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Una serie di indizi indicano che il premier Netanyahu potrebbe essere tentato dall'escalation con l'Iran. Anche contro il volere degli Stati Uniti. Sarebbe un disastro per tutti

 

Si tratta di un’ipotesi remota. Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi)

Manlio Graziano

 

Il giorno della morte del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, ho scritto su queste pagine che la sua uccisione non aveva alcun senso politico, come nessun senso politico avevano il pogrom del 7 ottobre e la guerra a Gaza che ne è seguita. 

Il seguito degli eventi da mercoledì scorso – giorno dell’assassinio di Haniyeh – parrebbe però aprire uno spiraglio a un’altra ipotesi: che Israele voglia provocare una guerra contro l’Iran, e trascinarvi gli Stati Uniti. Che un calcolo politico dunque esista; un calcolo che acuirebbe il disordine mondiale e aggraverebbe la situazione di tutti, compreso Israele. Ma almeno un calcolo.

Si tratta di un’ipotesi remota, anche perché si apparenterebbe a un delirio di onnipotenza che Israele non si può permettere, né materialmente né politicamente, e forse nemmeno militarmente. 

Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi). 

   

 

Che fare dell’Iran

Nei circoli politici locali, tutti sanno che gli Stati Uniti non vogliono essere trascinati in un altro conflitto in Medio Oriente; tanto meno un conflitto con l’Iran. 

A questo proposito, è opportuno ricordare che, nel 2001, Henry Kissinger si era speso a favore di una riconciliazione con Teheran, invocando ragioni geopolitiche, cioè “l’importanza dell’insieme di geografia, risorse e talenti della popolazione iraniana”. 

“Ci sono pochi paesi al mondo – scriveva l’ex-segretario alla Difesa – con cui gli Stati Uniti hanno meno ragioni per essere in disaccordo o interessi più compatibili dell’Iran”; e queste compatibilità, aggiungeva, non dipendono da chi è al potere a Teheran, ma “riflettono realtà politiche e strategiche che continuano ancora oggi”. E concludeva: “Non c’è alcuna motivazione geopolitica americana all’ostilità tra l’Iran e gli Stati Uniti [e] un governo americano prudente non ha bisogno di istruzioni sull’opportunità di migliorare le relazioni con l’Iran”.

A questa visione delle cose si era ispirata l’amministrazione di George W. Bush quando aprì le trattative sul nucleare con l’Iran di Mahmud Ahmadinejad, e poi l’amministrazione di Barack Obama, quando le finalizzò nell’accordo del luglio 2015. 

È possibile che, se dovesse davvero esistere una volontà israeliana di farla finita con l’Iran, essa sarebbe nata proprio a quel momento. ...

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IL CRACK. Intervista a Andrea Fumagalli: "Alla base della crisi c'è la politica monetaria della Federal Reserve americana che tiene alto il costo del denaro, seguendo una logica capitalista a difesa del dollaro. Il suo orientamento danneggia i salari e contrasta la conflittualità sociale. I vincitori delle politiche anti-inflazione sono le grandi imprese, chi ha perso sono i lavoratori. In Italia lo scenario peggiore, salari al palo"

Fumagalli: «Crollo in borsa, mercati in tilt: banche centrali responsabili» Il crollo delle borse sugli schermi dei televisori a Wall Street - Ap

Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, un crollo delle borse simile a quello visto tra venerdì scorso e ieri non lo si vedeva dal «Lunedì nero» del 1987 o dai tempi della pandemia. Quali sono i motivi?
Quando c’è un calo abbastanza forte degli indici azionari che perdura per giorni le cause non sono mai univoche. Può essere dovuto ai forti investimenti nelle Big Tech e nell’intelligenza artificiale che hanno ridotto i profitti e i dividendi e richiedono tempi abbastanza lunghi per vedere i risultati. Il grado di incertezza è molto elevato, soprattutto se vi sono previsioni di calo della crescita dell’economia americana. Crescono i segnali di guerra in Medioriente, il prezzo del petrolio sta calando. Ma credo che il problema principale stia nella politica della Federal Reserve americana di tenere alti i tassi di interesse, seguita a ruota dalla Bce e dalle altre banche centrali.

 Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Una politica giustificata dall’alta inflazione. Ora che si è abbassata perché la Fed non taglia i tassi di interesse?
Innanzitutto perché il reale obiettivo della Fed non è l’inflazione ma continuare a garantire una ciambella di salvataggio al dollaro per mantenere l’egemonia economica Usa. La tenuta del dollaro consente agli Usa di finanziare un debito interno che ha raggiunto livelli mai visti prima: il 122,3% del Prodotto interno lordo e un debito estero strutturale. Se il dollaro perde di appeal l’economia Usa corre rischi seri. I due debiti sono una spada di Damocle. Fintanto che i mercati finanziari sono egemonizzati dal dollaro, le bolle che producono possono essere sotto controllo, anche se ci sono segnali di segno contrario. I paesi del Sud Globale organizzati nei Brics+, dopo la riunione della scorsa estate a Johannesburg, stanno premendo per una governance mondiale multipolare, un rischio che gli Usa non si possono al momento permettere.

Il presidente della Fed Powell sta aspettando che il mercato del lavoro americano peggiori per tagliare i tassi. Nell’attesa che aumenti la disoccupazione, la banca centrale americana (e così quella europea) fa pagare di più i mutui ai lavoratori. Non è paradossale questa idea? Come la spiega?
La spiego con il fatto che la politica delle banche centrali è una politica anti-salariale e contro il lavoro che ha favorito l’accumulo di grandi profitti, sta diminuendo la domanda, contrasta l’aumento dei salari e la conflittualità sociale, Che nel periodo post-covid era ripresa, almeno negli Stati Uniti. Penso alle vertenze nel settore automobilistico, a Hollywood, nei servizi, tra gli addetti alle pulizie. Ci sono stati grandi aumenti salariali in linea con l’inflazione.

Il ribasso delle borse, e il rallentamento del mercato del lavoro, potrebbero convincere la Fed a tagliare i tassi a settembre?
Potrebbe concedere un taglio dello 0,25% per aiutare i democratici. Nell’anno delle elezioni alla Casa Bianca di solito vengono fatte politiche espansive per consentire a chi ha governato di dire di averlo fatto bene. Del resto la segretaria al tesoro è l’ex governatrice della Fed Janet Yellen. La situazione però è incerta.

Perché?
La Fed non segue la logica del ciclo politico elettorale, ma una logica prettamente capitalistica a difesa del dollaro e spesso contrasta anche con gli interessi degli stessi mercati che sono molto nervosi. Alla lunga queste politiche non piacciono nemmeno ai governi. Soprattutto quelli con un debito alto come l’Italia che lo devono pagare con gli interessi.

Chi sono i vincitori e i vinti di questa politica contro l’inflazione?
Negli Stati Uniti i vincitori sono state le corporation delle piattaforme e gli speculatori finanziari che hanno fatto tantissimi soldi. Tra i lavoratori c’è stato un miglioramento della forza lavoro bianca più istruita e un peggioramento per la popolazione non bianca.

In Europa? In Italia?
Qui di certo ha perso tutto il lavoro. I vincitori sono stati il capitale e la rendita: le grandi banche, le grandi imprese. All’aumento dei prezzi non è seguito un aumento dei salari che mantenesse inalterato il potere di acquisto. Ci sono grandi differenze a livello nazionale. C’è stata una tenuta, parziale, in Spagna, Francia e in Germania. In Italia non è successo per nulla. Non a caso noi viviamo nella situazione peggiore, qualunque cosa dica Meloni che fa propaganda.

Il ritorno della volatilità in borsa, e le incertezze nell’economia globale, spingeranno a politiche ancora più prudenti, e a rafforzare le politiche di austerità da noi?
L’Europa ha fatto una scelta di economia politica ben chiara: sostegno all’offerta, e dunque ai profitti, non disturbare l’impresa che «crea ricchezza» – un altro mantra di Meloni e il ripristino delle politiche di controllo dei bilanci pubblici. All’orizzonte non si vedono grandi conflitti salariali. Il rischio è che queste politiche di austerità vadano a penalizzare i servizi sociali, cioè le forme di salario indiretto, ancora di più di quanto non sia già avvenuto in passato

 

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TORIES E LABOUR. La radice del razzismo che esplode con violenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo

La favola del paese multiculturale La protesta "Basta così" dell’estrema destra inglese a Sunderland, in Inghilterra - foto di Drik/Getty Images

Sono passati poco più di cinquanta anni dall’aprile del 1968, quando Enoch Powell tenne un discorso passato alla storia come «the river of blood speech». Powell era una delle figure di spicco del partito conservatore britannico. Parlamentare di lungo corso, in quel momento membro del governo ombra, poteva aspirare a nuovi incarichi ministeriali se i Tories avessero vinto le elezioni. Le reazioni al discorso, tenuto durante una riunione di partito a Birmingham, in cui, citando Virgilio (era un brillante classicista), Powell preconizzava per il Regno unito un futuro in cui le politiche di integrazione tra bianchi e neri avrebbero prodotto un bagno di sangue, ne stroncarono la carriera. Appena il contenuto del discorso fu reso noto, diversi membri del governo ombra minacciarono le dimissioni se Ted Heath, il leader del partito, non avesse rimosso Powell dal suo incarico.

Nei decenni trascorsi dalla fine degli anni Sessanta la società britannica è diventata multiculturale e multietnica. Persino le porte dei luoghi simbolo del “vecchio regime” (dalla House of Lords alla Corte), si sono aperte progressivamente a persone non di pelle bianca, non sempre nate nel Regno unito, che nelle isole britanniche hanno trovato occasioni di affermazione professionale o di successo personale. La presenza costante nella sfera pubblica di figure del mondo della cultura e dello spettacolo, di celebrità di vario tipo, e anche (per qualche tempo) quella della moglie di uno dei figli dell’attuale monarca, hanno alimentato la narrazione di un paese che si era lasciato alle spalle gli aspetti peggiori dell’eredità imperiale.

Eppure, da qualche tempo, questa immagine rassicurante ha cominciato a incrinarsi. Probabilmente i primi segnali sono stati visibili sui social, dove forme quotidiane di razzismo sono state “normalizzate” da parte utenti popolari, e in qualche misura assecondate da politici alla ricerca di facile consenso. Questi atteggiamenti sono partiti dalla destra estrema dello spettro politico, ma si sono diffusi anche a quella tradizionale, fino a mettere radice negli ultimi anni tra i Tories. Rafforzati da una stampa dominata da editori che coltivano razzismo e xenofobia per lucro.

Alla luce di questi fatti, colpisce ricordare la reazione dei Tories alla presa di posizione di Powell nel 1968 (che secondo alcuni sondaggi non era sgradita a una parte degli elettori del partito). Ciò che era allora inaccettabile moralmente e politicamente, anche se poteva attirare voti, venne respinto in maniera convinta dalla leadership del partito della destra (da alcuni in modo più deciso, da altri, per esempio Margaret Thatcher in modo blando).

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Gb, il pugno di ferro di Starmer contro i riot anti-migranti

Oggi la situazione è diversa. La leadership politica dei Tories non guida, ma segue ciò che si ritiene possa procurare consenso (anche se le indagini di alcuni scienziati sociali sembrano indicare il contrario) e tanto peggio per i principi di decenza della destra conservatrice di vecchio stampo che rigettava, almeno nel discorso pubblico, il razzismo.

A cambiare orientamento non sono stati solo settori influenti della classe dirigente britannica (nella stampa, nel mondo dello spettacolo e nell’accademia) che erano da sempre vicini alla destra conservatrice, ma questi atteggiamenti hanno finito per influenzare anche la sinistra, come si è visto in campagna elettorale, quando Starmer ha indicato negli opposti estremismi (di destra e di sinistra) gli avversari del suo Labour “cambiato”, mostrando scarsa sensibilità alle denunce di chi segnalava una crescita preoccupante di atteggiamenti razzisti e islamofobici in certi settori della società britannica.

Oggi Starmer, diventato nel frattempo primo ministro, corregge in parte il tiro sottolineando che le violenze degli ultimi giorni si devono a elementi di «estrema destra», contro i quali il suo governo minaccia misure draconiane, ma è chiaro che non sarà attraverso misure law & order che si potrà arginare la violenza razzista.

La radice del razzismo che esplode con violenza nelle strade di alcune città del Regno unito va cercata in un passato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo. Non è un caso che tra i primi segnali della tendenza che è al centro delle cronache ci sono state le reazioni ostili, che talvolta hanno condotto anche a vere e proprie minacce, come nel caso dello storico Sathnam Sanghera, nei confronti di studiosi o artisti che affrontavano nei propri lavori temi scomodi del passato coloniale britannico. La favola pietosa di un paese felicemente multiculturale e multicolore, dal «corner shop» al palazzo di Windsor, cercava di occultare questo passato. Oggi il velo è caduto

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La favola del paese multiculturale La protesta "Basta così" dell’estrema destra inglese a Sunderland, in Inghilterra - foto di Drik/Getty Images

 

 

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Il cantautore: “Dopo 50 anni da prof sono convinto che i programmi scolastici devono avere un’uniformità nazionale”

 

Roberto Vecchioni ci mette la faccia e la firma. In un video apparso nei profili social della Flc Cgil, il cantautore milanese spiega perché l’autonomia differenziata va abrogata. “Dopo 50 anni che bazzico la scuola – dice – sono convinto che i ragazzi sono tutti uguali e tutti devono avere diritto alla stessa istruzione. I programmi scolastici devono avere un’uniformità nazionale e non possono essere spezzettati. E soprattutto la cultura deve essere uguale per tutti”.

https://www.collettiva.it/speciali/spacca-italia/vecchioni-ci-mette-la-firma-lautonomia-mina-listruzione-uguale-per-tutti-nrini697?guid=nl-1722838507

 

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«Combatto per la libertà di ogni donna», la pugile algerina Imane Khelif batte la rivale ungherese e conquista la semifinale. Un pugno alla campagna di fake news agitata dalle destre. L’Iba offre un premio in soldi a Carini, che rifiuta. Il Cio: «Basta odio»

BULLI E PUPA. Imane Khelif batte ai punti l’ungherese Luca Hamori che aveva accettato di buon grado di essere la rappresentante del castello di cartone della destra mondiale dopo lo stralunato ritiro dell’altra sfidante, la “nostra” Angela Carini

Sul ring la resistenza al peggio

Era dai tempi di Rocky e Ivan Drago che il pugilato non ci consegnava storie del genere. Imane Khelif batte ai punti l’ungherese Luca Hamori che aveva accettato di buon grado di essere la rappresentante del castello di cartone della destra mondiale dopo lo stralunato ritiro dell’altra sfidante, la “nostra” Angela Carini. E già questo secondo atto solo lo sceneggiatore di Rocky avrebbe potuto scriverlo. Hamori ha dovuto accettare la sconfitta.

Il mondo riprende a girare per il verso giusto, i buoni vincono, o almeno si leccano le ferite in attesa dei prossimi scontri. Ce ne saranno. Avremmo potuto tirare fuori anche il campione dei nazisti Max Schlemmer battuto da Joe Louis nel 1938, e almeno altre dieci o cento storie in cui il pugilato ha incrociato dentro il ring i destini del mondo. Ma forse è troppo per un quarto di finale di pugilato femminile alle Olimpiadi. Eppure i nazisti a questo gioco perdono sempre, hanno sempre perso.

È una certezza. Usciamo dall’incredibile vicenda di fake news russe, vittimismo italiano, culture war grondanti di woke e gender, bullismo razzista contro una pugile algerina senza colpa alcuna se non quella di essere com’è, malafede senza vergogna contro qualsiasi rispetto delle regole sportive, quasi un tentativo di colpo di stato mentale con social e televisioni, Elon Musk e Borgonovo, Jk Rowling e Larussa.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

https://ilmanifesto.it/liba-offre-un-premio-a-carini-per-noi-ha-vinto-no-dallitalia?_sc=NTc5MTYxNyMzMDY0NTQ%3D

Manipolazione politica dei corpi

Oggi per fortuna Imane non era sola, aveva dietro di sé gli algerini e i nordafricani (che sono venuti a tifarla in massa dal vivo portando le bandiere). La sosteneva pur ad esempio il buonumore scanzonato di chi ha scritto sui social post sulla «poliziotta picchiata dall’algerina», rovesciando la retorica fetida della destra che aveva

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Nel suo ultimo libro l’autore dialoga con una figlia immaginaria, nel tentativo di riannodare i fili generazionali di un passato complesso, e sempre più remoto

 

Che fine ha fatto la Sinistra? In Italia se lo chiedono in molti, non soltanto dalla caduta del Muro di Berlino ma da quando, in questo secolo che ha ormai raggiunto il primo quarto, l’avanzare di un capitalismo nevrotico e sempre più spietato sembra aver preso il sopravvento incontrastato, e in maniera irreversibile. Le ultime elezioni politiche nazionali hanno poi riportato all’ordine del giorno i rigurgiti di una matrice ideologica, quella fascista, nel nostro Paese mai del tutto condannata e sconfitta, a cui si aggiunge uno scenario geopolitico internazionale a dir poco preoccupante, malgrado in Europa la recente tornata elettorale in Gran Bretagna e Francia sembra poter offrire qualche spiraglio di speranza.

Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Marco Revelli, autore di numerosi libri che analizzano in uno stile del tutto personale la politica e la società italiana moderna e contemporanea, il cui ultimo Questa sinistra inspiegabile a mia figlia (Einaudi, pp. 163, euro 16,50) racconta del dialogo con una figlia immaginaria nel tentativo di spiegare una sinistra divenuta, in particolare negli ultimi venti-trent’anni, inspiegabile anche a sé stesso.

Professor Revelli, quando nasce l’idea di questo dialogo generazionale?

L’occasione esteriore mi è stata data dall’editore, quando Einaudi mi ha chiesto un classico libro della serie “xy spiegato a mio figlio”, in questo caso con la sinistra come soggetto, considerandomi evidentemente un uomo rappresentante della sinistra italiana.

Non si sente così?

Sì, certo. Però questo ha innescato una cascata di pensieri e riflessioni, a cominciare dal fatto che non mi sentivo di spiegare un concetto simile a chiunque, men che meno a un figlio o un adolescente di ultima generazione, perché nel momento in cui mi sono concentrato sul tema mi sono accorto che era inspiegabile anche a me stesso come fosse diventata quella identità entro cui ero nato e cresciuto…

E come ha risolto il problema?

In verità non mi ero mai posto il problema dell’essere di sinistra, dato il contesto famigliare, l’educazione, il tipo di memoria che ho ereditato, in una collocazione che in una prima fase aveva dei costi in termini di solitudine, nel senso che la mia infanzia e prima adolescenza, vissuta nella bianca Cuneo, bianca ma antifascista, mi portava a questa condizione. Poi le cose sono cambiate.

Cosa è accaduto?

Sono arrivati quei momenti che nel libro chiamo di “felicità pubblica”, dalla seconda metà degli anni Sessanta e nel decennio Settanta. Ma a un certo punto mi sono reso conto che il sentiero si era perduto, e quell’identità di sinistra era diventata impalpabile, introvabile, quasi all’improvviso apparteneva soltanto alla memoria e non al presente; e che tutte queste cose, a un giovane nato all’inizio di questo secolo, dicevano poco, non appartenevano più al suo orizzonte. Da qui la domanda che è alla base di questo libro: quando la sinistra ha cominciato a scomparire, quando ha iniziato a perdersi?

Ha trovato una risposta?

Credo tutto sia iniziato nel momento in cui gli esponenti della sinistra, italiana ed europea, hanno smesso di essere riconosciuti come tali per le loro scelte politiche e sociali.

Nel libro infatti si parla anche di Massimo D’Alema, di Tony Blair…

Sì, e del lucido cinismo dell’Avvocato Agnelli, quando affermò che “solo un governo di sinistra può fare una politica di destra”… Credo lo disse proprio al tempo del Governo D’Alema; d'altronde, lo smantellamento delle conquiste del mondo del lavoro ottenute negli anni Sessanta e i primi Settanta è opera più degli eredi del Partito comunista, e degli ultimi socialisti, che non della destra. Nel nostro Paese siamo arrivati al paradosso che uno come Silvio Berlusconi si è potuto permettere di proporsi come populista.

 

In alcune pagine viene evidenziata una sorta di ineluttabilità nel destino dell’uomo di sinistra, condannato a un diverso rapporto con il senso del tempo, a una “coscienza infelice” in virtù di un “disagio della realtà” che lo affligge.

Si tratta di un mio pensiero recente, maturato nello scrivere questo libro. Il fatto che essere di sinistra, non da oggi, implichi mettere in conto una certa quota di dolore e sofferenza, è un tema che ho voluto approfondire. Perché chi è antropologicamente di sinistra, al di là delle rispettive culture politiche, vive empaticamente lo scandalo delle ingiustizie di cui è pieno il mondo, il nostro presente. E l’uomo di sinistra è tendenzialmente infelice nel presente, ben lontano dal filosofico “grande meriggio” nietzschiano del qui e ora, perché il presente genera dolore anche se non è un dolore legato alla propria specifica persona, partecipando della sofferenza altrui. In altre parole è il disagio dell’essere in nome di un dover essere, per cambiare il presente, che in un tempo di edonismo narcisistico diventa un sentimento improponibile, quasi impensabile.

Nel libro la sua figlia immaginaria la rimprovera per questa infelicità sempre in sottofondo…

“Mi hai reso infelice trasmettendomi i tuoi valori”, dice a un tratto, un tratto esistenziale del presente, che però da un quarto di secolo a questa parte appartiene all’orizzonte di vita delle nuove generazioni, il cui imperativo è essere felici dell’esistente, perché questo viene richiesto loro.

Eppure qualcosa sembra muoversi, almeno in Europa, in attesa del voto statunitense. Penso al recente voto in Gran Bretagna, al Front Populaire in Francia. Non ci sono spiragli per la costruzione di un’altra sinistra?

Sinceramente dal risultato inglese non mi attendo nulla, anche perché è un successo determinato soprattutto dal crollo dei Tories, e non dall’avanzata dei Labour che, per intenderci, in termini di voti hanno preso meno di Jeremy Corbyn. Personalmente sulla Gran Bretagna ho messo una croce sopra, credo che il mondo anglosassone in buona misura sia una terra perduta per la sinistra. Per il Front Populaire in Francia il discorso è diverso, una miracolosa reazione che in un mese e una settimana ha ribaltato un destino che appariva ormai ineludibile. Ma questa reazione è il prodotto di uno spirito profondo, pre-politico, di un sentire partitico insoumise, non sottomesso, che appartiene non solo all’area-Mélenchon, e non si rassegna a consegnarsi al post-fascismo del Rassemblement National. Un sentimento che ha portato a votare milioni di elettori che si erano ritirati dalla politica, 10 milioni in più rispetto alle precedenti Europee, e che non è un merito di Macron, ma di una Francia antropologicamente irriducibile.

Non possiamo pensare a un risveglio simile, seppur diverso, anche in Italia?

Come dice la mia figlia immaginaria, dovrà pur esserci una reazione a queste “faccine di circostanza”, o al negazionista di turno, al di là del pessimismo cosmico trasmesso in questi anni… Io penso che arriverà un soprassalto fisiologico alle forme sfacciate di ingiustizia, allo scandalo delle diseguaglianze che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Essere di sinistra, malgrado tutto, continua a significare provare empatia per chi soffre, e questo sentire non può esser svanito per sempre

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