione.
Una totale contraddizione. Per anni gridano no all’Europa, a luglio votano no a von der Leyen e ora esultano perché hanno un vicepresidente. Vigileremo su Fitto, ora il suo compito è portare avanti il progetto europeista. Non dovrà più rispondere a Meloni ma alle istituzioni Ue. Le contraddizioni sono tutte in casa loro.
Resta un assordante silenzio dell’europarlamento sul Medio Oriente.
Si fanno dibattiti, ma a Strasburgo non si riesce a produrre uno straccio di risoluzione, neppure dopo il mandato di arresto per Netanyahu: una cosa vergognosa. Con che faccia condanniamo Putin e utilizziamo un doppio standard verso Israele? Faccio parte di un intergruppo che da tempo chiede di sospendere gli accordi di cooperazione con Israele e di fermare l’export di armi. Ma sia in Parlamento che nel Consiglio europeo c’è un muro, nonostante il grande lavoro di Borrell. Così l’Ue perde la faccia davanti al mondo.
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Lo strappo Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura
Antonio Tajani e Matteo Salvini – foto di Fabio Frustaci/Ansa
La doppia spaccatura del centrodestra sul decreto fiscale non è «la maggioranza in frantumi», come finge di credere Elly Schlein, ma certo non è neppure solo una «schermaglia non particolarmente seria» come se la rivende la premier Giorgia Meloni e deve avercela messa davvero tutta per mascherare l’ira. È invece il segno che nella coalizione di governo sono saltati gli equilibri che permettevano di negare ogni divisione perché poi, al momento del voto, l’unità si ricomponeva magicamente. Quella è già storia di ieri.
Forza Italia, votando con l’opposizione contro la proroga del taglio al canone Rai, non ha mandato sotto soltanto la Lega che proponeva l’emendamento ma anche il governo che aveva dato parere positivo. Non era mai successo prima, in questa legislatura.
Spacciare l’inedito fattaccio per una semplice divergenza d’opinione come fa Forza Italia, neanche si trattasse di una discussione tra amici a cena, dimostra solo che gli azzurri sono in realtà consapevoli della portata dello strappo. La Lega ha reagito colpendo su un emendamento azzurro che almeno vedeva il governo neutrale, quello sulla sanità in Calabria, ma l’innesco della spirale bastonata-rappresaglia è comunque quanto di meno gradito per l’inquilina di palazzo Chigi.
È probabile che Antonio Tajani abbia davvero scelto di portare la sfida sino alle estreme conseguenze su pressione dell’azienda madre, Mediaset, spaventatissima dalla prospettiva di un innalzamento della pubblicità Rai per colmare il buco del canone decurtato. La premier ne è convinta ed è facile che colga nel segno. Ma la consolazione è di respiro corto. Quella motivazione, se reale, spiega comunque solo in parte l’affondo degli azzurri. Forza Italia è infatti impegnata su una quantità di fronti, non solo su quelli che tirano in ballo i sacri interessi Mediaset. Si oppone a qualsiasi manovra contro l’affare Unicredit-Bpm, ove mai prendesse quota. Il mercato è sacro. Mira a trasformare la disfatta della Lega sull’autonomia differenziata in una rotta scomposta e definitiva. Pretende che il commissario europeo Fitto sia sostituito dal suo ex capogruppo Cattaneo e già che ci si trova insiste per un rimpasto, parola tabù per Giorgia Meloni, che registri la sua accresciuta importanza nella coalizione.
Più delle richieste imperative degli eredi di re Silvio o delle proteste della Fi del sud, cioè quasi tutta, contro l’autonomia di Calderoli, l’elemento destabilizzante è questo. La maggioranza è la stessa che aveva vinto le elezioni due anni fa ma gli equilibri al suo interno non lo sono affatto. La maggioranza vincente nel 2022 vedeva due partiti di destra competere sullo stesso elettorato per aggiudicarselo, con l’aggiunta di Fi come foglia di fico moderata, utile ma in via di estinzione. Due anni dopo la competizione è tra il partito di destra e la delegazione italiana del Ppe, decisa a riproporre in Italia lo schema europeo che prevede sì un’alleanza con la destra meno incarognita, quella guidata da Giorgia Meloni, ma in funzione subordinata non certo al timone.
Per battere quella pista, che è in realtà quasi obbligato a seguire, Tajani deve per forza evidenziare il ruolo del suo partito, dare la caccia a un elettorato diverso da quello di FdI e della Lega, brandire bandiere e parole d’ordine diverse a volte ai confini dell’inconciliabilità. Non per rompere la coalizione, tentazione “terzopolista” che non lo sfiora, ma per assumerne la guida o almeno poter trattare con la componente di destra da pari a pari. In questo nuovo quadro il mare molto mosso è per forza la regola, la stabilità degli anni scorsi difficilmente riproponibile.
Una Lega che già versa in condizioni disperate, soffre l’emorragia di voti, prende schiaffi su tutti i fronti, è condannata ora al ruolo ingrato del vaso di coccio. Quanto Matteo Salvini possa resistere nella parte del leader che sbraita e ruggisce ma in realtà fa la parte del punching ball è incerto e se accettasse di prestarsi all’umiliante ruolo potrebbe non restare a lungo al timone del Carroccio.
Messa da parte la maschera dell’indifferente, in privato la premier Meloni ha ordinato ieri ai suoi alleati di smettere di prendersi a mazzate una volta per tutte. Ma stavolta la voce grossa, di fronte a una mutazione strutturale della maggioranza, non può bastare.
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Medio Oriente L'accordo garantisce a Israele ampia libertà di manovra e si costruisce sull'offensiva pesantissima contro la popolazione libanese, mentre Netanyahu seppellisce la questione palestinese
Macerie nel quartiere di Dahiyeh a Beirut in Libano dopo un attacco israeliano
Quella del Libano è una tregua «sporca»: perché, arriva – sperando che arrivi davvero – sotto una pioggia di bombe su Beirut e, come sempre, accompagnata dal diritto di Israele a romperla in qualunque momento.
Ci sarà una doppia tutela in Libano, scrivevano ieri i media locali: nel sud quella israelo-americana, a nord del fiume Litani quella Hezbollah-Iran, in mezzo l’Onu e le forze libanesi. Israele ovviamente si riserva il diritto di colpire quando vuole, Hezbollah, a sua volta, di decidere per tutto il Libano e non soltanto per la «resistenza».
MENTRE ISRAELE rendeva noto che soltanto ieri aveva colpito 180 bersagli in Libano, la 91a divisione delle Forze di difesa israeliane (Idf) raggiungeva il fiume Litani, nel sud del Libano e l’area di Wadi Saluki. È la prima volta dal 2000, anno in cui Israele si ritirò dal Libano meridionale, che le truppe dell’esercito israeliano raggiungono il fiume Litani.
Quindi Hezbollah ha perso? Per Hezbollah, l’accordo con Israele è un compromesso strategico che mantiene i fondamenti della sua «missione di resistenza» senza sacrificare la capacità di operare come attore politico-militare in Libano. Il partito descrive l’accordo come «una pausa tattica», necessaria per riorganizzare le forze e affrontare le prossime sfide, senza mai abbandonare la lotta contro quello che considera «il nemico sionista».
Insomma, si cerca di indorare la pillola. Fonti vicine a Hezbollah a Beirut affermano che, sebbene il ritiro dei combattenti a nord del fiume Litani possa essere interpretato come una concessione tattica, questo è in realtà un «adattamento temporaneo» al contesto attuale, «necessario per proteggere i civili» e preservare l’integrità del suo arsenale.
In realtà tutte le aree sciite legate a Hezbollah sono state sgomberate e in parte distrutte. Il Partito di Dio ha perso il suo segretario generale Hassan Nasrallah, è stato decimato l’alto comando militare e gran parte del suo arsenale. Questo non è certo un risultato paragonabile a quello del 2006 quando Hezbollah difese se stesso e il Libano bloccando l’avanzata di Israele nel sud.
IN QUEL MOMENTO Hezbollah aveva raggiunto il massimo della sua popolarità non solo nel Paese dei Cedri ma anche in buona parte del Medio Oriente, nonostante il Partito di Dio appartenga alla minoranza sciita e sia fortemente sostenuto dall’Iran.
Certo, Hezbollah è ancora qui e non si sconfigge un’idea, o un’ideologia ben radicata nella società, con una guerra.
Come pure Hamas è ancora qui nonostante i 45mila palestinesi uccisi a Gaza – di cui il 70% donne e bambini – e la decimazione della sua leadership. Lo ha dimostrato il passato che non si sradica la resistenza di un popolo. Però sono mesi che il Partito di Dio sbaglia i calcoli e sopravvaluta la sua forza nei confronti dell’avversario.
Questa è la logica che ha portato al disastro attuale. Con un’attenuante non da poco. Anche gli analisti militari meno favorevoli a Hezbollah pensavano che la resistenza libanese fosse comunque capace di infliggere danni importanti a Israele. E invece è stato Israele a sorprendere con una guerra tecnologica e molto cyber che ha decapitato la leadership e i quadri Hezbollah.
Una guerra che non ha rinunciato a fare tabula rasa senza alcuna pietà di tutto il Libano provocando migliaia di morti e danni per miliardi dollari, in un Paese già stremato dalla crisi economica e dall’afflusso di centinaia di migliaia di profughi.
MA SOPRATTUTTO perché questa è una tregua sporca? Il premier israeliano Benyamin Netanyahu non vuole solo sconfiggere l’asse iraniano. Vuole metterlo in ginocchio. Fare in modo che non sia più una minaccia nei prossimi decenni. E al tempo stesso vuole seppellire la questione palestinese. In altre parole: imporre una nuova realtà regionale. È il suo sogno da più di trent’anni.
L’elezione di Donald Trump potrebbe permettergli di realizzarlo.
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