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PRESIDENZIALI-FRANCIA. La vittoria di Macron in Francia è di certo preferibile rispetto all’alternativa di Marine Le Pen. Ma ci consegna la realtà di un presidente sostanzialmente minoritario, che dopo cinque anni […]

 

Un modello divisivo che non serve all’Italia

 

Emmanuel Macron esprime il suo voto al ballottaggio del 24 aprile 2022 - Ap

La vittoria di Macron in Francia è di certo preferibile rispetto all’alternativa di Marine Le Pen. Ma ci consegna la realtà di un presidente sostanzialmente minoritario, che dopo cinque anni all’Eliseo si è fermato nel primo turno al 27.8% dei consensi.

È stato salvato dalla tradizione francese del patto repubblicano, ancora vitale se pure incrinata, che nel secondo turno ha sbarrato la porta alla destra e gli ha dato – con molte astensioni – il 58.5%.

Secondo le prime analisi, Macron ha raccolto un prevalente consenso di centro, con venature a destra. Ha preso voti delle realtà metropolitane e nei ceti medi e medio-alti. Ha perso invece voti tra gli ultimi e i penultimi, che hanno votato Le Pen (le campagne) e Melenchon (i giovani, le periferie urbane, gli ecologisti).

Le urne testimoniano un paese diviso, e arrabbiato. Lo ha riconosciuto lo stesso Macron nel discorso ai sostenitori dopo la vittoria.

Tutto questo probabilmente tornerà nelle elezioni legislative che seguiranno. È ampiamente possibile una maggioranza parlamentare diversa da quella presidenziale, con il partito di Macron in minoranza. Tornerebbe la coabitazione. Il dato è interessante, soprattutto ricordando che la dottrina francese era divisa sulla forma di governo e in specie sulla coabitazione.

Per alcuni era un inaccettabile punto di fragilità istituzionale, per altri un utile elemento del complessivo sistema di checks and balances.

Con una riforma costituzionale del 2000 (2000-964) e una legge organica del 2001 (2001-419) si chiuse la querelle, abbreviando la durata del mandato del presidente da sette a cinque anni, e ponendo il voto legislativo in immediata successione a quello presidenziale. Si pensava così a un effetto di trascinamento che avrebbe garantito al presidente neo-eletto la “sua” maggioranza in parlamento, con un rafforzamento del ruolo istituzionale e una migliore governabilità.

Non è andata così per Macron, da nessun punto di vista. Avere una ampia base parlamentare dopo la sua prima elezione non lo ha rafforzato né gli ha evitato una progressiva emorragia di consensi. Una prova è stato il movimento dei gilet gialli.

In sintesi, potremmo dire che il Macron di oggi è la prova dell’effetto non conclusivo e univoco delle riforme del 2000 e 2001. Ne dovrebbero trarre insegnamento i riformatori professionali di casa nostra.

Il sistema francese, insieme a quello britannico, è stato a lungo presentato dai fan della stabilità e della governabilità come modello da importare nel nostro paese. Un modello iper-presidenzialista da preferire anche a quello classico degli Stati Uniti, responsabile di un presidente troppo debole nei confronti del congresso nella politica interna. Tra i principali argomenti a sostegno di tale apprezzamento possiamo ricordare il richiamo alla funzione unificante dell’elezione formalmente o sostanzialmente diretta del capo dello stato o del governo.

Questo poteva forse avere un senso, se mai lo ha avuto, in società largamente omogenee, con una classe media ampia e in espansione, e con una distribuzione ragionevolmente equilibrata della ricchezza. In siffatte società un impianto maggioritario poteva reggere un sistema politico tendenzialmente bipartitico o bipolare, portatore di programmi elettorali in buona parte simili. Poteva avere un senso il mantra per cui la vittoria elettorale si conseguiva convergendo verso il centro.

La realtà di oggi è diversa.

In società prive di un solido tessuto connettivo di formazioni politiche organizzate, a frammentazione e diseguaglianze crescenti, l’elezione diretta radicalizza e divide. E l’opzione maggioritaria applicata a una elezione legislativa o distorce in misura inaccettabile il voto, o – come potrà accadere in Francia – conferma la divisione.

Chi nel centrodestra si ostina a proporre riforme in chiave di elezione diretta dovrebbe riflettere. E ancor più dovrebbe riflettere chi discute in parlamento di una nuova legge elettorale, comunque non facile da cambiare, perché il centrodestra alzerà probabilmente un muro. Qualcuno vorrebbe un maggioritario a doppio turno. La Francia insegni.

Non è utile occultare artificialmente nei numeri parlamentari le faglie sociali che generano conflitto e malessere. Meglio rappresentarle e sperimentare la via della politica. La forma di governo parlamentare e una buona legge elettorale proporzionale che rafforzi le assemblee e i soggetti politici che in esse operano sono la ricetta migliore per l’Italia.