Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

INFORMAZIONE. La lettera della presidente del Consiglio, debole, furba e inutilmente polemica, tradiva un imbarazzo grande e reale. La risposta dura europea dice che si addensano spesse nubi

 Giorgia Meloni durante una trasmissione Rai foto Ansa

Il recente Rapporto sullo Stato di diritto varato in sede europea (vedi il manifesto dello scorso 25 luglio), con i crismi dell’ufficialità, ha riservato all’Italia un capitolo irto di spine. La crepa si è ampliata di ora in ora e non sembra destinata a chiudersi. Dall’Unione si è controreplicato, infatti, alla missiva di Giorgia Meloni: nessuna scelta faziosa o premeditata ha inficiato il Rapporto, frutto del dialogo con fonti variegate e diverse.

La piccata lettera della presidente del Consiglio inviata con furore formalmente dalla Cina alla rinnovata presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen, aveva un tono supponente e burocratico, rinviando a responsabilità pregresse. Tuttavia, non riusciva a confutare nel merito le critiche sulla sostanza delle questioni, relegandole provocatoriamente a fake news.
Il documento europeo è chiaro. Sotto schiaffo sono finite le politiche istituzionali della destra al governo a partire dal testo sul premierato, dalle sciabolate inferte alla magistratura e per andare proprio all’area delicata dell’informazione.

L’attacco all’indipendenza della Rai, la persistenza del reato della diffamazione con tanto di pena del carcere, il limite imposto alle intercettazioni, soprattutto l’attacco al segreto professionale e le restrizioni del diritto di cronaca dipingono l’Italia come una zona sempre più grigia ormai confinante con l’Ungheria.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Bruxelles boccia Budapest e promuove Varsavia

Del resto, gli omologhi testi prodotti dal Centre for media pluralism and media freedom dell’European University Institute con il Robert Schuman Centre for Advanced Studies, nonché dal consorzio Media Freedom Rapid Response – reso noto ieri – sostanzialmente muovono le stesse gravi critiche.

Insomma, il quadro è a tinte fosche e gli stessi dati forniti dall’osservatorio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sul primo trimestre del 2024 segnalano una caduta degli ascolti dei telegiornali, a partire dal Tg1 e per finire con Rainews in caduta libera. A dimostrazione che l’eccesso di controllo distoglie il pubblico pur abituato a fruire del servizio pubblico.

Se è vero che la scelta di affidare ad un amministratore delegato di nomina dell’esecutivo la gestione della Rai risale ad una legge del tempo di Matteo Renzi, l’attuale maggioranza nulla ha proposto per cambiare la situazione. Anzi, potrebbe persino avvenire che nelle prossime ore malauguratamente le Camere procedano ad eleggere la parte del consiglio di amministrazione di emanazione parlamentare. Insomma, alla destra navigare nel peccato piace, eccome.

Se vi è un po’ di buona fede, si eviti di reiterare una pratica in odore di incostituzionalità, come hanno sottolineato diversi candidati al cda nei loro ricorsi alla giustizia amministrativa. E si istruisca con urgenza una vera riforma, evitando strafalcioni come l’ipotesi impraticabile (oltre che sbagliata) di privatizzare a pezzi l’azienda pubblica.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Rai, la Lega punta al direttore generale e reclama un tavolo

Così, si receda dall’intenzione ormai conclamata di limitare il diritto di informare ed essere informati, neutralizzando le conseguenze sul lavoro giornalistico dei testi del ministro Nordio. La lista dei rilievi, tra l’altro, è persino sottostimata, essendo messe in soffitta le annose questioni del duopolio radiotelevisivo, della persistenza del conflitto di interessi, della mancanza di una normativa adeguata e moderna sull’editoria.  Nell’età dell’intelligenza artificiale le ferite di oggi possono condizionare pesantemente il futuro.

Lasciamo perdere per decenza la replica al sacrosanto rilievo sulle infrazioni della normativa sulla par condicio: presenze e ospitate del governo in piena campagna elettorale sono andate al di là del bene e del male.

La lettera di Giorgia Meloni, debole e inutilmente polemica, tradiva un imbarazzo grande e reale. Un caso di eccesso di furbizia, che rasenta l’ingenuità. E a Bruxelles, dopo il mancato voto per la rielezione di Ursula von der Leyen, le quotazioni della Presidente italiana sono certamente scese. La risposta alla risposta è la prova che nubi si addensano e temporali sono alle viste.
Il sindacato europeo dei giornalisti chiede un’azione della Commissione europea che vada al di là di uno scambio di missive e questo propone pure l’associazione Articolo21. C’è da interrogarsi, però, se non sia matura un’iniziativa politica comune delle forze di opposizione, forti del sostegno di un

impulso tanto significativo e proveniente da voci non certamente schierate. Per di più in un Paese che con questo governo ha svenduto una quota significativa delle telecomunicazioni al fondo Usa Kkr

Commenta (0 Commenti)
AMERICA LATINA. L’incertezza dell’esito del voto è reale. Per la prima volta dal 2013 l’opposizione si è presentata con un proprio candidato unitario e ha svolto la sua campagna senza episodi di violenza
Chavismo al crocevia e peso continentale del voto venezuelano
 

Le elezioni presidenziali di oggi in Venezuela avranno un enorme peso politico in tutto il continente americano. Lo dimostra la grande pressione internazionale, specialmente sul governo bolivariano e sul suo candidato, Nicolás Maduro.
Tutti i grandi mass media internazionali si sono sbilanciati nel presentare inchieste di enti e organizzazioni più o meno indipendenti (spesso meno che più) che danno per certa la vittoria del candidato dell’opposizione, l’ex diplomatico Edmundo González Urrutia, in rappresentanza di varie organizzazioni riunite nella Plataforma Unitaria. La loro tesi è che una vittoria del Gran Polo Patriótico Simón Bolívar è possibile solo mediante una frode. E in caso di vittoria dell’opposizione paventano una «situazione di violenza», fino a una possibile guerra civile.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Venezuela, non bastano Onu e centro Carter, già pronte le grida di brogli

L’incertezza dell’esito del voto è reale. Per la prima volta dal 2013 l’opposizione si è presentata con un proprio candidato unitario e ha svolto la sua campagna senza episodi di violenza. Fino a oggi dunque vi è stata una competizione elettorale vera. Dopo 25 anni di ininterrotto “chavismo”, con una sua progressiva burocratizzazione e dopo aver subito pesanti sanzioni internazionali che hanno pesato soprattutto sulla qualità della vita della popolazione, la mobilitazione dell’opposizione ha in qualche modo permeato le basi sociali nelle quali il “chavismo” era egemonico. Quanto, lo si vedrà nell’esito del voto di oggi. Se però Maduro conserva o recupera il suo zoccolo duro dei tempi migliori può vincere, anche se del socialismo di Chavez resta ben poco.

Nonostante le inchieste sbandierate dall’opposizione e dai principali mass media internazionali solo due dei dieci candidati in lizza si sono rifiutati di firmare un accordo che impegnava al rispetto dei risultati del voto di oggi, proposto dallo stesso Maduro. Uno è stato González Urrutia. E non vi è da stupirsi. La vera leader dell’opposizione è María Corina Machado, rampolla di due grandi e ricche famiglie venezuelane, rappresentante della destra più dura che nelle più di due dozzine di elezioni svoltesi durante il governo bolivariano ne ha riconosciuto come «pulita», una sola. Quella vinta dall’opposizione nel 2015. In compenso si è schierata nel 2002 a favore del golpe di Carmona contro Chavez. E, neanche a dirlo, a favore dell’ “autoproclamato” (dagli Usa) presidente Juan Guaidó e di pesanti sanzioni contro il governo del Venezuela.

Indubbiamente anche per il presidente Maduro, che si è lanciato in una battente campagna elettorale e che è soggetto a sanzioni degli Usa che di fatto lo rendono un ricercato, sarà difficile accettare una sconfitta. Tanta è però la propaganda internazionale contro di lui e un suo paventato rifiuto di accettare il verdetto delle urne che persino uno sperimentato “animale politico” come Lula è intervenuto per ammonirlo: «Se perdi te ne devi andare» e preparare una riscossa dall’opposizione, ha reso pubblico il presidente brasiliano, che si sente sempre più accerchiato dalla destra continentale.
Seicento osservatori internazionali, tra i quali quelli del Centro Carter e un gruppo di esperti dell’Onu, sono incaricati di verificare il processo elettorale. Mancano è vero quelli dell’Ue, rifiutati dal governo bolivariano, ma vi è da sperare che siano sufficienti per evitare velenose e pericolose polemiche e contestazioni violente post voto. Quelle che i grandi mass media indicano come il “vero pericolo” della votazione di oggi.

Vi è invece da sperare in uno svolgimento democratico nel quale le forze sconfitte accettino il risultato, come ha raccomandato il presidente colombiano Gustavo Petro. L’anno prossimo vi saranno elezioni importanti, nelle quali verranno eletti sia il Parlamento che sindaci, governatori e in generale tutte le maggiori istituzioni. Un campo elettorale politico nel quale il perdente di oggi avrà spazio per recuperare.

Dicevamo dell’enorme peso politico delle elezioni venezuelane negli equilibri geopolitici, soprattutto dell’America latina, se vincerà l’opposizione che presenta un programma liberista di privatizzazioni selvagge. Buona parte delle conseguenze dipenderà dalla reazione degli Stati uniti, sempre più impegnati a riallineare il “cortile di casa” di fronte a una preoccupante penetrazione della Cina ( in minor grado della Russia).

Il Pentagono si è già schierato. La generalessa Laura Richardson, responsabile del Comando sud Usa, ha proposto un <> per contenere Pechino nel subcontinente latinoamericano. E il primo intervento preventivato è proprio a favore di una “ricostruzione” del Venezuela in caso di vittoria di Corina Machado. Quale sarà la reazione della Casa bianca rappresenterà uno dei banchi di prova della candidata (in pectore fino ad agosto) democratica Kamala Harris.

Per Cuba la vittoria dell’opposizione venezuelana aggiunta al possibile, e forse probabile, ritorno di Trump alla Casa bianca rappresenta uno scenario da incubo. Ben poche alternative resterebbero al governo del presidente Díaz-Canel se non stringere ulteriormente le relazioni con la Russia. Ben sapendo che il presidente Putin non è interessato a sostenere un’isola socialista quanto ad acquisire una posizione geostrategica vicino agli Usa

 
Commenta (0 Commenti)

ELETTORALE AMERICANA. Il nodo centrale della candidatura democratica alla presidenza: non avere compreso i danni che l’atteggiamento di Biden su Gaza faceva alla credibilità internazionale statunitense

La svolta della candidata Harris non risolve la crisi di legittimità Usa Partecipanti applaudono durante il discorso della vicepresidente Kamala Harris a Houston, Texas - foto Getty Images

La candidatura di Kamala Harris ha galvanizzato l’establishement democratico, che la scorsa settimana era in preda allo sconforto. L’impopolarità di Biden, di cui il presidente in carica sembrava non rendersi conto, il fallito attentato a Donald Trump, e la scelta, da parte di quest’ultimo, di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza, avevano creato per qualche giorno l’impressione che la partita delle elezioni fosse chiusa. Che il vantaggio nei sondaggi dell’ex presidente repubblicano fosse ormai diventato incolmabile. Buona parte dei commenti guardavano già al dopo elezioni, e ai pericoli che una nuova presidenza Trump prospetta per gli Stati Uniti.

La consapevolezza che la situazione per i democratici fosse disperata ha spinto alcune figure di spicco del partito a intensificare la pressione sul presidente uscente. La minaccia di una presa di posizione da parte dei vertici democratici – si diceva che la stessa Nancy Pelosi fosse sul punto di chiedere a Biden di farsi da parte – ha sboccato la situazione, conducendo all’endorsement di Kamala Harris come candidata “istituzionale” in grado di raccogliere l’eredità di quattro anni di governo che hanno restituito vigore all’economia, e di riequilibrare scelte di politica estera – in primo luogo sulla Palestina – che avevano alienato una parte dell’elettorato democratico.

Sui temi internazionali c’è stato, già dalle prime ore, un segnale interessante. La scelta di Harris di prendere le distanze, sia pure in modo cauto e sfumato, dall’atteggiamento di Biden nei confronti del governo Israeliano, sottolineata dall’assenza sia del presidente sia della vice quando Netanyahu ha tenuto il suo contestato intervento al Congresso. Questo gesto di discontinuità ha restituito vigore a una campagna che deve recuperare consenso tra gli elettori più sensibili al destino dei palestinesi.

Ciò nonostante, sarebbe un errore parlare di un cambio di direzione nella politica statunitense su Gaza. Nel suo discorso, Harris non è andata oltre l’espressione di una preoccupazione per le sorti dei civili, e non ha detto nulla su ciò che conta davvero: il sostegno incondizionato a Netanyahu. Su questo tema, la responsabilità dell’attuale amministrazione statunitense, nella quale Harris ha avuto, almeno sul piano formale, un ruolo di primo piano, rimane il nodo da sciogliere. Parole, per quanto sincere, di rammarico per le vittime della guerra non sono sufficienti.

Questo ci conduce al problema centrale della candidatura democratica alla presidenza. Non essere stati in grado di comprendere i danni che l’atteggiamento di Biden su Gaza stava facendo alla credibilità degli Stati Uniti come paese che dovrebbe difendere un ordine globale basato sulla tutela del diritto internazionale e dei diritti umani ha messo in dubbio le credenziali dei democratici come partito di riferimento per i progressisti sul piano internazionale. Sotto questo profilo, ben più credibili sono state certe forze della sinistra europea (in Spagna, in Francia e in Irlanda) che tuttavia non hanno la stessa capacità di proiezione globale.

C’è poi una questione di fondo, quasi assente dal dibattito pubblico, se si escludono alcune voci della sinistra statunitense. Al di là delle apparenze, Kamala Harris ha qualcosa in comune con J.D. Vance. Si tratta, in entrambi i casi, di candidati che devono la propria forza a un’investitura dall’alto, che non è passata attraverso un reale processo politico all’interno dei due principali partiti. Da un lato c’è l’erede legittima che viene chiamata a sostituire in corsa un leader che non è più in grado di svolgere il proprio ruolo. Dall’altro c’è un erede presuntivo che dovrà fare i conti con un autocrate cui potrebbe venire a noia anche prima del previsto.

Comunque vadano le elezioni, dunque, e anche se Kamala Harris dovesse prevalere – cosa niente affatto scontata, come ha argomentato ieri Fabrizio Tonello – i progressisti dovrebbero riflettere con attenzione su una crisi di legittimità le cui cause sono remote e profonde. Le tendenze autocratiche e oligarchiche del sistema politico statunitense, che molto hanno a che fare con il peso eccessivo che il denaro ha nel processo democratico, sono ben evidenti in questa elezione, e non sarebbero certo neutralizzate da una vittoria di Harris. Se la scelta si riduce al pubblico ministero e al pregiudicato, anche se gli elettori scegliessero il primo, c’è poco da stare allegri

Commenta (0 Commenti)

PREMIERATO E CRISI FRANCESE. . Il consenso introvabile nella società non può essere surrogato da un potere “assoluto”, sulla carta, ma impotente nella prassi. E riguarda anche il Nfp

Nella parabola di Macron il fallimento del “comando verticale” Emmanuel Macron foto Ap

Fino a poco tempo fa, non erano pochi in Italia gli estimatori del modello “semi” (in realtà, “iper”) presidenzialistico francese. Oggi sembrano piuttosto silenziosi e imbarazzati. Ma la credenza che la “stabilità” dei governi debba essere affidata alla verticalizzazione del comando è ancora dura a morire, come dimostra l’idea (molto abborracciata, anche tecnicamente) dell’elezione diretta del premier.

Proprio la Francia ci sta dando la dimostrazione plastica dei guasti che si producono quando si pensa di sostituire alla fatica della mediazione e della rappresentanza politica, le scorciatoie di assetti istituzionali e di congegni elettorali che, alla lunga, producono una radicale delegittimazione della stessa democrazia. Il consenso introvabile nella società non può essere surrogato da un potere “assoluto”, sulla carta, ma impotente nella prassi. La parabola di Macron, da questo punto di vista, è davvero emblematica: salito sugli scudi come espressione di un riformismo tecnocratico (ma pur sempre solo con il 25% dei voti al primo turno delle presidenziali) si è trovato ben presto di fronte una società che ribolle, che nutre rancori e risentimenti, riottosa ai dettami della buona creanza riformista.

Agendo da apprendista stregone, Macron ha finito per alimentare l’ondata della destra (e legittimarne le posizioni, come sulle questioni dell’immigrazione): le sue recenti mosse nascevano, ancora una volta, dalla sua pretesa di proporsi come l’unico argine democratico alla destra. Ma il gioco stavolta non gli è riuscito: le “mosse” del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) si sono rivelate un capolavoro di tattica elettorale, che ha scompaginato i piani del Presidente.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Le elezioni francesi come faro per le forze progressiste in Europa

L’esito finale, nel rapporto tra voti e seggi, vede una sovra-rappresentazione dell’area centrista (con il 22,8% dei voti, il 30,2% dei seggi) e della sinistra (29,9% i voti, 33,8% i seggi) e una sotto-rappresentazione del RN (33,5% dei voti contro il 24,8 dei seggi). Ma si è creata una situazione di stallo, in cui anche un eventuale governo di una delle tre minoranze è esposto alla possibile “mozione di censura” delle altre due. In definitiva, la strategie adottate (dapprima l’’accordo elettorale dentro la sinistra, e poi l’accordo di non-belligeranza con il centro) hanno quanto meno frenato i potenziali effetti distorsivi del sistema maggioritario: ma non hanno risolto il puzzle della possibili maggioranze di governo.

E qui entra in gioco non solo l’assetto istituzionale francese (che sta rivelando tutta la sua rigidità e la sua impotenza), ma anche i guasti che tutto ciò ha prodotto nella stessa cultura politica della sinistra francese. La recente intervista di Mélenchon ad un giornale italiano appare davvero sintomatica: in breve, il succo è che a Mélenchon interessa soprattutto la sfida delle prossime elezioni presidenziali (con forti accenti personalistici, sostenendo che la partita sarà tra lui e Marine Le Pen: come possa esserne così sicuro lascia molti dubbi) .

La posta in gioco immediata, un governo in coabitazione con Macron, sembra di fatto molto poco appetibile (e anche di difficile gestione: si pensi solo alla politica estera). Come ha scritto il politologo francese F. Savicki, anche la sinistra, “come gli altri partiti, è “prigioniera della centralità delle elezioni presidenziali”. E’ questo che “impedisce ai partiti di sfruttare al meglio, come in altre democrazie parlamentari, il gioco del compromesso che passa attraverso la negoziazione di un contratto di governo”.

Se è comprensibile, politicamente, che il NFP rivendichi l’incarico oggi di formare un governo, è frutto però di una deformazione “maggioritaristica” (the winner takes all), che evidentemente alligna anche a sinistra, l’idea che si possa e si debba andare al governo solo ed esclusivamente per applicare al 100% il proprio programma di governo. Un’affermazione che suona velleitaria e propagandistica: risulta più credibile Macron quando ricorda che nessuno ha propriamente vinto le elezioni. E colpisce, almeno stando alle cronache, l’assenza di una qualche iniziativa che faccia emergere le possibili divisioni del campo macroniano: che così potrà avere buon gioco, come già accaduto con la rielezione della Presidente dell’Assemblea legislativa, nel fare blocco con la pattuglia dei Repubblicani e presentarsi come il segmento più forte dell’emiciclo.

Pesa inoltre, nelle posizioni di Mèlenchon, un’antica tradizione statalista della sinistra: l’idea che, per poter cambiare veramente le cose, bisogna avere il pieno controllo delle leve del potere statale (e quindi, conquistare l’Eliseo: tutto il resto, qui e ora, è solo tattica in vista di questo obiettivo; anzi, forse è meglio evitare compromessi pericolosi). Un’idea perfettamente funzionale all’assetto “verticale” del modello istituzionale francese.

Vedremo gli sviluppi: se è essenziale che il Nfp non si divida (e sarebbe suicida farlo: tutti ne uscirebbero indeboliti), è un errore pensare che restare “con le mani libere”, non riuscire a dare uno sbocco di governo, anche parziale, al buon risultato che il Nfp ha ottenuto, possa essere la premessa per un suo futuro rafforzamento; anzi, è probabile che, dopo la forte mobilitazione sociale con cui è stata vissuta la campagna elettorale, ci possa essere un contraccolpo e possano subentrare elementi di sfiducia e di delusione, l’idea che “tanto, nulla cambia”. Speriamo che non accada

Commenta (0 Commenti)

SCENARI. Gli incontri sull’Ucraina e sulla Palestina certificano che la Cina si pone come mediatore globale per avere sia un ruolo da grande potenza, sia quello di “facilitatore” nelle crisi

“Sotto lo stesso cielo”, l’entrata in scena della diplomazia cinese Il ministro dei esteri cinese Wang Yi foto Ap

«La Cina è una storia, il tianxia una teoria»: è la prima frase del libro “Sotto il cielo, tianxia” (Astrolabio Ubaldini, 2024, traduzione di Alessandra Lavagnino) di Zhao Tingyang, un filosofo politico cinese. In questo incipit abbiamo due elementi attualissimi: la Cina come “narrazione”, come “racconto”, quindi qualcosa di mutevole, cangiante e progressivo. Il tianxia come teoria, ovvero il recupero di un concetto attuale basato su un mondo interconnesso e pacifico (“sotto lo stesso cielo”), nel quale la Cina è al centro e non sopra (come lo sono gli Usa nell’ordine globale neo liberale a guida statunitense, per intenderci).

Zhao Tingyang è l’interprete di una teoria antica, diventata di recente retorica ufficiale. Se vogliamo semplificare: l’ordine mondiale nell’idea dell’attuale leadership di Pechino è il “tianxia”, un ordine paritario e pacifico, armonioso, in grado di sciogliere ogni nodo, grazie alla saggezza che scorre sotto il cielo, mediata dalla pacifica Cina.

È una visione, ovviamente, sinocentrica, ma ci pone anche di fronte a una teoria che poi è da ricercare e trovare all’interno della pratica, ovvero l’attuale postura internazionale della Cina. Partiamo da un esempio: la posizione cinese sulla guerra in Ucraina è stata fonte di molte preoccupazioni per Pechino: la decisione di non abbandonare la Russia, anzi di supportarla politicamente ed economicamente, pur dichiarando di non sostenere il suo sforzo bellico, ha notevolmente peggiorato l’immagine della Cina a livello internazionale.

Nel corso di questi due anni, però, proprio il nuovo assetto internazionale ha posto il Pcc di fronte alla necessità di spiegare e di elaborare una strategia internazionale capace di recuperare i cardini della sua politica estera e adattarsi al nuovo scenario. Ne sono emersi diversi documenti: prima il position paper a proposito della guerra in Ucraina (erroneamente considerato un piano di pace dalle nostre parti), poi un documento sulla sicurezza globale, poi uno sulla civiltà globale.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Il vestito nuovo della destra europeista

Da tutto questo è emerso un punto: Pechino ha ribadito la sua postura storica nei confronti del Sud globale, scoperto alle nostre latitudini proprio perché la guerra in Ucraina ha fatto emergere un mondo che noi non vedevamo (e ora che lo vediamo non è che siano molto cambiate le posture occidentali al riguardo) e che invece la Cina ha da sempre nelle sue varie posizioni internazionali modificate nel corso del tempo: sia ai tempi di Mao, in piena guerra fredda, sia durante l’epoca di Deng quando la Cina tendeva a mostrarsi piuttosto sobria nelle relazioni internazionali, sia nell’epoca pre Xi con Hu Jintao: proprio Hu, sottovalutato anche da gran parte della sinologia, aveva elaborato quattro pilastri che ancora oggi possiamo dire siano all’ordine del giorno.

I quattro pilastri erano: gestire il rapporto con le grandi potenze, gestire la propria area (l’Asia), ricordare la fondazione, l’origine, cioè il sud globale, utilizzare il multilateralismo come strumento. Ovviamente con Xi Jinping siamo in un altro mondo: la politica estera cinese mira a creare un ordine internazionale che ruota intorno agli affari, al commercio e non alla forma politica degli attori internazionali. E propone, ovviamente, la Cina al centro del tianxia.

Date queste premesse è emerso nel tempo un approccio tattico della Cina alla questione ucraino piuttosto chiaro, in realtà: supporto politico alla Russia in funzione anti-occidentale, una retorica che ha presa proprio nel Sud globale, composto da paesi memori di colonizzazioni e altre interferenze occidentali; tentativo di non incorrere in sanzioni e di mantenere relazioni seppure al minimo con l’Occidente, cercando di sfruttarne i cortocircuiti (Ungheria, Serbia, eccetera); non improvvisarsi mediatori ben sapendo che una mediazione tra Russia e Ucraina non era mai arrivata a un punto tale da fare pensare a una possibile soluzione mediata della guerra (considerando inoltre il probabile ostruzionismo americano in caso di un protagonismo più marcato della Cina).

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Nel futuro della Cina le nuove tecnologie

Ora però è innegabile che le cose siano di nuovo fluide: la principale potenza mondiale è attesa da sei mesi di politica estera gestita da un presidente uscente e in grave difficoltà; nonostante i democratici possano competere con Trump per una vittoria, gli Usa sono percepiti al momento come “deboli”; anche l’Europa sente la “fatigue” (di meloniana memoria) di una guerra che sul campo è piantata e non sembra potersi risolvere militarmente.

Ed ecco che arriva l’invito al ministro degli esteri ucraino di recarsi a Pechino. E dalle tre ore di incontro tra Kuleba e Wang Yi, viene fuori una cosa finalmente importante: che Kiev è disposta a coinvolgere la Russia nei negoziati (se “in buona fede” ha specificato Kuleba, ma è già qualcosa). A margine dell’incontro sono arrivate anche le parole di Zelensky che di recente aveva tuonato contro Pechino e che invece nei giorni scorsi ha detto di fidarsi di Xi, delle sue parole sul fatto che la Cina non vende armi alla Russia.

Insieme all’incontro ucraino è arrivata anche “la dichiarazione di Pechino” di 14 fazioni palestinesi: un accordo fragilissimo e probabilmente senza futuro, ma che ha certificato la volontà della Cina di porsi come mediatore globale, rivendicando due cose: un ruolo come grande potenza, pari agli Usa, e un ruolo, si badi bene, da “facilitatore”. Come a dire, noi vi mettiamo intorno a un tavolo, poi però serve il vostro impegno. Noi, come Cina, sembra essere il sottotesto, non obblighiamo nessuno a fare niente. Non può essere considerata certo una politica estera disinteressata, ma quale paese eventualmente si muovo disinteressato? La proposta cinese è questa, che piaccia o non piaccia, che si sia d’accordo o meno: Pechino può essere mediatrice in un mondo che non è più unipolare. Almeno così lo è per la maggioranza dei paesi del mondo

Commenta (0 Commenti)
TRA GAZA E L’ODISSEA. Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier […]
I lotofagi  della politica Usa  (e italiana) Il primo ministro Netanyahu con il presidente Biden nello Studio ovale - foto Ap/Susan Walsh

Per avere successo una campagna elettorale americana (e non solo lì) deve contare su un elemento fondamentale, oltre ai soldi: elettori smemorati. Questo vale anche per il discorso del premier israeliano Netanyahu al Congresso che è stato disertato dalla candidata Kamala Harris, attaccato pesantemente da Nancy Pelosi. Il tutto evidentemente per attirare il voto delle minoranze arabe, musulmane e filo-palestinesi. E meno male che è stato accompagnato dalle proteste vibranti davanti (e dentro) a Capitol Hill violentemente represse con centinaia di arresti, con in prima fila i giovani ebrei contro l’occupazione e dalle parole inequivocabili di Bernie Sanders: “Come Sinwar, Netanyahu è un criminale di guerra”.

L’elettore democratico smemorato infatti deve dimenticare che il Congresso e questa amministrazione Biden in primavera – a massacro di Gaza ampiamte in corso – ha approvato un pacchetto di aiuti militari a Israele di oltre 26 miliardi di dollari. Deve dimenticare che gli Usa hanno aumentato quella potenza militare che già aveva visto l’amministrazione Obama stanziare per Tel Aviv 38 miliardi di dollari. Figuriamoci cosa accadrebbe se dovesse esplodere il fronte con il Libano o incendiarsi il Mar Rosso nel mirino degli Houti yemeniti. Questo è ovviamente l’”asse del male” capeggiato dall’Iran cui fa riferimento Netanyahu per il quale Israele e Stati uniti si dettano reciprocamente la linea della politica estera.

Biden che era salito alla Casa Bianca dicendo di volere riaprire i negoziati con Teheran, dopo che Trump aveva cancellato gli accordi del 2015 voluti da Obama, ben poco ha fatto al riguardo. L’elettore smemorato per dare il suo voto alla Harris deve dimenticarsi pure di questo. Ovvero del fatto che gli Stati uniti sono interessati ad alimentare un clima di scontro perenne in Medio Oriente, esattamente come vuole Israele per giustificare l’occupazione e gli insediamenti nei territori palestinesi. Il clima di apartheid non cambia.

Netanyahu che ieri ha incontrato Biden e la Harris e oggi va da Trump forse non se la passerà così male neppure se vincono i democratici. Certo Trump ha garantito a Israele il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello stato ebraico, l’occupazione perenne delle alture siriane del Golan in corso dal 1967, e ha forgiato quel patto di Abramo con le monarchie arabe che per altro Biden ha ereditato in pieno. Il premier israeliano preferisce Trump, vorrebbe evitare elezioni fino a novembre per restare in sella, ma non è detto che poi si troverà tanto peggio con i democratici alla Casa Bianca. Chi oserebbe trattare Netanyahu come un ricercato delle corte penale internazionale, che per altro gli Usa non riconoscono? La politica del doppio standard è destinata a continuare sotto ogni amministrazione americana e le dichiarazioni da campagna elettorale lasciano il tempo che trovano. L’elettore è smemorato per definizione.

Anche da noi qui in Italia si pratica una politica dell’oblio. In concomitanza con la visita a Roma del presidente israeliano Herzog dobbiamo dimenticarci l’Italia ha continuato a fornire armi a Israele anche durante la guerra di Gaza, fare finta di niente sul fatto che l’Eni in ottobre, a ostilità cominciate da settimane, avesse accettato da Tel Aviv un appalto di esplorazione sul gas davanti alla Striscia che appartiene ai palestinesi. Non ne avremmo saputo nulla se non ci fosse stata una denuncia di un studio legale americano. Ignorare, come facciamo del resto regolarmente, che con lo stesso Netanyahu questo governo ha firmato nel marzo 2023 un appalto per la cybersecurity che allora spinse il capo della nostra agenzia alle dimissioni. Silenzio.

Dobbiamo dimenticare le dichiarazioni del ministro della Difesa Crosetto a Gerusalemme quando disse che «gli israeliani avvertono sempre i civili prima dei bombardamenti su Hamas». Deve essere sicuramente così che è accaduto anche il 13 luglio a Gaza quando caccia e droni israeliani hanno bombardato Al Mawasi, che l’esercito aveva indicato come unica zona sicura per gli abitanti della Striscia. Una superficie di 6,5 chilometri quadrati dove Israele vorrebbe rinchiudere un milione e 800mila persone che hanno perso tutto. Il risultato è stato un massacro con dozzine e dozzine di civili uccisi. E la strage continua ogni giorno.

Ma gli italiani, almeno secondo il nostro governo, sono i migliori alleati della politica americana bi-partisan in Medio Oriente. Il nostro tasso di oblio è altissimo e chi osa protestare o anche soltanto ricordare la verità viene trattato come un pericoloso sovversivo. Chi non dimentica sono i palestinesi e i nostri interlocutori arabi nella regione – altro che Piano Mattei – utili nello “scambio” migranti-petrolio, comunque perfettamente consci che l’Italia non ha avuto neppure il coraggio di votare per uno Stato palestinese. Vorrebbero che come i marinai di Ulisse mangiassimo il dolce frutto del loto che, guarda caso, si trovava nel mito dell’Odissea sulle coste libiche. Un porto sicuro, vero?

 
 
 
Commenta (0 Commenti)