Il limite ignoto La nuova dottrina: per «proteggere la sovranità nazionale» l’aggressione di uno Stato senza armi nucleari ma sostenuto da un Paese che ne dispone, sarà un attacco alla Russia
Soldato ucraino nella regione russa di Kursk
Che dovessimo finire l’anno parlando di minaccia nucleare per l’Europa e per il mondo era, ahimè, facile profezia già prima delle presidenziali Usa, quando a settembre l’annunciato invio di missili a lungo raggio chiesti da Zelensky veniva rimandato in attesa dei risultati del voto: Kamala Harris o Trump? La risposta c’è stata, ma quello che va in onda ora non è il paradosso della “pace trumpiana” – che al contrario non esiterà a rinfocolare conflitti per la primazia Usa, dal Medio Oriente all’Asia. E’ sull’Ucraina che arriva il colpo di coda della presidenza Biden, per il quale l’Ucraina è dal 2014 quasi un fatto personale, se non privato. Sarà in carica fino al 20 gennaio, non ha ancora giurato Trump.
Che promette di risolvere la crisi ucraina in «24 ore», senza dire come, e che ha sempre schernito le tante richieste di armi di Zelensky, manifestando un’altra vocazione: quella di europeizzare conflitti e sicurezza, chiedendo più spesa militare ai Paesi della Nato.
Ma siccome la vera eredità che ogni presidente Usa lascia al suo successore è un dividendo di guerra, Biden, a sorpresa, ha confermato la tradizione e ha deciso di fornire i missili Atacms che hanno un lunghissimo raggio di azione di 300 km, da usare in territorio russo, più volte negati a Kiev perché avrebbero attivato una reazione eguale e contraria – come l’ingresso nella Nato, per una neutralità chiesta da Putin ma fino ad oggi negato anche dallo stesso Biden perché, diceva “sarebbe l’inizio della Terza guerra mondiale”. Ci si interroga se sugli Atacms ci sia stato, al caminetto della Sala Ovale una specie di assenso tra i due presidenti. Pare difficile immaginarlo perché Biden fa l’esatto contrario degli annunci di Trump, sconvolgendogli i piani con un invio qualitativo di armi che possono concretamente impedirgli un futuro ruolo negoziale. Perché?
Perché la decisione subito alimenta la guerra. E siamo all’assurdo: l’uso dei nuovi missili a lunghissimo raggio dovrebbe essere limitato “in un primo momento” al Kursk, oblast russo occupato dall’inizio di agosto da truppe ucraine, e ora ripreso in parte da quelle russe coadiuvate, pare, da quelle nordcoreane che stanno come carne da cannone nella terra della Federazione russa, almeno finora; dunque l’obiettivo è la tenuta dell’occupazione ucraina di questa regione russa, per proporre lo scambio con il Donbass in una trattativa per una “pace giusta”, per dare a Zelensky maggiore forza negoziale. Ma c’è da chiedersi: è uno scambio credibile, visto che la Crimea e il Donbass occupato rappresentano il 20% del territorio ucraino rispetto alla piccola porzione del russo Kursk? E se il Donbass, filorusso e irredento è all’origine di questa guerra – sono mille giorni di conflitto dall’aggressione russa, ma la crisi precipita con gli oscuri fatti di Majdan e dura dal 2014 – il Kursk non ha da questo punto di vista questa storica specificità speculare (irredenta e filo-ucraina); inoltre il Kursk occupato dall’Ucraina serve a Putin esattamente per raccontare alla sua opinione pubblica l’evidenza della minaccia occidentale. E ci conforta il Washington Post: fonti vicine a Putin dicono che il presidente russo esclude trattative di pace finché il Kursk sarà occupato. Poi, se doveva essere un’impresa che alleggeriva la pressione russa nel Donbass, va detto che da agosto in poi l’avanzata russa in Donbass è diventata inarrestabile.
Ma il fatto più grave, che mostra come la decisione di Biden sia tutto meno che razionale, è che non ha contemplato la reazione di Putin. Che non si è fatta attendere: ieri, proprio mentre veniva lanciato il primo attacco in Russia con 5 missili Atacms sulla regione di Bryansk, Putin ha ratificato la nuova, epocale, dottrina nucleare russa per «proteggere la sovranità nazionale». Stabilendo (nel documento ora nella Gazzetta ufficiale russa), che l’aggressione da parte di qualsiasi Stato che non disponga di armi nucleari ma che è sostenuto da un Paese, o da una alleanza militare, che ne dispone, sarà considerato un attacco congiunto di questi Paesi alla Russia. La ritorsione nucleare della Russia – a decidere sarà Putin – è dunque ora possibile come «misura estrema”» se il Paese affronta «una minaccia critica alla sua sovranità» creata anche con armi convenzionali (anche per un attacco alla Bielorussia), e nei casi di uso su vasta scala di aerei militari, missili da crociera, droni, aeromobili che attraversino il confine russo: in pratica la situazione attuale.
Si può essere scettici e rilanciare la tesi del bluff. Ma l’annuncio a mille giorni da una guerra per la quale non c’è soluzione militare ma solo negoziale – lo dichiara pure Zelensky che tuttavia dissimula la mai abbandonata «vittoria» – appare come una minaccia concreta. Attenti dunque, Putin non è Milosevic, il presidente della piccola Jugoslavia (Serbia e Montenegro) bombardata dalla Nato per 78 giorni nel 1999, piegato con un trattato di pace fatto poi a pezzi dalla Nato che sostenne invece l’indipendenza unilaterale del Kosovo, rompendo l’integrità territoriale della Serbia mentre in Ucraina fa esattamente l’opposto. Milosevic, che poi uscì di scena un anno e mezzo dopo con una rivolta sostanzialmente a guida dei nazionalisti più estremi di lui, scesi in piazza contro le sue rinunce e compromessi, finendo due anni dopo a processo all’Aja. Il conflitto dell’Ucraina con la Russia, costato finora centinaia di migliaia di morti, è impari e asimmetrico, non c’è invio di armi che tenga, aumenta solo la guerra, le vittime e l’odio: la differenza la fanno le armi nucleari. La Russia secondo l’Istituto Ispi ne ha 5.900 di cui 1.900 famigerate “tattiche”. E Putin con la nuova dottrina dice che è pronto ad usarle.
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Fuori misura Non si tratta di difendere una presunta italianità e nemmeno, in questo caso, le ragioni dell’accoglienza. Si tratta invece di una precisa questione di genere, lo si ripete da anni
Il corteo contro la violenza sulle donne, Roma, 25 Novembre 2023 – Ansa/Giuseppe Lami
Non è stato un saluto istituzionale quello che il ministro Valditara ha rivolto ieri alla Camera dei deputati, ma il modo di intestarsi la nascita della Fondazione Giulia Cecchettin, dando il suo parere sulla violenza contro le donne in maniera assai paradossale. Appellandosi ai valori costituzionali, alle pari opportunità e alla civiltà offesa dal fenomeno della violenza maschile contro le donne – a una settimana esatta dalla giornata mondiale che ne ricorda, come ogni anno, il significato sistemico – il ministro non è sembrato così aggiornato, come il nome del suo dicastero imporrebbe, in particolare in due passaggi: ha citato la violenza sessuale che «si combatte anche riducendo i fenomeni di marginalità e di devianza legati alla immigrazione clandestina»; ha poi indicato il patriarcato conclusosi «come fenomeno giuridico» con la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Due opinioni che certamente corroborano la parte politica cui appartiene ma che non sono verificabili nella realtà. La cosa singolare è che, entrambe queste enormità, sono state esplicitate davanti a Gino Cecchettin, la cui figlia è stata uccisa un anno fa dal suo ex fidanzato e la cui vicenda, ancora una volta, conferma quanto la provenienza geografica e le riforme del diritto di famiglia contino ben poco.
Dovremmo pensare dunque che Giuseppe Valditara, oltre a non essere istruito sull’entità di quanto ha commentato, non sappia intervenire neppure nel «merito». Perché a commettere violenza contro le donne sono dei maschi, indipendentemente da dove arrivino e dove siano diretti: per tacere dei dati forniti dai centri antiviolenza, che fanno un lavoro capillare sul territorio e mai sufficientemente sostenuto, si può dare uno sguardo almeno all’ultimo report del Dipartimento di pubblica sicurezza. Si ferma al 10 di novembre, viene aggiornato ogni settimana e, dall’inizio del 2024, registra 97 uccise di cui 83 in ambito familiare/affettivo.
Non si tratta di difendere una presunta italianità e nemmeno, in questo caso, le ragioni dell’accoglienza. Si tratta invece di una precisa questione di genere, lo si ripete da anni. Oltre a essere una evidenza che niente ha a che vedere con «l’ideologia», parola che il ministro curiosamente convoca con valore negativo tanto da domandarsi se non la confonda con il termine «propaganda».
Affermare che il patriarcato sia «giuridicamente» finito, è invece l’appropriazione confusa di quanto il femminismo di questo paese ha elaborato e sovvertito negli ultimi decenni a proposito della relazione tra i sessi.
La scena di ieri alla Camera dei deputati in occasione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin racconta tuttavia qualcosa in più: ad esempio che un saluto istituzionale si trasforma in un rapido résumé di intenti della destra al governo, antistorica e reazionaria. Peccato perché avrebbe potuto imparare da ciò che il padre di una ragazza vittima di femminicidio diffonde ormai da mesi a proposito del tema. Ma il ministro ha parlato in un videomessaggio, dunque non ci sono state repliche immediate. Lo si è ascoltato, come l’etichetta e l’educazione impongono quando si è ospiti in casa d’altri.
Commenta (0 Commenti)Elezioni regionali Il risultato è una democrazia in crisi: resta il guscio della sfida - campagna elettorale, promesse, polemiche, maratone - ma non c’è alcuna vera delega
Seggi vuoti in Umbria – LaPresse
Per le Regioni che si immaginano come Stati, competenti su tutto e proprietarie di tutte le risorse, secondo il progetto di Autonomia fermato dalla Corte costituzionale ma non per questo abbandonato dalla destra, ormai non vota quasi più nessuno.
Questo è il primo dato che le elezioni di ieri in Emilia Romagna e Umbria non confermano rispetto alle precedenti cinque regionali di quest’anno: alle urne va solo un elettore ogni due. Almeno quando va bene, altrimenti è anche peggio, come ieri in Emilia Romagna dove il crollo è stato verticale: tra le ultime elezioni e quelle di domenica e lunedì sono spariti altri 700mila elettori (come il totale degli abitanti di Bologna, Parma e Piacenza).
L’astensione ha motivazioni sia profonde – debolezza dei partiti, sfiducia nella capacità delle politica di risolvere i problemi, proposte al tempo stesso non credibili e non radicali – sia contingenti – voto in inverno e, nel caso dell’Emilia Romagna, scarsa contendibilità. Il risultato è una democrazia in crisi: resta il guscio della sfida – campagna elettorale, promesse, polemiche, maratone – ma non c’è alcuna vera delega. Per fare solo un esempio, la Lega in Emilia Romagna dopo le elezioni di quattro anni fa poteva parlare a nome di 20 elettori ogni 100, oggi ne rappresenta appena 2.
Su queste macerie sorride il Pd. Il Pd più che il centrosinistra, entità in perenne via di formazione malgrado ogni passaggio elettorale confermi l’ovvio: una forma di unità è la strada obbligata per battere la destra nelle urne. I numeri dicono che, giocando in casa, il Pd è da solo la quasi totalità del centrosinistra: in Umbria vale sei volte la seconda lista della coalizione, in Emilia Romagna otto volte.
Una conferma dello schema «tronco più cespugli» che è anche conseguenza della polarizzazione dello scontro tra Meloni e Schlein. Una tendenza al ritorno del bipolarismo che non è nuova e che naturalmente non piace per niente ai più piccoli alleati. Conte e 5 Stelle per primi, il cui crollo elettorale continua voto dopo voto e che per questo rappresenta un problema anche per Schlein. Da quella parte si aspetti nuova concorrenza e altra ostilità.
Per fortuna della segretaria del Pd, il fenomeno del partito mangia-alleati si replica dall’altra parte, con la lista di Meloni a svolgere il ruolo di quella di Schlein. E con tutte le tensioni interne che questo squilibrio sta già producendo, e che può ancora aumentare, in una coalizione che deve (dovrebbe) tirare avanti a governare. Non è l’unica buona notizia per Schlein, visto che l’Umbria chiude l’anno delle regionali con la stessa nota positiva con cui era cominciato a febbraio in Sardegna: un’altra regione riconquistata dalla destra. In mezzo solo delusioni, dunque è un bel sospiro di sollievo. Ma è un sospiro e basta.
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Regionali Alle politiche 2022 le destre vinsero 10 collegi uninominali su 16. Ma i progressisti erano divisi. Ottimismo nel Pd, già si pensa alla squadra: tra gli uscenti riconferma certa solo per l'assessore a Lavoro e sviluppo Vincenzo Colla (che spianò la strada al sindaco di Ravenna col suo passo indietro a luglio)
Romano Prodi e Michele de Pascale a Bologna per la chiusura della campagna elettorale – Ansa
L’apparenza di una campagna elettorale alla camomilla, senza un attimo di suspense o colpi bassi, non deve trarre in inganno sui numeri che anticipano la sfida elettorale in Emilia-Romagna. La regione rossa per antonomasia non è più blindata da molti anni. Non solo perché nel 2020 la candidata di Salvini, Lucia Borgonzoni, era accreditata fino all’ultimo minuto di un testa a testa col governatore Bonaccini (a sorpresa finì 51,4% contro 43,6%).
Ma perché dopo quel gigantesco sospiro di sollievo, i numeri delle politiche 2022 hanno mostrato una mappa dei collegi uninominali assai più blu (centrodestra) che rossi, con l’eccezione di Bologna, Modena e parti della Romagna. In sintesi, su 16 collegi uninominali tra Camera e Senato, le destre in regione ne hanno vinti 10, il centrosinistra 6. Non era mai accaduto.
Certo, in quelle elezioni il Pd correva solo con Avs e +Europa, mentre i 5S andavano per conto proprio così come l’allora coppia Renzi-Calenda. E tuttavia non va dimenticato che a ovest di Modena, e anche nel ferrarese, la destra è stabilmente insediata, prima col verde della Lega e ora con Fdi, che alle europee ha preso il 28% in regione. E alle comunali di giugno a Ferrara il sindaco leghista Alan Fabbri ha conquistato il secondo mandato con il 58%.
Alle elezioni del giugno scorso per Strasburgo i numeri sono tornati ad allinearsi alla tradizione: il campo larghissimo ha preso (in totale) il 56% contro il 40% delle destre, in voti reali fa 1,1 milioni di voti contro 800mila. Un distacco importante, ma va ricordato che l’affluenza 5 mesi fa in regione superò il 59%, mentre stavolta il rischio che l’asticella si fermi sotto il 50% è molto alto. Numeri che non portano a invertire i pronostici della vigilia (vittoria di Michele De Pascale sulla candidata del centrodestra Elena Ugolini), ma che fanno capire come nessun voto, neppure da queste parti, sia scontato.
Lo sanno bene i dirigenti del Pd emiliano-romagnolo, consapevoli però di aver stavolta un «percorso netto», come l’ha definito Igor Taruffi, braccio destro di Schlein: la coalizione è la più ampia possibile, il veto di Conte sui renziani è stato bypassato inserendoli in una lista civica, il candidato è unanimemente riconosciuto come un ottimo amministratore e, da agosto, ha fatto una campagna porta a porta senza «nascondere sotto il tappeto» i problemi che ci sono, dalla sanità alla difesa del territorio alle crisi aziendali. Ma anzi, mostrando una certa grinta e volontà di affrontarli da martedì prossimo.
Venerdì sera per la chiusura in piazza Santo Stefano a Bologna si respirava, al di là delle dichiarazioni ufficiali, un diffuso ottimismo e i sorrisi si sprecavano. Già si ragiona sulla nuova giunta, che dovrà tenere conto delle esigenze dei territori (De Pascale è romagnolo e Bologna vuole delle compensazioni).
Tra gli uscenti della squadra di Bonaccini è certa solo la conferma di Vincenzo Colla, assessore al Lavoro e allo sviluppo economico, che a luglio fece il passo indietro che spianò la strada a De Pascale (poi ha coordinato il programma). Per la sanità circola il nome di Giovanni Gordini, ex direttore dell’Unità di rianimazione dell’Ausl di Bologna, arruolato dal candidato presidente nella scrittura del programma e in una delle sue civiche
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Potere assoluto La guerra Iran-Israele (e Stati uniti) non s’ha da fare, dicono gli arabi del Golfo. Ma la pace, nell’ottica di Trump e Netanyahu, ha un prezzo e lo pagheranno subito […]
L'ingresso del'insediamento "Trump Heights" nelle alture del Golan controllate da Israele – Ariel Schalit /Ap
La guerra Iran-Israele (e Stati uniti) non s’ha da fare, dicono gli arabi del Golfo. Ma la pace, nell’ottica di Trump e Netanyahu, ha un prezzo e lo pagheranno subito i palestinesi con riflessi imprevedibili su tutto il mondo arabo. La pensano così anche in Arabia saudita, sotto pressione da tempo perché faccia il suo ingresso in quel Patto di Abramo che si profila come il certificato della supremazia israeliana su tutta la regione.
Israele, potenza nucleare non dichiarata, tiene tutti sotto tiro. Lo ha detto chiaramente Amer Moussa, ex segretario della Lega araba ed ex ministro degli esteri egiziano, in un’intervista al quotidiano Al Masri al Youm: «Gli accordi di Abramo, nell’eccezione israeliana, impongono l’egemonia ebraica in un Medio Oriente coloniale dove Paesi arabi e islamici vengono costretti su un percorso dove non c’è sicurezza». Moussa ha confermato che Israele «progetta di annettere nuove terre arabe, dalla Siria all’Iraq, dal Libano alla Giordania, a parti di Egitto e Arabia saudita (dichiarazioni del ministro Smotrich, ndr)».
TUTTI PRENDONO posizione, gli iraniani per primi. Il ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi ha avuto colloqui definiti «molto importanti» con il direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea) Rafael Grossi in visita a Teheran. Nel 2018 Trump stracciò il patto sul nucleare voluto da Obama nel 2015 e da allora le cose sono soltanto peggiorate fino allo scontro diretto tra Israele e l’Iran.
Nel mondo arabo alla diffidenza verso Israele si aggiunge quella verso la nuova amministrazione americana. Gli stati del Golfo respingono la strategia Trump di «massima pressione sull’Iran», titolava in prima pagina l’altro ieri il Financial Times e il principe saudita Mohammed bin Salman, che ha ricevuto ieri alti emissari militari iraniani per manovre congiunte nel Golfo, ha definito un «genocidio» quello che sta avvenendo a Gaza.
Il nuovo governo Usa non è soltanto filo-israeliano ma la dimostrazione che non ci sono quasi più freni all’influenza di Tel Aviv sulle decisioni di Washington. Sul tavolo c’è uno scambio: Netanyahu non replica militarmente all’Iran e si prepara a un cessate il fuoco in Libano o a Gaza. Ma Trump dovrà approvare l’annessione della Cisgiordania, così come aveva già promesso suo genero Kushner al premier (promessa non mantenuta che gli è costata il posto da inviato per il Medio Oriente, assegnato adesso a Steve Witkoff, immobiliarista di famiglia ebraica, compagno di golf di Trump).
Bezalel Smotrich, leader di un partito di estrema destra, ministro delle finanze di Israele incaricato dell’amministrazione civile della Cisgiordania occupata, ha già annunciato che nel 2025 partirà l’annessione della West Bank. Una chiara conseguenza dell’elezione di Trump. Già in occasione del primo mandato, Trump aveva trasferito l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e riconosciuto l’annessione del Golan siriano, inglobato dallo Stato ebraico dopo la guerra del 1967.
IN PASSATO gli israeliani avevano rinunciato una prima volta all’annessione per non compromettere gli Accordi di Abramo ma adesso che i sauditi frenano ritengono di non avere più limiti. Con Trump alla Casa bianca i sostenitori dell’annessione sentono di avere il vento in poppa. Chi potrà opporsi in una comunità internazionale spaccata e impotente? La soluzione “due popoli e due stati”, ancora presente tra gli strumenti retorici dell’amministrazione democratica, viene sepolta sotto le macerie e i morti della Palestina.
Le parole di Mike Huckabee, nuovo ambasciatore Usa in Israele, lasciano pochi dubbi: «È possibile che l’amministrazione Trump appoggi il piano del ministro delle finanze Smotrich di annettere gli insediamenti in Cisgiordania», ha appena detto alla radio militare israeliana. Questo pastore battista nel 2017 dichiarava che «la Cisgiordania non esiste, esistono solo la Giudea e la Samaria».
Del resto questa è un’amministrazione formata da filo-sionisti radicali e fuori controllo. Negli ultimi mesi Rubio, Waltz e Stefanik (rispettivamente segretario di stato, consigliere della sicurezza nazionale e ambasciatrice all’Onu) hanno attaccato l’amministrazione Biden per non aver sostenuto a sufficienza Israele nella guerra a Gaza e in Libano. Waltz, ex berretto verde dell’esercito americano, si è detto contrario a un cessate il fuoco in Medio Oriente, che «lascerebbe i terroristi di Hamas al potere a Gaza». Stefanik ha accusato l’Onu di antisemitismo per le ripetute condanne dei bombardamenti israeliani, spingendo per lo stop agli aiuti Usa a favore dell’Unrwa, l’agenzia per i rifugiati palestinesi.
LE NOMINE di Trump non sono neppure una buona notizia per l’Iran. A ottobre Rubio ha rilasciato una dichiarazione nella quale sosteneva il diritto d’Israele «di rispondere in maniera sproporzionata» alla minaccia di Teheran. Anche Waltz porterà al consiglio per la sicurezza nazionale posizioni apertamente anti-iraniane. Il mese scorso, a proposito della risposta israeliana all’attacco della repubblica islamica, aveva suggerito che lo Stato ebraico colpisse l’isola di Kharg, uno degli snodi più importanti per il commercio di petrolio, e le strutture nucleari a Natanz.
Trump e il suo “Dream Team”, che include di fatto Netanyahu, per arabi e musulmani sono già un governo da incubo.
Commenta (0 Commenti)Clima La presenza crescente di grandi inquinatori e delle lobby fossili tra i partecipanti rischia di minare profondamente la credibilità e l'efficacia di questi eventi
Un cartello per la COP29, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è esposto a Baku, Azerbaigian – Sergei Grits/Ap
Ogni anno, la COP dovrebbe rappresentare il momento clou per le decisioni sul cambiamento climatico, una riunione tra i Governi del mondo per definire piani ambiziosi a favore del clima. Tuttavia, la presenza crescente di grandi inquinatori e delle lobby fossili tra i partecipanti rischia di minare profondamente la credibilità e l’efficacia di questi eventi. Secondo A Sud, ISDE, Greenpeace, OpenPolis e molte altre organizzazioni impegnate per la salute e l’ambiente, è giunto il momento di dire basta alla partecipazione dei colossi inquinanti in questi negoziati, perché rappresentano un vero e proprio conflitto di interessi.
Dai rapporti emersi, sappiamo che molte delle aziende presenti ai tavoli delle conferenze sul clima sono tra le principali responsabili delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento globale. Non è un segreto che diverse compagnie petrolifere, del gas e del carbone, e anche multinazionali che basano i loro profitti su attività altamente inquinanti, abbiano rappresentanti che partecipano alla COP. In queste conferenze, ufficialmente volte alla lotta contro il cambiamento climatico, la loro presenza appare paradossale, tanto che si può parlare di un vero e proprio sabotaggio del processo.
L’influenza che queste aziende esercitano non si limita alla loro presenza: essa si manifesta attraverso pressioni mirate, lobbismo e strategie di greenwashing, tese a presentare un’immagine “verde” e sostenibile che, però, non corrisponde alla realtà dei fatti. La realtà, evidenziata anche dai dati ufficiali, racconta una storia diversa. Gli impegni presi da queste aziende per ridurre le emissioni sono spesso superficiali e dilazionati nel tempo, mentre si continuano a cercare nuove riserve di combustibili fossili, un chiaro segno che la loro priorità resta il profitto a breve termine.
È ormai risaputo che le lobby inquinanti influenzano attivamente i processi decisionali, ritardando l’adozione di misure concrete. Spesso, queste influenze portano all’annacquamento degli accordi raggiunti durante le conferenze: invece di promuovere una decarbonizzazione rapida e una transizione energetica sostenibile, molte decisioni sono state compromesse, indebolendo l’efficacia delle misure proposte. Inoltre, ritardare la transizione significa anche aumentare i rischi per la salute pubblica: il legame tra inquinamento atmosferico, uso dei combustibili fossili e patologie respiratorie, cardiocircolatorie e oncologiche è ormai ben documentato dalla letteratura scientifica.
Lunedì scorso è stata lanciata la campagna “Clean the COP” che chiede una cosa semplice: le conferenze sul clima devono essere libere da conflitti di interesse e devono mettere al centro le evidenze scientifiche. I Governi partecipanti alla COP devono escludere i rappresentanti di aziende che traggono profitto dall’inquinamento. La partecipazione di queste industrie non solo compromette la trasparenza e l’efficacia delle negoziazioni, ma vanifica gli sforzi per costruire una vera transizione ecologica. L’obiettivo di una conferenza come la COP è discutere e promuovere soluzioni efficaci per contrastare il cambiamento climatico; per farlo, è necessario che le scelte siano libere da pressioni esterne e fondate sulla scienza e sull’interesse pubblico.
Una COP senza grandi inquinatori è possibile e auspicabile. Diverse organizzazioni hanno già proposto un codice di trasparenza che vieterebbe la partecipazione alle conferenze sul clima di soggetti economici direttamente coinvolti nella produzione di emissioni climalteranti. Inoltre, alcuni paesi stanno già adottando misure concrete per limitare l’influenza delle lobby inquinanti nelle loro decisioni nazionali sul clima. Per esempio, i paesi nordici hanno sperimentato con successo pratiche per escludere i lobbisti del fossile dai tavoli di confronto, ponendo al centro le competenze scientifiche e la partecipazione della società civile. Questo approccio ha portato a un’accelerazione delle politiche a favore delle energie rinnovabili e a una riduzione delle emissioni di CO₂. ISDE e le altre associazioni che aderiscono alla campagna Clean the COP propongono di adottare misure simili anche a livello internazionale. La richiesta è quella di porre un limite chiaro all’ingerenza delle industrie inquinanti nelle politiche climatiche, creando uno spazio realmente neutrale dove scienziati, rappresentanti delle istituzioni e della società civile possano confrontarsi senza pressioni.
L’urgenza di agire è ormai un dato di fatto, e ogni COP rappresenta un’occasione irripetibile per cambiare realmente il futuro del pianeta. È quindi necessario, oggi più che mai, che questi eventi siano liberi dall’influenza dei grandi inquinatori e delle lobby fossili, e che si concentrino sul bene comune e sulla sostenibilità. Una COP senza conflitti di interesse è una COP più forte, più credibile e più efficace nel portare avanti l’agenda climatica.
*Isde
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