Acqua bene comune. Esponenti storici e più recenti dell'ambientalismo, della sinistra non rassegnata, sindacalisti e esponenti dell'associazionismo più vario si unirono nella consapevolezza che non si poteva fare passare impunemente il capovolgimento della volontà popolare, anche se erano passati più di 2 decenni e non erano pochi quelli che avrebbero preferito abbozzare
La vittoria dei referendum del 2011 per l’acqua bene comune e contro il nucleare è importante sia perché le sfide vanno affrontate, sia perché ci fu una mobilitazione eccezionale. Che capovolse le previsioni nefaste basate sui referendum falliti nei 2 decenni precedenti, dopo la vittoria del 1987 contro il nucleare.
L’acqua bene comune aveva un radicamento e un lavoro di anni di preparazione. Il No al nucleare ha dovuto decidere con grande rapidità, perché fu il governo Berlusconi, insediato nel 2008 con un margine di maggioranza di quasi 100 deputati e 50 senatori, a tentare il colpaccio del ritorno al nucleare, malgrado il No all’80 % nel referendum del 1987 ne avesse decretato la fine.
Esponenti storici e più recenti dell’ambientalismo, della sinistra non rassegnata, sindacalisti e esponenti dell’associazionismo più vario si unirono nella consapevolezza che non si poteva fare passare impunemente il capovolgimento della volontà popolare, anche se erano passati più di 2 decenni e non erano pochi quelli che avrebbero preferito abbozzare. Quindi occorreva sfidare Berlusconi e Scaiola in un nuovo referendum contro il nucleare. Unico modo per fermare una macchina affaristica e politica che sembrava ormai inarrestabile.
Così fu. Si arrivò al referendum sul nucleare, visto all’inizio da alcuni come un disturbo a da altri perso in partenza. Di Pietro organizzò la raccolta delle firme necessarie, pur avendo concordato con le 5 associazioni ambientaliste dell’epoca di non fare fughe solitarie. Non era un estraneo, era l’alleato scelto da Veltroni nel 2008. Perfino il quesito fu concordato con la supervisione del mai abbastanza rimpianto Gianni Ferrara.etro capì rapidamente che un conto era raccogliere le firme, altro era vincere il referendum e convenne di lasciarsi alle spalle le polemiche per convergere nella campagna referendaria sul No al nucleare.
Il presidente di Lega Ambiente fu indicato dalle associazioni ambientaliste come riferimento per realizzare questa convergenza, per fare vincere il No. Il coinvolgimento di esponenti dell’ambientalismo fu enorme, esperti di vario tipo si mobilitarono (Giorgio Parisi grande fisico, Umberto Guidoni primo astronauta italiano) portando un contributo di argomenti e di idee formidabile. La mobilitazione crebbe in svariati ambienti. Anche in quelli che nel referendum dell’87 non si erano mobilitati.
Il contributo di una parte importante del sindacato fu la grande novità, non l’unica. La sinistra tentennò a lungo, non era convinta, non credeva fosse possibile vincere e comunque il rapporto con lo strumento referendum è sempre stato controverso. Eppure come dimenticare l’importanza civile, culturale e politica dei referendum sul divorzio, sull’aborto. Il referendum è uno strumento di cui non abusare, come hanno imparato i radicali, ma quando c’è occorre schierarsi.
Ad esempio sui 6 referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai radicali non si può restare a guardare, occorre schierarsi per il No senza ambiguità perché al centro c’è l’autonomia della magistratura. Certo la magistratura è in crisi, riforme sono necessarie, ma se passano i referendum la sua autonomia sarà travolta e l’assetto democratico dell’Italia potrebbe entrare in affanno.
Le sinistre sbagliarono perché non entrarono con la necessaria decisione nella campagna referendaria del 2011, in cui l’imputato era il governo Berlusconi, e ancora di più perché non hanno risposto alle attese dopo la vittoria, lasciandosi influenzare da un lobbismo che punta, ne ha scritto Marco Bersani sulle pagine de il manifesto, a quotare in borsa l’acqua bene comune. Ne ha approfittato chi del rapporto con i movimenti ha fatto la ragione della sua avanzata travolgente.
Il Movimento 5 Stelle ha avuto un risultato importante nelle elezioni del 2013 perché si è attribuito ruoli che altri non hanno saputo rivendicare, finendo con il lasciare orfana una mobilitazione di milioni di persone senza riferimenti adeguati a sinistra. Qui ha messo radici né di destra né di sinistra. Le sinistre debbono re-imparare a scegliere sulla base dei loro valori senza avere timori della mobilitazione di massa, che non è un pranzo di gala ma consente di premere per svolte o impedire sfondamenti.
Commenta (0 Commenti)Acqua pubblica. La politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi 10 anni abbiamo avuto 8 governi, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua
Roma, luglio 2010. Un momento della manifestazione per la consegna delle firme per il referendum dell’acqua pubblica © LaPresse
Ritengo importante celebrare il decimo anniversario del Referendum (11-12 giugno 2012) per sottolineare il grande coraggio che ha avuto il popolo italiano nel votare con due Sì e quasi all’unanimità (95,8%) a quelle due domande referendarie: l’acqua deve uscire dal mercato e non si può fare profitto sull’acqua. È stato l’unico popolo in Europa a tenere un referendum sull’acqua e a vincerlo. Il popolo italiano non si è lasciato ingannare, né dalla stampa, né dalle televisioni, né dai partiti (salvo poche eccezioni), schierati per la privatizzazione. La battaglia iniziò da un piccolo gruppo di attivisti che si oppose alla privatizzazione decretata dall’allora governo Berlusconi.
Quel gruppo capì subito che, se si voleva ottenere una vittoria, bisognava impegnarsi perché nascesse un vasto movimento popolare. Questo si è potuto realizzare attraverso il lavoro capillare dei comitati che, con uno sforzo straordinario, si impegnarono a informare i cittadini utilizzando mille stratagemmi e iniziative.
Quanta creatività! Una delle iniziative più indovinate fu la legge di iniziativa popolare, scritta dagli stessi comitati, che raccolse oltre 400.000 firme consegnate trionfalmente alla Corte Costituzionale a Roma. Questo ci aprì la porta alla vittoria referendaria, raggiunta grazie alla capacità del movimento di fare rete, partendo dai comitati cittadini, dai coordinamenti regionali, dal Forum con la sua preziosa segreteria. È stata questa capacità di lavorare insieme a determinare il buon esito della lotta fino al felice epilogo.
Purtroppo, la politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi dieci anni ben otto governi si sono susseguiti alla guida del paese, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua. Sono rimasto soprattutto sconcertato dall’inerzia dei Cinque Stelle e anche il presidente della Camera Roberto Fico ha disatteso le promesse fatte al Forum quando si insediò, cioè quella di legare la sua presidenza alla ripubblicizzazione dell’acqua. La portavoce alla Camera dei 5S ha scritto su questo giornale (8/06/21), sottolineando le azioni portate avanti dal suo Movimento. Ma quello che si chiedeva ai 5Stelle era l’obbedienza al Referendum: una legge per la gestione pubblica dell’acqua che non è stata fatta. Trovo altrettanto strano che si vanti di aver trovato cinque miliardi (in verità sono 4,38) destinati ai lavori per migliorare le condizioni delle reti idriche.
Ma la portavoce del M5S ha letto il Pnrr del governo Draghi? Così è scritto nel testo: “Il quadro nazionale è ancora caratterizzato da una gestione frammentata e inefficiente delle risorse idriche, e da scarsa efficacia e capacità industriale dei soggetti attuativi nel settore idrico, soprattutto nel Mezzogiorno.” Quei 4,38 miliardi andranno alle multiutility del centro-nord (Acea, A2A, Iren e Hera) per gestire industrialmente le acque del Meridione, in barba al Referendum! E questo di fronte a un pauroso surriscaldamento del Pianeta che avrà come prima vittima il bene più prezioso che abbiamo: “sorella acqua.”
E non è solo un problema per il sud del mondo ma coinvolge anche il Nord. L’Italia rischia di perdere il 50% dell’acqua potabile entro il 2040. I ricchi troveranno qualche soluzione, ma gli impoveriti del Sud del mondo sono destinati a morire? Se l’acqua venisse privatizzata, saranno i poveri a pagarne le conseguenze. Se oggi abbiamo 20-30 milioni di persone all’anno che muoiono di fame, domani, con queste politiche di privatizzazione, potremo avere cento milioni di morti di sete. Le prime avvisaglie di questo processo le abbiamo avute lo scorso dicembre quando l’acqua è stata quotata in borsa in California e poi a Wall Street. Questo è un peccato di onnipotenza: la follia dell’uomo.
Per questo i comitati dell’acqua di tutta Italia, domani 12 giugno, celebreranno a Roma con una manifestazione nazionale alle 15,30 in piazza Esquilino, per ricordare a tutti la disattesa applicazione del referendum da parte del governo italiano. A Napoli, unica grande città ad obbedire al referendum, con una azienda speciale pubblica(Abc), l’appuntamento è per oggi alle ore 18 davanti al Municipio.
Mi appello alla coscienza di Draghi perché utilizzi quei 4,38 miliardi di euro per ripubblicizzare la nostra “sorella acqua” (i nostri esperti hanno calcolato che si può fare con molto di meno). Papa Francesco scrive nella sua enciclica Laudato Si’: “Questo mondo ha un debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità”. È la prima volta che un Papa parla dell’acqua come “diritto alla vita” (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia). Privatizzarla equivale a vendere la propria madre. Difendiamo tutti la nostra comune Madre
Commenta (0 Commenti)Dialogo Sociale. Intesa su emendamenti al decreto Sostegni bis. Ma i tempi sfasati rispetto al via libera del 1° luglio rischiano di vanificare l’alleanza. Landini: alla luce di questo problema si rende necessaria la riapertura del tavolo con Draghi. L’ex ministra Catalfo: siamo totalmente d’accordo. Letta: purtroppo non c’è un monocolore Pd
Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova © Foto Ansa
In una giornata poi sconvolta dalla notizia della morte di Guglielmo Epifani, i sindacati incassano l’appoggio di M5s e Pd nella loro battaglia per il prolungamento del blocco dei licenziamenti.
Da una parte gli emendamenti annunciati dai pentastellati, dall’altra la richiesta di Maurizio Landini di un nuovo incontro con Draghi.
«C’È BISOGNO CHE IL GOVERNO convochi un nuovo tavolo. Crediamo che riforma degli ammortizzatori sociali, proroga del blocco dei licenziamenti ed estensione delle tutele a tutte le forme di lavori debbano essere oggetto di una trattativa specifica con palazzo Chigi», ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al termine del confronto con i parlamentari M5s.
Motivo principale della richiesta di Landini sono i tempi sfasati – sottolineati alla Cgil dalla delegazione pentastellata – della discussione e conversione in legge del decreto Sostegni uno che prevede lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. «La discussione parlamentare del decreto sostegno inizierà oltre il 30 giugno – spiega Landini – . Il parlamento delibererà oltre la metà del mese di luglio ma dal primo di luglio si potrà licenziare e dunque anche le modifiche che noi proponiamo entreranno in vigore dopo», ha sottolineato Landini. «Alla luce di questo ulteriore problema, ancora di più si rende opportuna e necessaria la riapertura del tavolo da parte del governo», ha sottolineato anche il leader Uil Pierpaolo Bombardieri che nel pomeriggio è stato ricevuto da Mattarella per i 70 anni della Uil. «È urgente riattivare il confronto con il governo per neutralizzare il rischio licenziamenti dal primo luglio», sottolinea la Cisl.
UN ALLEATO NEL GOVERNO Landini sa di averlo. Si tratta del ministro del Lavoro Andrea Orlando, autore della mediazione dell’allungamento del blocco dei licenziamenti al 28 agosto poi cancellata dal decreto Sostegni bis per le pressioni di Confindustria e Lega, accolte da Draghi. Orlando ieri ha cercato di rilanciare il tema utilizzando però un altro argomentno: quello delle diversità di settori. «C’è una coalizione ampia in cui si tratta di tenere insieme posizioni anche diverse, ho visto che si sta facendo strada un ragionamento sulla selettività rispetto ad alcune filiere – ha detto Orlando – . Se questo ragionamento c’è io sono pronto: naturalmente bisogna sempre ricordare che, se bisogna intervenire, va fatto subito perché i tempi sono abbastanza stretti». Domenica anche il ministro dello Sviluppo leghista Giancarlo Giorgetti aveva aperto alla possibilità di prolungare il blocco per alcuni settori come il tessile e la moda.
IN REALTÀ PERÒ LA PROPOSTA di Cgil, Cisl e Uil è generale e non prevede distinguo rispetto ai settori: proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine ottobre in attesa di una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.
Due posizioni molto diverse e dunque difficilmente conciliabili. Per questo Landini chiede un incontro con Draghi, consapevole che, in una maggioranza composita, qualsiasi modifica debba essere decisa dal presidente del consiglio.
Rispetto all’incontro con i parlamentari pentastellati Landini ha detto di avere incontrato la disponibilità a recepire alcune delle richieste in sede di conversione del decreto sostegni bis. In particolare il segretario della Cgil ha parlato di «disponibilità da parte del M5s a presentare emendamenti che vadano in direzione delle nostre richieste su blocco dei licenziamenti, estensione dei contratti di solidarietà (non solo a chi ha perso fatturato del 50% ma a tutti), condizionalità dei sostegni alle imprese al mantenimento dell’occupazione, contratti di espansione e governance del Pnrr», ha illustrato Landini.
USCENDO DALL’INCONTRO ha parlato anche l’ex ministra del lavoro M5s Nunzia Catalfo. «Abbiamo incontrato i sindacati e ascoltato le loro istanze, dalla riforma delle politiche attive, agli ammortizzatori sociali. Si è parlato della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. C’è la necessità di prolungare il blocco per alcuni mesi, e sono necessità assolutamente condivisibili», ha detto la ex ministra che sulla riforma degli ammortizzatori sociali aveva imbastito un dialogo costruttivo con Cgil, Cisl e Uil.
Difficile comunque immaginare oggi che in fase di conversione del decreto Sostegni bis il governo Draghi possa dare parere favorevole ad un emendamento che prolunghi il blocco dei licenziamenti.
C’ERA MOLTA ATTESA per la posizione che avrebbe tenuto Enrico Letta. Purtroppo però l’incontro pomeridiano al Nazareno fra la delegazione ai massimi livelli del Pd e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil si è interrota alla notizia della morte di Guglielmo Epifani proprio nel momento in cui il segretario Pd avrebbe dovuto rispondere alle richieste dei sindacati: «Purtroppo non c’è un monocolore Pd», è l’unica battuta che ha fatto il segretario Pd.
Commenta (0 Commenti)La nascita nel 1946 della Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente con il suffragio universale effettivo (con il diritto delle donne di candidarsi e votare) e la scrittura della Costituzione italiana non furono un «pranzo di gala».
Ma fu il precipitato storico di una fase drammatica e decisiva della storia d’Italia iniziata con il crollo del fascismo (dopo venti anni di dittatura politica, razziale e di classe) seguita dal collasso dello Stato monarchico (dopo tre anni di guerra mondiale a fianco dei nazisti) continuata con la Resistenza e conclusa con la Liberazione.
Il portato valoriale delle tre guerre combattute dalla Resistenza (Liberazione Nazionale; guerra civile e guerra di classe) trovò forma e sostanza nella Costituzione, configurando la Repubblica come libera e indipendente; antifascista e democratica; informata alla giustizia sociale. La «quarta guerra», quella delle donne, determinò l’assetto compiuto del nostro patto di cittadinanza con il riconoscimento della parità e dell’identità di genere.
NEMMENO la Repubblica e la Costituzione furono un approdo definitivo, esse si misurarono con un quadro della politica interna e internazionale gravido di conflitti, tensioni e spinte contrapposte sui fronti continuità/discontinuità dello Stato e rinnovamento/conservazione degli assetti di potere storicamente dati.
Così la lotta per la difesa della Repubblica e per l’applicazione della Carta divennero il fondamento dell’istanza di progresso contro i tentativi eversivi emersi all’inizio degli anni Sessanta con il governo Tambroni ed il Piano Solo e poi deflagrati con la stagione del terrorismo stragista da Piazza Fontana agli attentati alla stazione di Bologna e del treno Rapido 904. In mezzo, proprio grazie al dettato costituzionale, grandi mobilitazioni di massa determinarono altrettanto grandi conquiste sociali e civili dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dalla riforma del diritto di famiglia al servizio sanitario nazionale. Una connessione diretta tra eredità dell’antifascismo e modificazione dei rapporti sociali nell’Italia del trentennio post-bellico.
75 anni dopo l’Italia repubblicana contemporanea, fuori dalle retoriche celebrative dell’occasione, sembra «abitata» e stretta in una morsa dagli istinti regressivi di un ceto medio colpito dalla crisi e dagli «spiriti animali» di un capitalismo tanto predatorio quanto «straccione» di quelle classi dirigenti-proprietarie che hanno vissuto da estranee l’approdo alla democrazia costituzionale e conflittuale espressa dalla forma assunta dallo Stato tra il 1946 ed il 1948.
SONO IL NESSO inscindibile antifascismo-Repubblica-Costituzione e l’orizzonte di senso che esso ha disegnato nella storia d’Italia a rappresentare oggi, il vero convitato di pietra del discorso pubblico declinato sugli obiettivi della prossima «ripresa», o per meglio dire «ristrutturazione», che deriverà dal Piano dei fondi europei del Next Generation Eu paragonabile, se non superiore per estensione e quantità, al Piano Marshall del dopoguerra.
Tanto più sembra delinearsi l’indirizzo neoliberale di quel piano, gestito dalle stesse classi dirigenti europee promotrici dell’austerity come soluzione delle profonde crisi economico-finanziarie globali pre-pandemiche, tanto meno compatibili ed eterodossi con la «democrazia di mercato» sembrano i principi ideali e materiali (segnati da un moto della storia e un «fatto d’armi» come fu la Resistenza) che condussero madri e padri fondatori della Repubblica a volgere lo sguardo al futuro del Paese.
«NON TACIAMOLO – disse il 22 dicembre 1947 nel suo discorso di chiusura il Presidente Umberto Terracini – molta parte del popolo italiano avrebbe voluto dall’Assemblea costituente qualcos’altro ancora. I più miseri, coloro che conoscono la vana attesa estenuante di un lavoro; coloro che, avendo lavorato per un’intera vita, ancora inutilmente aspettano una modesta garanzia contro il bisogno; coloro che frustano i loro giorni in una fatica senza prospettiva. Essi si attendevano tutti che l’Assemblea esaudisse le loro ardenti aspirazioni, memori come erano di parole proclamate e riecheggiate. Ma noi sappiamo di avere posto, nella Costituzione, altre parole che impegnano inderogabilmente la Repubblica a non ignorare più quelle attese».
È SU QUESTO bivio tra continuità liberista e discontinuità progressista che si decidono gli anni futuri della nostra giovane Repubblica.
Con il pensiero rivolto «alla memoria di quelli che, cadendo nella lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra libertà e per la nostra indipendenza» e nella consapevolezza comune che «mancare all’impegno – ammoniva Terracini – sarebbe nello stesso tempo violare la Costituzione e compromettere, forse definitivamente, l’avvenire della Nazione».
Davide Conti
(da "il Manifesto" del 3 giugno 2021)
Tamburi d'aria. Processo «Ambiente Svenduto», 20 e 22 anni in primo grado per gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria
La ex Ilva di Taranto © foto LaPresse
È una sentenza che resterà nella storia della città di Taranto. E che diventerà un punto di riferimento per le future controversie legali in materia di inquinamento ambientale in Italia. Ieri mattina, la Corte d’Assise di Taranto, dopo undici giorni di camera di consiglio, ha letto il dispositivo della sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sulla gestione dell’ex Ilva negli anni 1995-2013. La sentenza è arrivata dopo 5 anni di dibattimento, quasi 400 udienze fiume che hanno visto sfilare decine di imputati e centinaia di testi: accusa e difesa si sono date battaglia su ogni singolo aspetto di una vicenda infinita e lungi dall’essersi risolta definitivamente.
LA CORTE ha di fatto ritenuto in gran parte corretto l’impianto accusatorio (l’accusa era rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Buccoliero, Epifani, Graziano e Cannalire), condannando a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’ex Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. L’accusa aveva chiesto 28 e 25 anni. I Riva in fabbrica potevano contare sul cosiddetto «governo ombra», di cui facevano parte i «fiduciari»: 18 gli anni di condanna per cinque imputati (Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che secondo l’accusa formavano un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che prendeva ordini dalla famiglia Riva.
CONDANNATO A 21 ANNI e 6 mesi l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà (erano stati chiesti 28 anni), che fungeva da ponte tra la proprietà e la politica oltre a mantenere legami con gran parte della stampa locale, la Curia e che avrebbe corrotto il consulente della procura Liberti condannato a 17 anni.
Condannata anche la catena di comando interna del siderurgico. Ventun’anni per l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso, 17 ciascuno agli ex capi area Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò. Per altri due ex capi area, Marco Andelmi e Angelo Cavallo, la pena è stata di 11 anni e 6 mesi. Condanna di 4 anni invece per l’attuale dirigente Adolfo Buffo (i pm ne avevano chiesti 20). L’ex consulente dei Riva, l’avvocato Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi. Piena assoluzione invece per l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva dall’estate 2012 a quella del 2013 quando l’azienda venne commissariata: per lui erano stati chiesti 17 anni.
MA L’INCHIESTA sull’ex Ilva ha coinvolto anche personaggi politici che ricoprivano ruoli primari durante la gestione Riva. La Corte d’Assise ha infatti condannato a 3 anni l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva condannato a 3 anni.
Tre anni e mezzo sono stati inflitti all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola (i pm ne chiedevano 5): l’ex governatore è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Quest’ultimo, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex presidente, è stato condannato a 2 anni. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Prescritto invece il reato di abuso d’ufficio per l’ex sindaco Ippazio Stefàno.
ULTIMA, MA NON per importanza, è la confisca disposta per gli impianti dell’area a caldo sottoposti a sequestro dal luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva Fire (oggi Partecipazioni Industriali in liquidazione) e Riva Forni Elettrici. La confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società per gli illeciti amministrativi è pari a una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. All’ex Ilva è stata anche comminata una sanzione di 4 milioni. Disposti anche 5mila euro di risarcimento danni a testa per le oltre 900 parti civili.
LA CONFISCA PONE degli interrogativi sul futuro dell’azienda, che non si fermerà in quanto la facoltà d’uso degli impianti non è stata intaccata. Così come è chiaro che il provvedimento diventerà effettivo solo quando giungerà la sentenza definitiva. Il punto interrogativo più importante riguarda però gli accordi sin qui sottoscritti tra ArcelorMittal, gestore affittuario, e Invitalia: la proprietà alla base di accordi e transazioni ora viene meno, pertanto non è chiaro se gli accordi resteranno validi. Chi sarà a gestire gli impianti confiscati? Il soggetto pubblico che sarà incaricato di disporne cosa ne dovrà fare?
Il tutto in attesa della prossima sentenza del Consiglio di Stato, che qualora confermasse la sentenza del Tar di Lecce in merito all’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci, porterebbe alla probabile e definitiva chiusura dell’area a caldo del siderurgico tarantino.
La Fiom (parte civile): ora produzione verde
"Sarebbe davvero una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l'approdo ad una produzione ambientalmente sostenibile dell'acciaio a Taranto: condizione indispensabile per la sopravvivenza degli altri siti del gruppo e per le prospettive dell'intera industria manifatturiera italiana".
Lo affermano la segretaria generale Fiom Francesca Re David e il responsabile siderurgia Gianni Venturi, ricordando come la Fiom e Cgil fossero parti civili nel processo. "E' indispensabile che governo e presidente del consiglio rompano il silenzio e si assumano le responsabilità di dare una prospettiva certa alle produzioni e ai lavoratori dell'intero settore siderurgico".
"La sentenza - dicono - riconosce che i diritti costituzionalmente tutelati come la salute e il lavoro, non possono essere piegati a logiche di puro profitto. Adesso occorre evitare che la confisca degli impianti, arrivare ad una rapida transizione degli assetti societari previsti dagli accordi tra Invitalia e ArcelorMittal".
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Il caso. La protesta di Cgil, Cisl e Uil in piazza Montecitorio a Roma, scontro con Confindustria. Appalti: «Stop massimo ribasso, ora la norma sulla responsabilità in solido»
La protesta dei sindacati ieri a piazza Montecitorio a Roma © LaPresse
Licenziare dal primo luglio senza chiedere la cassa integrazione oppure chiederla e licenziare alla scadenza del 31 dicembre di quest’anno. Quello che è stato presentato dal governo come un «compromesso» sul blocco dei licenziamenti per motivi economici è stato contestato ieri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil in un presidio a piazza Montecitorio.
L’oggetto dello scontro con i confederali sarebbe il prolungamento del blocco solo per un paio di mesi, fino alla fine di agosto 2021, come del resto aveva annunciato il Ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva infatti annunciato la proroga del divieto. «Non sono venute meno le ragioni che un anno fa avevano dato luogo al blocco dei licenziamenti – ha detto dal palco il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra – Gli ammortizzatori sociali non sono stati rinnovati, le politiche attive non sono state avviate. In particolare, non sono stati finanziati adeguatamente i contratti di solidarietà e non è stata prolungata la durata della Naspi – L’atteggiamento del governo di queste ore non convince. Hanno confermato al 1 luglio nel Dl Sostegni bis lo sblocco dei licenziamenti per tutto il sistema industriale e dell’edilizia. Quella norma va cambiata. Abbiamo già chiesto incontri ai gruppi parlamentari per chiedere loro nel prossimo passaggio parlamentare di prorogare almeno fino al mese di ottobre il blocco».
L’offensiva di Confindustria e dei suoi portavoce sui media, avvenuta nell’ultima settimana, è stata rintuzzata dal segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri: «Se qualcuno vuol far saltare coesione sociale, siamo pronti a reagire. Questa attuale non è una mediazione. È la posizione di Confindustria, inaccettabile anche perché si vuole dare libertà di licenziare quando il 70 per cento delle risorse per affrontare la pandemia sono state date alle aziende in modo non selettivo».
«Anche a Confindustria diciamo che per noi il primo luglio non può essere il giorno in cui partono i licenziamenti. Se dovessero non cambiare la norma, diciamo che non siamo disposti ad accettare passivamente, a subire i licenziamenti – ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che, insieme a Sbarra e Bombardieri, ha incontrato ieri il presidente della Camera Roberto Fico – Non è accettabile che dal primo luglio le imprese possano scegliere tra cassa integrazione e licenziamenti». La stessa scelta potrebbe tuttavia darsi anche dopo il 28 agosto, oppure dal primo gennaio dell’anno prossimo. Su questa partita pesa l’ imminente dichiarazione di fine emergenza pandemica dopo la quale sarà dichiarato il ritorno all’ordine del mercato. E, dunque, alla convinzione fanatica per cui i licenziamenti sarebbero la premessa per nuove assunzioni dettate dalla ritrovata «crescita», e non il primo passo verso la razionalizzazione del sistema produttivo e nuove povertà. È quello che sta avvenendo nel mondo del lavoro precario dove è stata persa la maggioranza del milione di posti di lavoro durante la pandemia. Nel paese del Jobs Act nessuno ha pensato a riformare questa legislazione, né a garantire l’estensione del «reddito di cittadinanza» almeno al milione di lavoratori diventati poveri nell’ultimo anno.
Nel corso della settimana i sindacati sono riusciti ad ottenere la cancellazione del massimo ribasso. Ma non la ritengono sufficiente. «Abbiamo anche chiesto introduzione di una precisa norma per cui l’appaltatore deve essere responsabile in solido non solo per quello che accade ai suoi dipendenti ma per tutti i lavoratori che lavorano sul medesimo progetto» ha detto Landini – Il costo del lavoro non può essere elemento di valutazione nell’assegnazione degli appalti, bisogna applicare ccln e combattere i contratti pirata»,
Le tutele sociali restano una promessa. Ieri in piazza Landini ha citato il problema. Nella riforma «universalistica» degli ammortizzatori sociali, annunciata entro la fine di luglio dal ministro del lavoro Orlando, il criterio base dovrebbe essere: «I diritti non sono legati alla forma del lavoro. Stesse tutele, stessi diritti». Dalle linee generalissime di un provvedimento rinviato già dal governo «Conte 2», tale riforma sarebbe incardinata in una torsione workfarista dello Stato sociale sbrindellato che esiste in Italia. Si punta tutto sulle «politiche attive del lavoro» che dovrebbero, in un universo parallelo, reinserire i licenziati o i cassaintegrati in un nuovo ciclo produttivo o della formazione. Tuttavia questo sistema non esiste. Il fallimento del progetto grillo-leghista del governo «Conte 1», basato sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», ha rinviato di anni la sua realizzazione. L’Anpal è stata commissariata, i centri per l’impiego sono al palo. E si continua a sperare nella miracolosa congiunzione astrale per cui la fine del blocco dei licenziamenti dovrebbe coincidere con l’avvio delle politiche attive del lavoro che avrebbero bisogno di un rodaggio di almeno cinque anni. Quelli che si è dato il piano di «ripresa e resilienza» che, entro il 2026, si propone di fare partire ciò che non è iniziato nel 2019. Progetti vasti e confusi. Le loro vittime sono già designate.
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