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MEDITERRANEO . Si cerca di nascondere il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico

Il nuovo codice sulle orme di Minniti Salvataggio della Open Arms al largo della Libia - Ap

Il filo comune che unisce chi criminalizza le Ong che salvano vite umane ripropone le stesse accuse stantie e lo stesso metodo delle «regole speciali». La logica, già rodata, è quella di proporre disposizioni specifiche per un gruppo, le Ong, sottintendendo così che quest’ultime non rispettano le regole, «fanno i furbi», e c’è quindi bisogno di un codice di comportamento in più. Si cerca di nascondere così il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico. Le navi mercantili, di cui ha parlato a sproposito il ministro Tajani durante la riunione con i suoi omologhi Ue, se devono intervengono, ma se possono se ne guardano bene, perché rischiano di dover fermare la loro attività commerciale per settimane o mesi. Le ipotesi circolate per questo nuovo codice sono davvero ridicole e imbarazzanti e si ripresentano nella veste di regole di comportamento senza le quali si possono subire pesanti sanzioni amministrative e, soprattutto, non si può arrivare sulle coste italiane.

Proviamo ad analizzare le principali.

1. Le Ong devono dimostrare che intervengono solo in caso di pericolo: gommoni e barchini che possono ospitare 10/20 persone e ne ospitano 5/10 volte tanto sono oggettivamente in pericolo. I comandanti sono obbligati a intervenire, altrimenti ne rispondono personalmente penalmente.

2. Le Ong devono comunicare il loro intervento e coordinarsi con le autorità competenti: lo fanno sempre, c’è una ampia documentazione pubblica e disponibile, e ogni volta mandano alle diverse autorità dei Paesi coinvolti tutte le informazioni. Sono le autorità che non rispondono mai, per lavarsene le mani e non indicare, come la legge impone, il posto sicuro più vicino.

3. Si chiederebbe alle Ong di non comunicare la loro posizione alle imbarcazioni che stanno per lasciare le spiagge libiche o tunisine, cioè le si accusa di dare appuntamenti a chi deve ancora partire. Una accusa che, secondo il titolare della Farnesina, sarebbe sostenuta da documenti di Frontex. La stessa Agenzia Europea che è stata più volte accusata di praticare respingimenti, che lo ricordiamo sono illegittimi, e il cui direttore, a seguito di una inchiesta dell’agenzia anti frode europea, si è dimesso a fine aprile di quest’anno. Non un fonte neutra e autorevole quindi. Una illazione, quella usata da Tajani, del tutto infondata, inventata appositamente per collegare le Ong ai trafficanti. Un collegamento privo di prove, come dimostrano i tanti procedimenti giudiziari italiani: una vera diffamazione.

Come nel caso del suo degno predecessore, questo nuovo codice imporrebbe comportamenti che in gran parte sono previsti dalla legge e che le Ong rispettano alla lettera da sempre, introduce elementi illegittimi e impraticabili e, soprattutto, alimenta il sospetto che chi opera nel Mediterraneo per fare attività di ricerca e salvataggio lo fa in cattiva fede e in combutta con gli scafisti. Scafisti che, da anni, è noto siano in gran parte gli stessi che ricevono soldi, strumentazione e formazione da parte del governo italiano e dell’Ue. Informazioni che si possono leggere nei documenti delle istituzioni internazionali e dei tribunali italiani e non nei fogli di propaganda di partiti e esponenti politici.

Intanto i governi di Italia, Grecia, Cipro e Malta firmano una dichiarazione congiunta del tutto ingiustificata e mistificatoria. Richiamano la legislazione internazionale di fatto negandola e cercano di criminalizzare chi salva vite umane. Ripropongono il vittimismo per gli sbarchi, senza tenere in considerazione che i governi si fanno carico dei richiedenti asilo, che arrivano anche via terra e via aereo: incomprensibile il motivo per cui solo chi arriva via mare andrebbe redistribuito.
Non è di un codice che c’è bisogno e neanche di inutili nuovi accordi per impedire alle persone di scappare da guerre e persecuzioni o di nuove procedure per poter rimpatriare più facilmente le persone senza un permesso di soggiorno, obiettivi sui quali, c’è da scommettere, si concentreranno i governi nelle prossime settimane. In tutti questi anni abbiamo assistito a lunghissime trattative nei numerosi incontri di ministri Ue, conclusesi sempre con la promessa di modifiche legislative e interventi volti solo a impedire sempre di più ogni mobilità alle persone in cerca di protezione e a migliorare l’efficacia delle attività di respingimento e rimpatrio.

Nulla su attività di ricerca e salvataggio pubblica e nulla su canali d’accesso legali e sicuri. Quindi nulla di nuovo. Sempre il vecchio e stantio razzismo di stato, che favorisce e alimenta i trafficanti e produce morte e ingiustizie.

 

 

Scossa di terremoto avvertita anche a Ravenna

sismogramma
Questa mattina intorno alle 7 è stata avvertita anche a Ravenna la scossa di terremoto di intensità 5.7 della scala Richter con epicentro a largo della costa marchigiana a una profondità di 7,6 chilometri.


Il Comune di Ravenna sta verificando eventuali ripercussioni sul territorio e chiede ai cittadini di segnalare eventuali danni alla centrale della Polizia locale 0544.219219 – 0544.482999.


Qualora necessario saranno forniti ulteriori aggiornamenti.


Si ricordano i consigli su come comportarsi e cosa fare in caso di terremoto: https://www.comune.ra.it/aree-tematiche/protezione-civile/manuale-di-protezione-civile-per-i-cittadini-come-comportarsi-quando-scatta-lemergenza/rischio-sismico/

 

LE ASPETTATIVE DI FI E CENTRISTI. Dalle pensioni allo scostamento di bilancio all’autonomia: i primi nodi

Match sui sottosegretari. Con gli scogli dietro l’angolo Matteo Salvini e Antonio Tajani al giuramento del governo - Lapresse

La gestazione del primo governo compiutamente di destra, senza più velleità centriste, è stata breve, intensa e travagliata. Quel travaglio, però, non si è mai librato al di sopra della pura sfida di potere, dei duelli sul manuale Cencelli riveduto e corretto. Nel giorno «dell’orgoglio e della responsabilità» il livello delle fibrillazioni non s’innalza. Sempre questione di potere, di deleghe e sottosegretariati, rimane.

Matteo Salvini, che non ha mai avuto ben chiara la distinzione tra un dicastero e un palco da comizio, contava sulla gestione dei fondi del Pnrr per restaurare l’ammaccata immagine. Giorgia la Prima Donna lo ha sgambettato facendo scivolare parte sostanziosa di quei fondi nelle mani di Raffaele Fitto, con la delega al Pnrr, e il Capitano non ha gradito la sorpresa. Non che sia tagliato fuori dal prevedibile show delle Grandi opere ma dovrà dividere il palco e contendere il potere decisionale con Fitto.

In compenso il nuovo ministro delle Infrastrutture dovrebbe riuscire a tenersi stretto il controllo sui porti, altro strumento di potenziale propaganda prezioso. Se l’immigrazione dovesse scalare di nuovo la classifica delle paure degli italiani, Salvini ha già dimostrato sin troppo in abbondanza di saper usare il controllo su porti e sbarchi per occupare l’intera scena. Nello Musumeci, ministro delle Politiche del mare oltre che del Sud, non concorda con questa ripartizione dei poteri ma il Codice della Navigazione, art. 33, conforta il leader leghista e si può scommettere che farà fuoco e fiamme per impedire che venga modificato.

Sui sottosegretariati la tensione è doppia: con i centristi rimasti all’asciutto nella squadra di governo e con la solita Fi, perché lo sconfitto di Arcore non ha rinunciato a mettere il piedino nella Giustizia o nel Mise. Il progetto iniziale della premier era dividere i sottosegretariati in un terzo per ciascuna delle principali forze di governo. Sbatte però con le attese fameliche dei centristi, che si aspettano cospicuo risarcimento, e con quelle di Fi, che pretende di avere voce in capitolo nei dicasteri che sono stati negati al partito azzurro.

Prima o poi, però, il governo e la maggioranza dovranno decidersi a passare dal gioco delle poltrone ai conti con una realtà drammatica. Il primo scoglio potrebbe essere la riforma delle pensioni perché, senza intervento tempestivo, il primo gennaio rientrerà in completo vigore la Fornero e per Salvini sarebbe da suicidio. Qui però una soluzione si troverà perché il ripristino dell’odiata riforma del governo Monti farebbe perdere la faccia non solo alla Lega ma all’intero centrodestra.

Subito dopo, se non subito prima essendo sul tavolo una legge di bilancio da varare col fiato sul collo, arriverà il turno dello scostamento di bilancio. In inverno si avvertiranno in pieno gli effetti della crisi e senza fare nuovo debito fronteggiarla, anche solo per mitigarne la ferocia, sarà molto difficile. Salvini è pronto a tornare alla carica e Confindustria gli darà man forte. Una premier in cerca di legittimazione a Bruxelles e Francoforte vuole evitare il doloroso passo a ogni costo. Se non arriverà in provvidenziale soccorso l’Europa a novembre le scintille saranno assicurate.

Altrettanto nevralgico il capitolo Autonomia differenziata. Le regioni del nord, più che mai azioniste di maggioranza del Carroccio, sono a un passo dal perdere la pazienza. Ora che il governo è stato saldamente conquistato la reclamano senza rinvii, contano sul mago Calderoli alle Regioni per concludere presto. La cultura di FdI, però, tutto è tranne che federalista senza contare che i Fratelli devono tenere in alta considerazione interessi e aspettative della massa di elettori che li ha votati al Sud.

La politica estera potrebbe riservare amare sorprese ma non per lo scambio di messaggi sdolcinati tra il sovrano d’Arcore e lo zar di Mosca. Tutti nel governo si professano «atlantisti ed europeisti». Il problema è che atlantismo ed europeismo non si possono affatto giustapporre e se gli interessi, già solo in parte coincidenti, dovessero divaricarsi la premier spingerebbe in direzione dell’asse Usa-Uk-Europa dell’est, Fi in quella dei Paesi occidentali e di Bruxelles. Tra tutti i guai possibili sarebbe il più grosso di tutti.

UNITÀ. L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.
L’autonomia regionale differenziata farà a pezzi l’Italia Luciano Fabro, l'Italia dell'emigrante, 1981

Se c’è un tema che appare a chiare lettere nei programmi della destra, ma anche in quelli del Pd, è quello dell’autonomia regionale «differenziata». Fatto ancor più preoccupante. Perché con questa idea si dà legittimazione definitiva alla «secessione dei ricchi», com’è già stata definita.

La storia d’Italia dall’unità in poi è quella di un processo in cui alcuni Stati, da cui hanno poi preso forma le regioni attuali, hanno tratto più giovamento di altri. Nelle regioni del Nord lo sviluppo industriale prese piede grazie alla combinazione di disponibilità di materie prime, maggiore vicinanza ai mercati europei e un’imprenditoria spesso sostenuta dallo Stato. Il meridione, dove pure un’industria era presente, rimanendo poi in secondo piano, continuò a fungere per lungo tempo da «granaio» e «frutteto», con un’agricoltura arretrata e per lo più estensiva in cui la sovrabbondanza di manodopera trovò l’unico sbocco possibile nell’emigrazione. A nulla valsero i moti per le terre che agitarono il Sud in varie ondate fin dopo la Grande guerra.

Questo processo è continuato fino al secondo dopoguerra, allorché l’Italia si trovò a scegliere quale «sentiero di sviluppo» imboccare e scelse quello più conveniente alla sua élite economica del tempo: rafforzare lo sviluppo industriale nel Nord facendo leva su quell’esercito di manodopera disponibile al Sud, con il conseguente abbandono dell’agricoltura e dei territori al loro destino. Quando lo sviluppo raggiunse il suo «culmine» – continuando poi ad estendersi nelle altre regioni del Nord e in parte del Centro – verso la metà degli anni Settanta, erano già stati messi in opera giganteschi piani di «industrializzazione» forzosa del Meridione, grazie alla Cassa del Mezzogiorno che era però divenuta grande serbatoio di sovvenzioni e clientelismo per le élite locali, con esiti magri. Le riforme fondiarie e agrarie non avevano avuto il segno sperato di fornire un potenziale produttivo alla piccola azienda contadina familiare, con appezzamenti di ampiezza sufficiente, irrigazione, dotazione di macchinari e quant’altro. E così, dagli anni Ottanta a oggi, l’Italia è rimasta incardinata su quei due «binari» che nel tempo non hanno fatto che divaricarsi.

La storia d’Italia è la storia di un paese spezzato, ove la crepa, se non il baratro, tra le due parti non ha fatto che crescere. E se è vero che molte responsabilità le portano le classi dirigenti locali – che hanno favorito l’assistenzialismo puramente clientelare, facendosi carico di processi di sviluppo «dal basso» solo in alcuni casi, in un perverso estrattivismo che ha solo succhiato risorse senza ricadute in loco – è anche vero che per molti versi tale dualismo è stato funzionale allo sviluppo del Nord – manodopera anche istruita a basso costo, mercati a basso prezzo con delocalizzazioni nazionali e dumping – e a un blocco sociale, come si diceva un tempo, che è rimasto quello fino ai giorni nostri: borghesia economica al nord e borghesia impiegatizia al sud.

Di questo ce ne dimentichiamo, con il fastidio che si avverte nelle parole di chi reclama ora una maggiore autonomia per le regioni, che sia «differenziata», per materie. Il che è legittimo, certo, riconosciuto dalla Costituzione. Ma si chiede anche che tale autonomia sia basata sul principio che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato sui territori dove è prodotto, come fossero Stati indipendenti. Le regioni più ricche, così, godrebbero della loro maggior ricchezza, senza considerare che questa viene prodotta anche grazie a quei meccanismi di lungo corso descritti sopra.

Tuttavia, anche al di là di tale palese ingiustizia, che maschera un egoismo del campanile tanto gretto quanto preoccupante, si aprono domande che non trovano risposta: come possono le Regioni gestire il patrimonio infrastrutturale che riguarda il territorio nazionale nel suo complesso? E quello ambientale?

Nonostante la pandemia l’abbia ampiamente smentita, c’è dietro l’idea che le Regioni funzionino meglio dello Stato, cosa che è tutta da provare. Ma è certo che questo avvantaggerebbe amministratori e politici locali, dando loro ulteriori poteri e controllo. Si dice anche che su alcune competenze il decentramento amministrativo porterebbe vantaggi. Eppure, sappiamo bene quanto è stato dannoso decentrare competenze che sotto lo Stato funzionavano, mentre ora che sono alle Regioni, in talune aree, sono ben lontane. L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.
Povera Italia. I grillini avevano alzato la bandiera del Sud, con i loro proclami egalitari, sconfessando poi quanto promesso (cecità vuole che ora Conte ripeta quel refrain alle stesse masse immemori).

L’autonomia differenziata allargherà il baratro, facendo del Sud una volta per tutte il misero serbatoio del Nord – manodopera in cambio di mete turistiche – senza più identità se non quella di un grande parco divertimenti. E il Nord si sentirà più ricco, se non richiedere l’intervento dello Stato in ogni frangente in cui le sue risorse e capacità saranno inutili per gestire il territorio. Mentre il Paese si sfalderà, ora che le sfide globali chiamano ad una sola voce con il resto d’Europa e del mondo.

 

L'ADDIO. Aveva 91 anni. Il leader che con la perestroika ha cercato di cambiare il volto dell’Unione Sovietica e di costruire una casa comune europea mettendo fine alla Guerra Fredda

È morto ieri sera all’età di 91 anni Michail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione sovietica. E sicuramente l’unico e l’ultimo ad avere tentato in extremis di riformare quel sistema ma con una apertura che per la portata delle proposte e dell’iniziativa, avrebbe spiazzato l’Occidente, così tanto che i leader occidentali sarebbero diventati incredibilmente suoi presunti fan. In realtà Gorbaciov, che pure era stato sponsorizzato come segretario nel 1985 da Andropov e dall’apparato del partito, voleva ancora salvare l’idea di trasformazione socialista ma coniugandola alla democrazia, voleva la glasnost e la perestrojka, una ventata di verità, apertura, libertà e trasparenza per modificare dall’interno un regime di chiusura, omertà e potentati. Intanto mettendo subito in discussione il ruolo del partito e della stessa figura del segretario che non sarebbe dovuta essere più centrale rispetto alla società. Quasi ad imitazione della Primavera di Parga voluta da Dubcek nel 1968 e repressa dai carri armati del Patto di Varsavia. Gorbaciov propose per questo il Congresso dei deputati del popolo, un organismo di nuova rappresentatività della società civile sovietica, riattivando una memoria critica – furono gli anni della nascita di Memorial – sostanzialmente antistalinista (fu riabilitato Bucharin).

Su terreno internazionale avviò il ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan, dall’avventura disastrosa voluta da Brezhnev nel 1979 che fini dieci anni dopo nel 1989, e pose fine alla dottrina Brezhnev che prevedeva l’ingerenza armata dell’Urss nei Pesi satelliti; di fronte al persistere dei blocchi militari in Europa, c’era ancora il patto di Varsavia – chiuderà i battenti nel 1995 – e l’Alleanza atlantica che c’è ancora, avanzò la proposta di una “Casa comune europea dall’Atlantico agli Urali” in una prospettiva di pace e di integrazione di popoli e sistemi; aprì lo spiraglio dell’unificazione della Germania, terribile e difficile per un Paese massacrato dalla furia nazista nella Seconda guerra mondiale, consapevole che il Muro di Berlino non poteva durare e infatti crollò nel 1989, ma avendo l’assicurazione americana e atlantica che la Nato mai si sarebbe allargata a est; trattò veramente con il presidente Usa Ronald Reagan l’eliminazione totale delle armi strategiche nucleari.

Col senno di poi tanti detrattori, interni ed esterni della sua politica, dichiarano ora che questa mastodontica trasformazione gorbacioviana era una pia illusione perché fallì. Perché Gorbaciov fallì, abbandonato da tutti. L’Urss con l’avvio della decentralizzare del potere, precipitò nella faglia dei nuovi nazionalismi, l’un contrapposto all’altro; Gorbaciov venne destituito nell’agosto del  1991 da un avventato golpe fallimentare dei duri del regime e, peggio, venne “salvato” dal suo peggior nemico, Boris Eltsin. Fu l’inizio della fine dell’Urss e di Gorbaciov, a fine 1991 venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino. Eltsin rilanciò la mai tramontata centralità nazionalista della Russia dentro l’Unione sovietica morente insieme alla sua personale. Un processo farsa di sostituzione, fortemente sponsorizzato dall’Occidente, che nel 1993 lo avrebbe portato a bombardare il parlamento russo voluto da Gorbaciov e ad avviare a fine anni Novanta alla presidenza e alla leadership del Paese l’ex agente del Kgb, Vladimir Putin.

Certo un fallimento. Ma soprattutto un’occasione persa non solo dall’Unione sovietica, ma dal mondo intero a partire dall’Europa. Perché a guardar bene il presente misero che ci circonda, buio, senza spiragli di prospettiva e aperture, il ritorno delle troppe guerre nel mondo, della stessa Guerra fredda e dei conflitti armati nel cuore d’Europa, la tragedia dell’Ucraina, l’aggressività imperiale “ da grande Russia” di Putin, l’annichilimento dell’Europa senza ruolo, leadership e politica estera,   l’allargamento provocatorio ed esplosivo della Nato a est dopo avere inglobato tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, guardando questa devastazione, questa sì da fine della storia, quanto sarebbe stato meglio che la stagione “illusoria”, visionaria di Gorbaciov vincesse e si trasformasse in realtà?

ELEZIONI. Da una parte c’è un popolo di destra, dall’altra c’è un popolo che è improprio definire di sinistra, in quanto è costituito più che altro in negativo rispetto al popolo di destra e che potremmo perciò definire “non di destra”
Il colpo grosso contro l’unità del paese e la democrazia
 

In Italia convivono due popoli. Non convivono in verità troppo male. Ma hanno visioni del mondo diverse. Insieme a molti tratti in comune. Non sono l’uno superiore all’altro, anche perché tra i tratti in comune vi sono parecchi difetti. Da una parte c’è un popolo di destra, dall’altra c’è un popolo che è improprio definire di sinistra, in quanto è costituito più che altro in negativo rispetto al popolo di destra e che potremmo perciò definire “non di destra”. Le loro relazioni politiche dipendono dalle istituzioni che li rappresentano. Cioè dai partiti. Per un lungo periodo di tempo, la Democrazia cristiana ha fatto da trait-d’union tra i due popoli. Dai primi anni ’90 il trait d’union si è spezzato, promuovendo un’asperrima opposizione politica, anche se, per fortuna e finora, senza eccessive ricadute sulla convivenza civile.

Al momento, il popolo di destra ha una rappresentanza a tre punte, piuttosto collaborative tra loro. Il popolo “non di destra” ha invece una rappresentanza infinitamente più frammentata e decisamente litigiosa. Alle prossime elezioni, la rappresentanza del popolo di destra si presenta compatta e con un preciso programma di ridisegno radicale del regime democratico: presidenzialismo da una parte, regionalismo differenziato dall’altra. Sarà un colpo mortale all’unità del paese e alla democrazia come comunemente la s’intende.

A questa scadenza, la rappresentanza a tre punte si prepara dal lontano 2011, quando il governo Berlusconi IV fu fatto cadere dalle autorità dell’Unione europea. Senza troppo concertarlo, ha tenuto ben allertato il suo popolo. Ha incessantemente alimentato l’incompatibilità tra sé e la rappresentanza “non di destra”. L’ha fatto dall’opposizione e l’ha fatto anche quando ha collaborato al governo con le rappresentanze “non di destra”.

Altra è la storia del popolo “non di destra”. Perché è storia delle divisioni tra le formazioni politiche che gli fanno da portavoce. Grosso modo, si dividono in due. Da un lato i partiti che hanno archiviato la tradizione della sinistra socialista e socialdemocratica e quella del cattolicesimo sociale. Abbracciata la Terza via, si sono riconvertiti alla priorità dello Stato sul mercato. Il Partito democratico l’ha fatto tra mille oscillazioni, ma sembra chiaro con quale profilo (non parliamo, per carità, di programmi) intenda sottoporsi al giudizio degli elettori. L’intesa con Calenda, che non nasconde la sua opzione pro-market, derubrica a foglia di fico l’accordo stipulato con Articolo Uno e Verdi-Sinistra Italiana. È lo schema adottato nel 2008 da Veltroni, che – all’insegna del voto utile – gonfiò provvisoriamente il seguito elettorale del Pd, ma condusse a una trionfale vittoria dello schieramento guidato da Berlusconi.

Dal lato opposto, vi sono formazioni politiche rimaste fedeli alla tradizione: specie a quella del welfare State. Ormai prossimo ad esse è il M5Stelle, che in un dato momento della sua parabola ha attratto, provvisoriamente, una discreta quota di elettorato di destra, ma che ha costruito le sue fortune dall’inizio dello scorso decennio attraendo elettori proprio dal Pd e da altre formazioni collocate sul centrosinistra (Italia dei valori), avanzando un’offerta di rigenerazione morale della vita pubblica. Da ultimo, il Movimento parrebbe essersi collocato piuttosto tra le formazioni pro-welfare.

Sotto il profilo elettorale, i partiti che coltivano il primo orientamento, cioè il Pd, hanno più seguito. Gli altri hanno seguito modesto. Non sappiamo, per contro, come si potrebbe distribuire il popolo “non di destra”, una parte non secondaria del quale ormai da tempo testimonia la sua sfiducia nelle sue rappresentanze, astenendosi dal voto, ove gli fosse sottoposta una scelta dicotomica.

In politica contano molto le inerzie e l’elettorato del Pd, che ne ha già viste tante, sembra essergli affezionato, quali che siano le sue scelte politiche. È da vedere se in nome del voto utile resisterà alla presenza nelle sue liste anche della maggior responsabile delle terribili condizioni in cui versano la scuola e l’università in Italia.

I partiti fanno calcoli. Fondati, inutile nasconderlo, non su motivazioni ideali e progetti di società, ma su convenienze elettorali. Ciò che i partiti calcolano di rado, ed è gravissimo, sono i costi che il loro popolo pagherà ove fossero sconfitti. L’esperienza del governo Berlusconi durante il triennio 2008-2011 è stata terribile. La finanza pubblica fu devastata. Oltre a scuola e università, furono distrutte le amministrazioni locali, le amministrazioni pubbliche, la sanità e quant’altro.

I cittadini ne pagarono il costo due volte. La prima perché privati di importanti servizi, la seconda perché le condizioni della finanza pubblica li costrinsero ad ulteriori sacrifici. Questa volta, in ragione della vigente legge elettorale, che nessuno si è curato di modificare, la destra a tre punte potrebbe addirittura ottenere una maggioranza parlamentare che le consenta di stravolgere a suo piacere la costituzione, cui i partiti “non di destra” si dicono affezionati.

Ebbene, la responsabilità che incombe su questi ultimi è enorme. Quella che Thomas Piketty ha chiamato la “sinistra brahmina” come al solito se la caverebbe con poco. Mal che vada fuggirà oltre confine. La media degli italiani non potrà farlo. Va da sé che la responsabilità maggiore spetterebbe al partito più grande, cioè il Pd, ma una quota di responsabilità toccherebbe pure agli altri partiti.

Antonio Floridia e Gaetano Azzariti hanno avanzato più che ragionevoli proposte di collaborazione minimale, non per evitare i danni, ma per limitare quelli più gravi. Stiamo ancora aspettando che i partiti “non di destra” facciano la mossa giusta: sedersi intorno a un tavolo. Ci accingiamo a celebrare il centenario di un altro terribile errore.