Opinioni Singolare che Netanyahu, il cui orizzonte ideologico è la guerra, prometta libertà agli iraniani mentre in patria tiene i palestinesi in un regime di apartheid e senza il diritto ad uno Stato
Beirut, gli effetti dell’attacco aereo israeliano a Dahiyeh di ieri foto di Hassan Ammar/Ap
Ogni tanto nel corso della storia salta fuori qualcuno che vuole cambiare il Medio Oriente e che dichiara di volere «liberare» i popoli della regione. Adesso, in attesa della replica israeliana alla pioggia di razzi di Teheran, sale in cattedra Benyamin Netanyahu, il cui governo ha battezzato «Operazione Nuovo Ordine» l’uccisione di Nasrallah, leader di Hezbollah, e l’attacco militare in corso Libano. Il premier israeliano, davvero con sorprendente improntitudine si è spinto anche più in là.
Rivolgendosi alla popolazione iraniana (definita «popolo persiano») ha affermato: «Quando l’Iran sarà finalmente libero, e quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi, tutto sarà diverso. I nostri due antichi popoli, il popolo ebraico e il popolo persiano, saranno finalmente in pace». Anche se ora i due Paesi si avvicinano pericolosamente allo scontro diretto che rischia di travolgere tutta l’area in una guerra con il coinvolgimento anche delle grandi potenze.
È assai singolare che Netanyahu, il cui orizzonte mentale e ideologico sono la violenza e la guerra, prometta di liberare gli iraniani visto che in patria ha deciso di tenere i palestinesi in un regime di apartheid e non si pone neppure il problema di uno stato palestinese. Ma in anni recenti, senza risalire alle spartizioni anglo-francesi, ce ne sono stati altri che si sono proposti come «liberatori».
I loro clamorosi insuccessi sono diventati l’emblema delle tragedie mediorientali. Sapere come sono nate queste idee e come si sono sviluppate ci dice come potrebbe finire domani. In decenni recenti chi pensò di rifare il Medio Oriente fu Bernard Lewis, uno dei massimi esperti mondiali, professore emerito all’università di Princeton. Nel 1978 Lewis elaborò un documento in cui si raccomandava di appoggiare i movimenti dei radicali islamici dei Fratelli Musulmani e di Khomeini con l’intento di promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente lungo linee tribali e religiose. Lewis sosteneva che l’Occidente dovesse incoraggiare gruppi indipendentisti come i curdi, gli armeni, i maroniti libanesi, i copti etiopi, i turchi dell’Azerbaijan. Il disordine sarebbe sfociato in quello che il professore definì un «arco della crisi» per poi diffondersi anche nelle repubbliche musulmane dell’Unione sovietica.
L’espressione «arco della crisi» ebbe un enorme successo. L’Iran, sfortunatamente per l’amministrazione Carter, si rivelò più un problema per gli Usa che per Mosca, ma l’invasione dell’Armata Rossa in Afghanistan nel 1979 diede un impulso straordinario alla teoria di Lewis: gli Stati Uniti, con l’appoggio militare del Pakistan e quello finanziario dell’Arabia saudita, armarono migliaia di mujaheddin che inchiodarono i russi in una «guerra santa» fino al loro ritiro nel 1989. Quando gli americani dopo l’11 settembre invadono l’Afghanistan pensano di fare meglio dei sovietici ma finisce come sappiamo: con la riconsegna del Paese ai talebani e una vergognosa fuga da Kabul.
Ma il «capolavoro» di Lewis e del corteo dei «liberatori» è l’Iraq. Nel 2002 convince il presidente Bush junior e il suo vice Cheney ad attaccare Saddam Hussein e scrive: «Se avremo successo ad abbattere il regime iracheno e iraniano vedremo a Baghdad e Teheran scene di giubilo ancora maggiori di quelle seguite alla liberazione di Kabul». Ma né a Baghdad né a Kabul ci sono mi state le gioiose manifestazioni immaginate dal professore.
L’Iraq, occupato nel 2003 con la menzogna di scovare armi di distruzione di massa mai trovate, fu inghiottito da nuove guerre, dal terrorismo di Al Qaeda e poi fatto a pezzi dal Califfato: centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, così come avvenne in Siria. Peccato che ci siamo dimenticati che a fermare l’Isis a 40 chilometri da Baghdad, quando l’esercito iracheno si era ormai completamente sbandato, non furono gli Usa ma i Pasdaran iraniani e gli Hezbollah guidati dal generale Soleimani, poi ucciso dagli americani nel gennaio 2021.
Dopo gli attentati dell’11 settembre, il Pentagono aveva delineato dei piani per attaccare dopo l’Afghanistan sette Paesi mediorientali in 5 anni: Sudan, Somalia, Libia, Libano, Siria, Iraq e Iran. Come è andata a finire lo sappiamo: un disastro con cui abbiamo ancora a che fare. Per non parlare delle «primavere arabe» del 2011 la cui onda venne cavalcata dall’amministrazione Obama: dovevano portare la democrazia e sono finite in regimi autocratici.
I teorici del «nuovo ordine» mediorientale, apparentemente sofisticati e dalle dotte analisi, sono a dir poco sconfortanti alla prova dei fatti: il problema è che discettano sui media di argomenti che non conoscono e di luoghi che non hanno mai visto, formando con i loro interventi l’opinione pubblica occidentale. Più che alle teorie sui «complotti», anche queste elaborate di solito “dopo” gli eventi, bisogna fare attenzione proprio alla disinformazione quotidiana.
Oggi siamo tornati a parlare di nuovo ordine in Libano dove Israele aveva già fallito nel 2006. Anche allora il segretario di Stato americano Condoleezza Rice accolse la guerra come l’avvio della nascita di «un nuovo Medio Oriente». In realtà, ogni volta, dai «liberatori» abbiamo ereditato un caos peggiore di quelli precedenti. Ma è questo che si vuole: la destabilizzazione perenne non la pace
Commenta (0 Commenti)Poco dibattito interno, niente primarie, pochi luoghi di elaborazione, torsioni proprietarie. La sinistra ha copiato la destra e si preoccupa solo di rafforzare la tolda del capo
Elly Schlein, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli alla Partita del cuore – foto LaPresse
Il Campo largo sembra scomparso, dopo il testa coda sulle nomine Rai, soprattutto dopo i silenzi sull’escalation militare in corso in Libano. Bene le alleanze elettorali per Emilia e Umbria, male, in Liguria, il velenoso cavallo di Troia renziano.
I partiti appaiono concentrati sugli equilibri interni, mentre risulta assente l’avvio di un progetto comune, di mobilitazione, che sia in grado di far crescere una proposta di alternativa. Non bastano le mobilitazioni contro l’autonomia differenziata. Servono parole chiare sulla pace.
Servirebbero generosità (l’alleanza è più importante del risultato di chi la compone) e cessione di sovranità, ma di tutto ciò non vi è traccia.
La destra ha una idea di partito: leaderistico, plebiscitario, televisivo, social, che ruota attorno ad un nucleo di fedelissimi. Una costruzione che rinuncia al corpo, alla organizzazione su scala territoriale. La sinistra ha mutuato quel modello e lo sta applicando, rafforzando la tolda di comando nazionale che si compatta intorno al capo di turno. Poco dibattito interno, pochi luoghi di elaborazione, primarie scomparse. Torsioni proprietarie. Un modello che attraversa tutto il sistema politico con pochissime eccezioni. La differenza è che la destra vive di leadership salvifiche, la sinistra senza popolo fa fatica a perseguire la propria ragione di fondo: vincere per cambiare il Paese.
Il Fronte popolare francese, disobbediente e conflittuale, dispone di un centro studi e di una piattaforma di consultazione con 400mila persone. Le esperienze di Prodi 1996, la fabbrica del programma, e Prodi 2006, le primarie, appaiono lontanissime.
Nel mentre Meloni si rafforza. Fitto con le risorse del Fondo di coesione e la vice presidenza avrà un ruolo di rilievo in una Commissione a trazione popolar conservatrice.
Un quadro che va stabilizzandosi, con la premier che sposa le compatibilità tecnocratiche e il rapporto Draghi. Liberista, guerrafondaia, atlantista Meloni è perfettamente inserita nel quadro di comando dell’Unione. Una svolta della destra. Permangono questioni identitarie rilevanti: diritti civili e umani, l’avversione ai migranti, la diffidenza verso il mondo lgbtq e l’autodeterminazione delle donne, le idee di Valditara sulla scuola e le torsioni violente presenti nel disegno di legge Piantedosi (tutto è reato: blocchi stradali, scioperi, proteste in carcere e nei Cpr, le occupazioni di case…).
Nessun fascismo, ma una svolta autoritaria capace di accompagnare le politiche liberiste come già avvenuto in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Con Forza Italia a trazione Pier Silvio e Pascale a giocare un’altra partita, spinti dal feeling Mediaset gruppo Gedi. Facendo l’occhiolino al Pd, Forza Italia rende accettabili le spinte di ultra destra presenti nel governo. Tajani lo fa con la sponda europea, di Von der Leyen, di Draghi, di Confindustria e dei più grandi gruppi economici del Paese.
In questo contesto le ambizioni di governo dei progressisti rischiano di infrangersi. Meloni appare credibile agli occhi del popolo e affidabile per le elité europee.
Allargare il campo, farlo respirare, attraversare da movimenti, vertenze, intellettuali, rendere contendibile il programma è l’unica possibilità per smuovere lo scenario e costruire una speranza per chi non si arrende alla destra, al liberismo, alla guerra. Soprattutto all’escalation di morte in corso in Medio oriente. Come si costruisce il programma? Quale posizione sulla guerra, le armi, la Palestina, la redistribuzione delle risorse, il welfare? Chi decide? I segretari in un caminetto? Davvero qualcuno pensa che possa bastare?
La destra liscia il pelo al senso comune, il centro sinistra arranca dietro il buon senso, piuttosto dovrebbe sollecitare i privi di senso, chiedere loro, oltre il rancore e il disincanto, come vogliono vivere, cosa desiderano. Questa dovrebbe essere la nostra ambizione più grande. Organizzare una grande pacifica invasione di campo.
Violazione del diritto internazionale, bombardamenti, Nato, nuovo ordine israeliano, economia di guerra la differenza tra destra e sinistra si giocherà su questi temi.
Una grande manifestazione pacifista, unitaria, potrebbe essere la risposta alla folle tragedia omicida dell’Occidente. Su questo si verifica l’esistenza di un campo che voglia battersi contro l’abisso che abbiamo dinanzi
Commenta (0 Commenti)Nuovo ordine Si stava meglio quando si stava peggio? Difficile rimpiangere “l’ordine” garantito da Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra fredda ma sta di fatto che fra il 1946 e […]
Si stava meglio quando si stava peggio? Difficile rimpiangere “l’ordine” garantito da Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra fredda ma sta di fatto che fra il 1946 e il 1989 di stermini di civili in massa compiuti nel giro di pochi mesi non ce ne sono stati: la guerra di Corea ha fatto centinaia di migliaia di morti ma nel corso di un conflitto prolungato e sanguinoso, non di un massacro unilaterale della popolazione civile come nel corso degli ultimi 12 mesi a Gaza. La guerra del Vietnam ha avuto la sua parte di bombardamenti terroristici ma è durata quasi vent’anni e alla fine l’aggressore è stato sconfitto. Chi fermerà Israele in Libano?
Dal 1990 in poi sono accadute quattro cose: l’arroganza americana, pudicamente definita “unilateralismo”, la crescita dell’autonomia di potenze medie come Israele, l’Iran e la Turchia, la comparsa di attori non statali militarmente efficaci come l’Isis, Hezbollah, Hamas, Wagner e, infine, il maggiore impegno militare di Russia e Cina.
Sull’unilateralismo post-1989 sappiamo tutto: abbiamo visto la prima guerra del Golfo (1990) e soprattutto le invasioni di Iraq e Afghanistan nel 2002-2003. Operazioni americane lunghe e costose in vite umane che hanno praticamente dissolto le Nazioni Unite come luogo di confronto, di trattativa, di interposizione: in Libano cosa farà nei prossimi giorni l’Unifil, di cui fanno parte 1.200 soldati italiani? Facile, il ministro degli esteri Tajani ha già risposto: «I soldati sono al sicuro, fermi nelle caserme». Nel caso la situazione precipitasse, aggiungono alla Farnesina, «scatterebbe il piano di fuga, le navi sono pronte nel porto di Tiro».
L’Onu era stato altre volte manipolata, coartata o aggirata dagli Stati Uniti ma non era mai apparsa del tutto impotente come in quest’ultimo anno: Israele aggredisce un paese sovrano, terrorizza la popolazione e fa strage di civili eppure nessuno prende minimamente in considerazione le proteste quotidiane del segretario generale Antonio Guterres.
Il declino dell’Onu e la reticenza americana a inviare soldati sul campo dopo l’esperienza afghana sono state parallele alla crescita delle ambizioni di potenze come la Turchia (intervenuta in Siria varie volte, oltre a sterminare i curdi come al solito). L’Iran ha operato principalmente attraverso milizie sciite nel Libano, a Gaza e nello Yemen, cercando di evitare una guerra regionale malgrado le minacce israeliane. Lo stato ebraico, ora nelle mani di un governo di estrema destra guidato da un criminale di guerra, ha ignorato e ignora non solo l’opinione pubblica mondiale ma anche gli Stati Uniti del cui sostegno finanziario e militare ha pure assoluto bisogno.
Il segretario di Stato Antony Blinken ha pubblicato ieri un saggio su Foreign Affairs dove cerca di mascherare la debolezza americana prendendosela con i nemici di sempre: «Oggi la Cina e la Russia cercano di sconvolgere il sistema internazionale e di sfidare aggressivamente gli interessi americani» (ma la Cina non era stata il principale partner commerciale degli Stati Uniti per cinquant’anni ed è ancora oggi al terzo posto nell’interscambio?). Il titolo scelto, però, America’s Strategy of Renewal. Rebuinding Leadership ammette implicitamente che la leadership non c’è più.
Il terzo elemento del caos attuale nelle relazioni internazionali è stata la comparsa di attori non statali militarmente efficaci come a suo tempo al-Qaeda e poi l’Isis, mentre Hezbollah e Hamas hanno mantenuto per decenni la loro pressione sui confini di Israele. In Africa nessuno sa bene come contrastare Boko Haram in Nigeria o i suoi imitatori in Burkina Faso e in Mali. I mercenari russi della Wagner sembrano indeboliti dalla morte del loro fondatore Evgenij Prigožin ma la partenza dei contingenti francesi dall’Africa subsahariana mostra la debolezza delle tradizionali potenze medie europee.
Infine, si deve registrare il maggiore impegno militare di Russia e Cina: la prima si è lanciata in una sanguinosa invasione dell’Ucraina senza valutare la capacità di Europa e Stati Uniti di sostenere finanziariamente e militarmente Zelensky (senza mandare un solo uomo sul campo, ovviamente). La seconda ha approfittato della propri crescita economica, rallentata ma non esaurita, per modernizzare le proprie forze armate ma poche settimane fa il nuovo sottomarino d’attacco a propulsione nucleare classe Zhou è miseramente affondato al momento del varo in un cantiere nei pressi di Wuhan. Le schermaglie nel Mar cinese meridionale con Vietnam e Filippine, molto gonfiate dalla propaganda, sono in realtà il sintomo che la Cina può difendersi ma non intervenire militarmente al di fuori dei suoi confini, neppure verso Taiwan.
Tutto questo potrebbe essere riassunto rovesciando una celebre frase di Mao: «Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è eccellente». Purtroppo, per i popoli nelle sempre più numerose zone di guerra la situazione non è eccellente ma tragica
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Riecheggia la dottrina neo-con dell’effetto domino. Gli interessi degli Usa e di Israele convergono. Ma Tel Aviv si troverà esposta al rischio storico del sovraccarico
Carri armati israeliani al confine con il Libano – foto Ap/Baz Ratner
Si chiama guerra. Arriva in forma di ondate di missili su larga scala, dopo il profluvio di eufemismi usati da media e diplomatici per definire i massacri di civili, le uccisioni mirate e le «invasioni limitate». Finisce la pazienza strategica di Teheran: gli ayatollah ritengono che stare fermi, mostrandosi una tigre di carta, comporti perdite più elevate che reagire.
L’escalation bellica investe le sponde del Mediterraneo e realizza ciò che era impensabile. Davanti al carico di sofferenze e alle incognite che presenta, non si può che restare sbalorditi per il ritorno dello sguardo cinicamente orientalista di chi vede nella guerra un’opportunità. Dipingendo così una regione barbara nella quale, grazie all’impiego spregiudicato della violenza, è data oggi l’occasione di riscrivere la Storia, in barba ai vincoli del diritto e della giustizia internazionale. Le parabole di Iraq, Afghanistan, Libia sembrano cosa sepolta, incapace di parlare al presente, tanto che riecheggia la dottrina Bush, quella dei neo-con e dell’effetto domino. Ieri ha parlato l’immancabile Bernard-Henry Levy: «Leggo che il Libano sarebbe sull’orlo del collasso. No! È sull’orlo del sollievo e della salvezza! La capacità di rimodellare il Medio oriente in questo momento è illimitata».
Il governo israeliano cavalca questa narrazione e il momentum militare, fiutando l’occasione d’oro, con Netanyahu che ha annunciato agli iraniani l’imminenza della liberazione, in uno scenario di destabilizzazione del regime.
Hezbollah, ugualmente, vede il combattimento scendere a terra, dove la resistenza sa combattere (le brigate al Qassam non sono sparite a Gaza): fiuta l’ora della resa dei conti e proverà a trascinare Tsahal in un sanguinoso scontro protratto.
NEL MEZZO ci sono un Libano esangue e l’intero Medio oriente, cominciando con la Siria. Lo scenario forse più ottimistico vede un arretramento di Hezbollah, rimpiazzato da un esercito libanese rafforzato e coperto da forze e accordi internazionali. Ma quanto è davvero incapacitato Hezbollah? Ogni tentazione di liquidare il Partito di Dio agisce sulle suture che tengono insieme il Libano, riportandoci agli scenari della guerra civile, e sollevando la più ampia questione sciita, che attraversa anche l’Iraq (funerali simbolici di Nasrallah si sono svolti nelle principali città irachene).
Ogni linea rossa tracciata dalla Casa Bianca si è rivelata rosa, ammesso che il Segretario di Stato Blinken le abbia davvero volute marcare. Netanyahu sfrutta l’incertezza della finestra elettorale americana. Ore prima che l’invasione del Libano iniziasse, Biden si dichiarava per il cessate il fuoco; ad invasione iniziata, ribadiva il sostegno all’azione di Israele. Eccolo, il messaggio della Grande Potenza all’alleato: preferiamo di no, ma se decidete di ignorarci, andate avanti e passateci sopra.
ALLARGANDO IL CAMPO, emerge una logica più profonda, nella quale gli interessi di Washington e Tel Aviv convergono. Da tempo gli Usa manifestano, senza riuscirci, l’intenzione di estricarsi dal Medio Oriente, oltre che di tenere Israele al proprio fianco in un quadro geostrategico in mutamento. A 25 anni dalla scadenza che gli accordi di Oslo prevedevano per l’implementazione, Israele ha sancito il diritto esclusivo alla terra per il popolo ebreo, seppellendo la questione.
L’ascesa politica e le gesta belliche di Netanyahu nascono nel rovesciamento dell’idea, maturata in decenni di conflitto e sottoscritta a Oslo da Yitzhak Rabin, che Israele dovesse in qualche modo venire a patti con i palestinesi. Questo rovesciamento scarica ulteriore violenza sulla frammentazione della nazione palestinese, puntando alla sua marginalizzazione politica, demografica e territoriale, per arrivare, conseguitane l’irrilevanza, alla normalizzazione delle relazioni con il mondo arabo (accordi di Abramo). In questo quadro di pacificazione, agli Stati Uniti è infine consentito guardare altrove.
E COSÌ ecco tanti commentatori intenti a disegnare presunti effetti domino per la regione, un Medio oriente distante e bisognoso di terapie, mentre la realtà è che nessuno dei principali attori sembra in grado di poter fermare la guerra e proporre una visione politica del futuro che risponda a criteri di realtà.
L’Asse della Resistenza non ha un disegno politico discernibile: non solo la teocrazia iraniana e Assad, ma milizie come Hezbollah si sono sistematicamente macchiate di gravi crimini e devono parte della loro popolarità all’aver saputo tener testa all’espansione di Israele.
La comunità internazionale ripete il mantra dei due popoli due stati, che non ha più alcun ancoraggio reale, mentre evita di affrontare esportazione di armi o rapporti economici (si pensi alla doppiezza della Turchia). L’Occidente, che difende l’ordine internazionale rules based, quando si tratta di Israele si aggroviglia nei propri doppi standard, un rigurgito maldigerito di dibattiti su antisemitismo, islamofobia, colonialismo.
Israele consegue successi tattici: arriverà forse, non si sa a che prezzo, a una vittoria strategica, ma si troverà esposto al rischio storico di sovraccarico (territoriale, economico, militare). Decapitare i propri nemici non si traduce ipso facto in vittoria politica. Hamas ed Hezbollah non sono nati dal niente. Ancora una volta, dopo decine di migliaia di corpi dilaniati, la guerra si allarga e si approfondisce con la risposta iraniana.
Qualcuno ritiene che ci possa essere pace con oblio dei palestinesi: l’illusione che la pace arriverà attraverso nuova distruzione, proprio grazie al silenzio sui crimini di guerra, elevati a monito e fondamento
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Centrosinistra Sulla Rai ha ragione Schlein, sullo stop a Renzi hanno ragione Conte e Fratoianni. Ma, al di là dei singoli temi, manca una regia della coalizione: la leader Pd deve uscire dallo stato zen, e un po' democristiano, di incassatrice, e provare a dare un profilo all'alternativa
I leader del centrosnistra alla festa di Avs – Ansa
Sulla Rai ha ragione Schlein, e hanno torto Conte e rossoverdi: se insieme decidi che le nomine si devono fare con nuove regole richieste dalle Ue, poi non puoi correre a nominare i tuoi nel cda di TeleMeloni, quando le nuove regole ancora sono in mente dei. Non puoi correre a nominare due membri del cda quando si sa solo che in ottobre il Parlamento inizierà sulle nuove regole una prevedibilmente lunga e tortuosa discussione.
Su Renzi, invece, hanno ragione M5S e Avs: Schlein ha commesso una grave leggerezza a lasciar credere al (ex?) rottamatore, che non ha mai rinunciato alla commistione tra politica e consulenze strapagate, che nel nuovo centrosinistra ci sia uno spazietto anche per lui. È un errore da matita blu, perché Renzi ha afferrato una cosa banale: dopo essersi illuso che il Pd a guida Schlein naufragasse in pochi mesi, lasciando a lui «praterie al centro» che si sono rivelate inesistenti, ha capito che lo stesso obiettivo – la distruzione del Pd e del centrosinistra – può riuscirgli meglio dall’interno.
Dove Conte, comprensibilmente, non vuole avere più a che fare con uno che nel 2021, in piena pandemia, fece cadere il suo governo con una serie di scuse risibili. Se poi si guarda ai cosiddetti temi, se è vero che il cuore giallorosso Pd-5S-Avs ha ancora molti nodi irrisolti a partire dall’Ucraina, con Renzi le distanze sono incolmabili: basti dire che l’ex premier è ancora uno strenuo tifoso del blairismo e del neoliberisimo, che Schlein sta tentando a fatica di rimuovere dal dna del Pd. Una distanza che si snoda dunque sui temi del lavoro, del precariato, della giustizia, delle infrastrutture, del fisco e via elencando.
La richiesta di Conte e Fratoianni-Bonelli di chiudere questa sfortunata parentesi balneare di Renzi è dunque fondata: Iv è sull’orlo dell’estinzione, non ha voti da portare e neppure idee utili alla causa di un centrosinistra assai più radicale rispetto ai brodini del passato, e dunque non varrebbe più neppure la pena di parlarne.
Questi due ultimi casi, Rai e Renzi, al di là dei torti e delle ragioni, segnalano però un problema assai più grave, tutto in capo alla segretaria dem: la mancanza di una regia politica del centrosinistra in grado di evitare continui strappi che offrono il fianco a larghi pezzi di establishment che non vedono l’ora di sparare a zero sull’inconsistenza delle forze alternative a Meloni. Conte ha le sue responsabilità: pressato da Grillo che ne contesta la leadership, ansioso di riequilibrare i numeri dopo essere stato più che doppiato alle europee dai dem, non perde occasione per fare sgambetti.
Probabilmente si illude che, prendendosi il Tg3 o Rainews, potrà ribaltare i rapporti di forza. Comunque vuole provarci, perché il sogno di tornare a palazzo Chigi non è del tutto svanito. Non si arrende all’idea di essere un partner minore, e per certi versi è legittimo. Solo che, per distinguersi, alimenta contraddizioni: si infila nel gruppo più a sinistra nell’europarlamento e non archivia l’antico flirt con Trump, prova a fare le pulci al Pd da sinistra e al contempo sui migranti continua a strizzare l’occhio a tesi tutt’altro che progressiste, negando il sostegno al referendum sulla cittadinanza.
Schlein ha due meriti: il primo, non scontato, è avere sostanzialmente pacificato il Pd, che resta una maionese pronta ad impazzire, come si vede ogni giorno sull’Ucraina, tra l’elmetto di Picierno e Guerini e i ramoscelli d’ulivo di Tarquinio. E tuttavia oggi nessuno lì dentro contesta la guida dell’aliena Elly, uscita tonificata dalle europee. Ha anche il merito di non sparare mai sui potenziali alleati, tenendo un profilo «testardamente unitario» che nelle urne ha pagato.
Ma quanto può durare questo atteggiamento zen e un po’ democristiano? Può l’aspirante federatrice continuare nella sua opera di restyling dell’immagine del Pd, mondandolo dai tanti errori del passato (comprese le lottizzazioni in Rai) senza curarsi di costruire una cornice dentro cui far nascere almeno un embrione di coalizione? Senza sporcarsi un po’ le mani? Elencare 5 punti, dalla sanità ai diritti ai salari, appare insufficiente. In una Europa in cui dilagano destre persino più estreme di Fdi il sentimento antifascista purtroppo non basta per farsi cemento di un’alleanza. E l’illusione che, alla viglia del voto, i lacci della legge elettorale costringano tutti a più miti consigli rischia di rivelarsi una trappola. Lo si è già visto nel 2022.
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Vienna e Parigi In un sistema parlamentare conta poter fare le alleanze per governare. Un sollievo ora (ma per quanto?) e una contraddizione per noi che in Francia tifiamo Nfp
Parigi, in piazza il giorno della vittoria del Fronte Populaire – Ap
Con il 29,2 per cento dei voti, il Partito della libertà (Fpoe) ha vinto le elezioni parlamentari in Austria, acquisendo il diritto di formare il nuovo governo. Poco importa che oltre due austriaci su tre non si siano affatto espressi in tal senso.
I popolari hanno ottenuto il 26,5 per cento, i socialdemocratici il 21,1, i liberali il 9, i Verdi l’8 – dunque l’estrema destra è arrivata prima e la Cancelleria le spetta di diritto.
Saremmo disposti a sottoscrivere un discorso di tale tenore? Immagino che la risposta sia negativa. Eppure, a parti politiche invertite, è quanto è accaduto in occasione delle elezioni francesi.
La ricostruzione dei fatti allora più diffusa potrebbe essere così riassunta: (a) l’affermazione dell’estrema destra alle elezioni europee ha indotto il presidente Macron allo scioglimento dell’Assemblea nazionale, nella speranza che gli elettori democratici si sentissero costretti a convergere sui candidati macroniani; (b) sconfessando gli auspici presidenziali, e le concorrenti aspettative di Marine Le Pen, gli elettori hanno tuttavia assegnato la vittoria elettorale al Nuovo fronte popolare (Nfp), che ha così conquistato il diritto di dar vita al nuovo governo; (c) se non che, tradendo la volontà popolare, Macron ha rifiutato di assegnare l’incarico di Primo ministro alla candidata indicata dalle sinistre e ha dato vita a un esecutivo di minoranza assai orientato a destra, confidando – quantomeno – nella non ostilità delle forze lepeniste.
Dal punto di vista del diritto costituzionale, la cosa più rilevante è che, per la seconda volta consecutiva, le elezioni francesi non abbiano prodotto un’Assemblea nazionale dominata da una sola forza o coalizione politica. In passato, la formazione della maggioranza assoluta era stata assicurata da un sistema elettorale grazie al quale forze politiche votate da minoranze relativamente circoscritte erano comunque riuscite a conquistare il controllo dell’Assemblea. Ancora nel 2017, con il favore di un francese su tre, la coalizione macroniana aveva conquistato 350 deputati su 577 (vale a dire, aveva quasi raddoppiato in Parlamento il peso ottenuto nelle urne). Nelle due votazioni successive (2022 e 2024), l’esito è stato invece condizionato dall’articolazione tripolare del sistema politico, che ha condotto l’iper-presidenziale sistema francese ad assumere una veste più vicina alla forma di governo parlamentare.
Ed è proprio in forza di tale cambio di veste che sembra opportuno un supplemento di riflessione. Che significato ha, infatti, dire che le elezioni hanno sancito la «vittoria» di una coalizione che al primo turno ha ottenuto meno del 30 per cento dei suffragi? Certamente l’esito finale del voto ha consegnato a quella coalizione la maggioranza relativa dei parlamentari, ma come si può considerare «vincitore» qualcuno che la gran parte del corpo elettorale non avrebbe voluto alla guida del Paese?
Sia chiaro: non si tratta di negare l’importanza straordinaria del risultato ottenuto in Francia dal Nfp, né di sminuire la coraggiosa assunzione di responsabilità che ha consentito alle sinistre di fermare l’ascesa della destra estrema, anche a costo di votare candidati altrimenti inaccettabili. Chi scrive ha sperato nel più ampio successo del Nfp ed è inorridito, ancorché non sorpreso, dalla decisione di Macron di cercare sponda nelle forze politiche neofasciste, pur di potersi mantenere al servizio del capitale (e proprio l’aver costretto il presidente francese a mostrare il suo vero volto rappresenta un successo politico enorme).
Il punto, tuttavia, è decidere se si vogliono davvero abbandonare i vizi della logica maggioritaria, propria del presidenzialismo, e tornare a praticare le virtù del parlamentarismo e della proporzionale. La stessa France insoumise ha dichiarato di voler realizzare tale proposito tramite riforme costituzionali che consentano di superare la centralità dell’Eliseo, salvo poi avanzare la pretesa di esperire un tentativo di governo sulla base dell’argomento del primato relativo del numero dei parlamentari. Così dimenticando che in ambiente parlamentare le elezioni servono a misurare gli orientamenti politici del Paese, non a sancire vincitori e vinti, e che là dove è l’organo assembleare a determinare la vita dei Governi ciò che conta è la capacità di costruire alleanze post-elettorali suscettibili di coinvolgere la maggioranza degli eletti. Quel che ci si augura riescano a fare i popolari austriaci, rifiutandosi di seguire Macron sul terreno dell’alleanza con le forze neofasciste, trovando un’intesa con i socialdemocratici e impedendo così all’estrema destra del Fpoe di governareEle
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