Brevetti. In difesa di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano. Draghi non ha ancora risposto al Comitato italiano
La decisione dell’amministrazione Biden è di estrema importanza e potrebbe rappresentare una svolta storica nella lotta contro la pandemia. È altresì il risultato dell’enorme pressione organizzata in tutto il mondo dalle reti associative attive in difesa del diritto alla salute, che hanno costruito alleanze con ampi settori del mondo scientifico, artistico e culturale. Vi è stato un susseguirsi impressionante di appelli in sostegno della moratoria: l’Oms, l’Unaids, l’Unitaid, la “Commissione Africana per i Diritti Umani”, 243 Ong e 170 personalità, fra cui numerosi premi Nobel. Prese di posizione che hanno rafforzato l’azione dell’ala sinistra del Partito Democratico statunitense verso il presidente.
Alla base della decisione di Biden vi sono anche ragioni di opportunità mediatica ed economica: nello scenario interno può rivendicare la propria coerenza con quanto dichiarato in campagna elettorale sulla necessità di una risposta globale alla pandemia; nello scenario internazionale si pone come il salvatore dell’umanità, rimette gli Usa al centro dello scenario mondiale e contemporaneamente risponde agli allarmi lanciati da diversi centri studi di economia, secondo i quali il crollo del sud del mondo – geografico ed economico – con la conseguente contrazione del mercato globale, avrebbe prodotto una danno economico enorme nei Paesi maggiormente sviluppati, primi tra questi gli Usa.
QUESTE REALI contraddizioni interne all’attuale capitalismo neoliberista, nulla tolgono né all’oggettività importanza delle decisioni della Casa Bianca, né alla possibilità che, grazie a tale scelta, molte, forse milioni, di vite umane possano essere risparmiate.
A difendere gli interessi di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano; il 19 aprile il Comitato italiano impegnato nella raccolta di un milione di firme sull’Ice- l’Iniziativa dei cittadini europei – “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” aveva inviato al presidente Draghi una lettera con le firme di oltre cento associazioni nazionali, tra le quali tutti i principali sindacati, chiedendo che il governo appoggiasse la moratoria sui brevetti richiesta dall’India e dal Sudafrica con l’appoggio di un centinaio di Paesi, e che esercitasse tutta la sua influenza per obbligare la Commissione europea a modificare la propria posizione.
Stiamo ancora aspettando la risposta. Ora, dopo la decisione di Biden, dalla presidente della Commissione europea ai ministri italiani è un susseguirsi di dichiarazioni di disponibilità alla trattativa. Non esprimo alcun giudizio, saranno i lettori a valutare l’eticità di simili comportamenti; mi auguro solo che a queste tardive dichiarazioni seguano comportamenti conseguenti.
Fino ad ora ci siamo battuti perché avesse inizio la partita, ossia la discussione sulla moratoria; ora che la partita ha inizio il gioco si fa estremamente duro e c’è bisogno di tutti. Big Pharma si è già scatenata alternando dichiarazioni minacciose “con queste decisioni sarà più difficile sconfiggere la pandemia”, a lacrime di coccodrillo sulle conseguenze economiche di queste scelte, dimenticandosi non solo che questi vaccini sono stati prodotti con ampi finanziamenti pubblici – ad esempio secondo quanto riportato dal the Guardian il vaccino AstraZeneca è stato prodotto con il 97% di soldi pubblici o provenienti da enti di beneficenza – ma anche ignorando i profitti stratosferici realizzati in questi mesi e nei prossimi. Infatti, la proposta di moratoria non prevede un esproprio, ma anzi un risarcimento, da definire in ambito Wto, alle aziende possessori del brevetto.
PER CONTRASTARE questa azione lobbistica sarà fondamentale, nelle prossime settimane, il ruolo della società civile nel premere per una rapida e soddisfacente soluzione per la salute dell’umanità. E’ importante rafforzare da subito la raccolta di firme “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” per obbligare la Commissione e gli stati europei a modificare a 180° la propria posizione. Il tempo è un fattore fondamentale; è diverso raggiungere un accordo tra una settimana o tra sei mesi, ogni giorno che passa ci sono delle morti evitabili.
E’ necessario vigilare perché l’accordo non sia una semplice dichiarazione d’intenti che rimane poi irrealizzabile, come fu la dichiarazione di Doha del 2001, nella quale il Wto affermava che la tutela dei brevetti non avrebbe mai dovuto impedire ai governi di fornire la miglior assistenza sanitaria possibile ai loro cittadini. Parole sante, ma solo parole.
Quello per cui ci battiamo è l’affermazione del diritto alla salute per tutti, non un aumento dell’intervento caritativo. La carità è importante, ma non può sostituire la fruibilità di un diritto, può eventualmente rafforzarlo.
AI TEMPI DELLA pandemia da Aids, pur di mantenere i brevetti fu attivato il “Fondo Globale Aids Tbc Malaria” attraverso il quale raccogliere fondi da privati e da Stati per distribuire farmaci ai Paesi poveri. In questi casi è sempre il “ricco” che decide a chi dare e cosa dare: in Africa sono ancora milioni le persone Hiv+ che non possono curarsi. E’ la filosofia proposta dalla Fondazione Gates e sostenuta anche da Big Pharma, che oltretutto potrebbe capitalizzare un’immagine di buon mecenate.
Quello di ieri è un passo importante, forse storico, ma la strada è ancora lunga.
Spagna . Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento
Ciò che è uscito dalle urne martedì scorso nella regione di Madrid è molto chiaro: ha vinto la destra e ha perso la sinistra. Meno evidente è forse la portata della sconfitta, che va detto con nettezza non riguarda solo il governo della regione, apparso fin dalla convocazione delle elezioni un dettaglio. Il voto della comunità di Madrid è destinato a scuotere tutti gli equilibri politici nazionali e forse avere anche conseguenze imprevedibili su quelli europei. Un po’ di chiarezza la fanno le dimissioni di Iglesias e il conseguente passaggio di consegne a Yolanda Diaz.
A lei è affidato il percorso e la responsabilità di ricostruire lo spazio politico di Unidas Podemos. Non sembra invece farsi largo fra i socialisti spagnoli, la forza che più è stata penalizzata dall’elettorato della comunità di Madrid, la consapevolezza che dalle urne emerge una nuova destra, guidata dal PP di Isabel Ayuso, un partito popolare che abbandona la sua faccia moderata e centrista, fondata sul rapporto con Ciudadanos, per assumere il volto di Vox, la destra neo franchista. Elettrici ed elettori hanno emesso un chiaro certificato di morte dell’operazione politica tentata nel 2014 dai poteri forti spagnoli, di dar vita, dopo la nascita e i successi di Podemos, a un partito moderato e di centro come Ciudadanos.
La crisi globale, ambientale, economica e sociale, che la pandemia ha solo fatto precipitare, ha ristretto, se non azzerato, gli spazi sociali, prima che elettorali, di una destra liberal e moderata. Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento. Una radicalizzazione la cui onda travolgerà oltre al governo anche la eterogenea maggioranza che lo sostiene, chiudendo la partita con l’indipendentismo non solo catalano.
Questo è il livello dello scontro con cui le sinistre, moderate o radicali che siano, devono fare i conti dopo questo voto di Madrid. Va detto con chiarezza che non è un fenomeno solo spagnolo, ma da Madrid parte un segnale a tutta la destra europea che può mettere rapidamente in crisi il tentativo di rilanciare il progetto europeo con il NextGenerationEU.
Sono quindi urgenti decisioni su come reagire a questa nuova destra e alla radicalizzazione dello scontro sociale che imporrà. Una prima scelta spetta a Sanchez e al governo che dirige: per fermare le destre conviene ridimensionare le ambizioni di trasformazione fin qui espresse dal governo progressista o al contrario rilanciarle ribadendo scelte programmatiche e alleanze? In altre parole facciamo di Sanchez il Draghi spagnolo in modo da ricreare spazi e credibilità ad una destra moderata o al contrario si rilancia l’accordo con Unidas Podemos e gli impegni presi con loro sulla transizione ecologica e sulla giustizia sociale?
L’impressione è che ridimensionare alleanze e programma aprirebbe le porte ad una sconfitta definitiva e di lungo periodo delle due sinistre. Si snaturerebbe non solo la svolta che Sanchez impose al Psoe vincendo le primarie e che mise fine ai governi di unità nazionale. Soprattutto liquiderebbe quella nuova Spagna invocata dal moto di indignazione che percorse tutte le città spagnole nel 2011 e a cui Podemos ha dato prima rappresentanza politica e poi portata al governo nazionale. Insomma i socialisti spagnoli non possono dopo il voto di martedì mantenere una ambiguità su questo terreno.
Comunque la si giudichi la scelta di Pablo Iglesias di abbandonare gli incarichi prima di governo e ora la guida del partito contiene una coerenza di fondo e cioè che lo spazio politico conquistato con la nascita di Podemos non lo si difende vivacchiando, ma compromettendolo con lo scontro sociale e politico che decide il futuro del paese. Nelle stesse dimissioni c’è la convinzione che l’alleanza fra il nuovo Psoe di Pedro Sanchez e la nuova Unidas Podemos guidata Yolanda Diaz va rilanciata. Ciò che soprattutto va evitato è svolgere questa discussione nel chiuso dei due partiti.
Essa per essere efficace e dare risposte all’altezza della nuova sfida che le destre lanciano, non può che aprirsi all’intera società spagnola, intrecciando le decisioni organizzative con quelle programmatiche. Va cioè ricostruita nella popolazione fiducia e speranza. Aprire una discussione di massa sulla transizione ecologica sul fatto che incamminandosi su quella strada può garantire non solo assistenza, ma anche giustizia sociale e lavoro stabile e con diritti è ciò che serve.
La sfida delle destre non si può vincere ridimensionando il progetto politico che ha unito le due sinistre. Va rilanciato e soprattutto bisogna farlo organizzando una grande partecipazione popolare.
Commenta (0 Commenti)Nel giorno della festa dei lavoratori i dati Istat certificano una perdita di 900 mila posti di lavoro dall’inizio della pandemia.
Sono donne e giovani i più colpiti. La battaglia dei settori più sfavoriti per avere diritti e tutele: dai rider agli addetti dello spettacolo ai migranti.
1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo
1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo
Il primo maggio dell’anno scorso pubblicammo un editoriale dal titolo «Contro il lavoro», «contro il lavoro – scrivevamo – per ciò che esso è e sempre sarà in una società capitalistica, in una società divisa in classi». Quell’articolo suscitò incomprensioni e molte reazioni negative: fummo accusati di luddismo, scarso rispetto delle forze produttive, marcusianesimo, pre o post marxismo a seconda delle letture dei nostri critici.
Quell’articolo aveva, forse, il torto di apparire un tantino ideologico. Ma, a un anno di distanza e con l’occhio più attento alla profondità dell’attuale crisi del capitalismo italiano, non verifichiamo forse che è proprio su questo lavoro che si incentra lo scontro di classe? Che questo lavoro è stato messo in questione dalle lotte operaie e che ora padroni e governo vogliono restaurarne la compiutezza, mentre gli operai vogliono rivoluzionarne la determinazione storica, cioè capitalistica?
È contro questo lavoro che si indirizzano le lotte alla organizzazione capitalistica del lavoro e quindi ai cottimi e ai ritmi, agli orari e ai turni, per l’ambiente e la salute, contro la determinazione padronale delle carriere e delle mansioni.
Ma oggi si verifica anche che i problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro. Questo lavoro è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo. Del meccanismo del profitto in fabbrica, dell’organizzazione del consenso e del mercato fuori fabbrica.
È attraverso questo lavoro che il meccanismo capitalistico genera le classi, la divisione tra gli uomini, un sistema piramidale di ineguaglianze. Un sistema generalizzato di diseguaglianza, che si riflette nella diversificazione della qualità dei beni che il capitalismo dà da consumare, nella diversificazione dei modi di vita che il capitalismo impone, nella gerarchizzazione, apparentemente razionale, di questa società.
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L'incontro. Bettini battezza l’alleanza. C’è anche Elly Schlein: «Dobbiamo unire le nostre lotte»
«Giuseppe, io vorrei che tu, Elly ed io…». Enrico Letta, in una inusuale veste lirica, utilizza un sonetto di Dante per descrivere la coalizione che dovrà sfidare Salvini e Meloni alle politiche. Perché, come dice il leader Pd, «una maggioranza come quella di Draghi è unica e irripetibili, non dovrà ripetersi mai più».
OSPITI VIA ZOOM DELL’AGORÀ di Goffredo Bettini, i due leder di Pd e M5S – più la giovane promessa della sinistra ecologista Elly Schlein e Massimiliano Smeriglio – discutono per oltre due ore del centrosinistra che verrà, e delle ricette con cui renderlo appetibile a un’Italia sempre più disuguale, rassegnata, impoverita. Bettini parla dei due «decolli paralleli» di Pd e M5S che «devono avere un obiettivo comune di unità a partire dalle comunali», e assegna i compiti: bisogna mantenere «connotazioni distinte per evitare sovrapposizioni».
«Ognuno deve arare i terreni a lui più congeniali», avverte, ricordando la necessità comune di «mettere in forma politica i conflitti sociali», di «ridurre le distanze tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi». C’è, grazie anche alla spinta radicale di Biden negli Usa, una condivisone con Letta e Conte sulla necessità di superare i vecchi paradigmi del centrosinistra, la sbornia liberista, di recuperare una funzione sociale, di «tornare a occuparsi del popolo, dei precari, dei non garantiti», come ricorda Nadia Urbinati che dà atto al M5S di aver cercato di interpretare «le emozioni di rabbia e disperazione» degli strati popolari».
CONTE LA SEGUE NELLA CRITICA al «primato dell’economia sulla politica», assicura che «non partiamo da zero, abbiamo condiviso con Pd e sinistra l’esperienza sul campo del mio secondo governo», ricorda che su alcune tipiche distinzioni destra/sinistra (come progresso vs conservazioni o egualitarismo vs gerarchia) il M5S è stato storicamente più a sinistra che a destra, ma rilancia la vocazione «trasversale e popolare» del suo nuovo M5S. «Non lasceremo alla destra il tema dell’identità, delle tradizioni popolari, o il blocco sociale dei lavoratori autonomi».
Alla fine, dopo un black out della connessione internet (Bettini evoca ironicamente un «complotto» contro Giuseppi) torna per dire che «avrete un M5S rigenerato, che ci sarà, col suo Dna». La connessione cade ancora, Letta sorride: «Ha detto che il Movimento ci sarà, ottimo risultato». E Bettini: «Senza Casalino le piattaforme di Giuseppe non funzionano…».
Il leader Pd è il più esplicito nel disegnare un campo largo progressista, che ribattezza «Piazza Grande» in omaggio al suo predecessore Zingaretti. «Questa piazza si costruisce con empatia, innanzitutto tra di noi, tenendoci per mano. Gli italiani si fideranno solo se vedranno persone che si stimano, si vogliono bene, il contrario dell’odio che ha abitato tante volte nel centrosinistra».
UN MESSAGGIO QUASI prepolitico. Cui segue una riflessione sulla svolta di Biden: «I democratici Usa, e anche io, hanno creduto che bastasse investire sulla locomotiva e i vagoni avrebbero seguito. Invece i vagoni- in senso sociale e geografico- si sono staccati e ora bisogna modificare l’ordine delle cose, la locomotiva deve stare in fondo e spingere». Per Letta, dopo la «convergenza di azione» tra Pd e M5S avvenuta sotto il governo Conte, ora serve una «convergenza di pensiero». E assicura: «Noi ascolteremo con umiltà, il nostro non deve più essere un partito antipatico, ma che soffre e spera con le persone».
Le spine delle mancate alleanze alle comunali d’autunno sono un convitato scomodo, che rischia di appannare il pomeriggio di amorosi sensi. «Sarebbe un peccato se, rispetto alle amministrative, non si riuscisse a concordare alcuni passaggi insieme, anche se credo che i tempi non siano ancori maturi per poter varare un’alleanza a tutto tondo col Pd», aveva detto Conte in mattinata. «Le amministrative sono solo una tappa intermedia del percorso che deve portarci uniti alle politiche del 2023 per avere la maggioranza», risponde Letta.
SCHLEIN PROPONE: «Bisogna ricostruire un campo nel suo insieme, le singole ristrutturazioni dei partiti non bastano. Su lavoro, ambiente e disuguaglianze abbiamo idee comuni, i giovani ci chiedono di unire le lotte, una visione comune» A Renzi ci pensa Bettini. «Non dialogheremo con chi mette in discussione la nostra alleanze, con chi fa azioni di disturbo per rafforzare il suo orticello». Conte e Letta, entrambi cacciati da palazzo Chigi dal rottamatore, non hanno bisogno di aggiungere una virgola. Il ticket dei due ex premier verso il 2023 è partito.
Commenta (0 Commenti)50 anni. Il manifesto va oltre l’impegno informativo, è qualcosa di più di un semplice quotidiano. È una idea, una scuola, un sentimento, un cuore collettivo e pulsante
Allo scoccare del mezzo secolo, per quegli strani scherzi del tempo, succede che le infinite, piccole e grandi storie, che hanno attraversato gli anni, diventano Storia.
Così, un consueto compleanno può assumere un carattere speciale, un rilievo anche simbolico, a metà strada tra magica alchimia e concreta determinazione.
Con il passare del tempo, gli anni trascorsi al manifesto sono diventati via via sempre più preziosi. E mi sono resa conto che se il tempo consumava noi, che realizzavamo e facciamo ancora oggi il giornale, «lui» invece non invecchiava, perché in grado di rinnovarsi.
Ora, che compie 50 anni, ha poche rughe, è in forma, forte, tenace. Combattivo come il primo giorno, quel 28 aprile del 1971 che è ormai la data di una storia giornalistica così lunga da rendere il manifesto, tra i quotidiani nazionali, il più longevo dopo La Stampa e il Corriere della Sera.
Il suo intreccio di ideali vive nel cuore e nella mente di milioni di persone; una storia politica maturata nel 1969 con l’omonima Rivista e subito dopo con la nascita del gruppo extraparlamentare; una vicenda collettiva, di una comunità di donne, uomini, ragazze, ragazzi e esponenti della vecchia guardia, che ci sostengono nella indefessa convinzione che un mondo diverso sia possibile.
Cinquant’anni fa nessuno mai avrebbe immaginato che la grande corazzata del Pci sarebbe sprofondata e il fragile vascello del manifesto gli sarebbe sopravvissuto. Se questo è accaduto, verosimilmente è perché quel ramo, che si separava dal grande albero, già si predisponeva all’innesto, alla contaminazione feconda con l’onda d’urto travolgente del ‘68, coniando, con l’invenzione di un quotidiano, una nuova, originale forma della politica.
Fu un incontro di reciproco, ricambiato amore che, nonostante tutto, traguarda ora il mezzo secolo.
Arrivare fin qui è stato un laico miracolo: l’esistenza del manifesto è segnata da momenti duri, difficili, perfino traumatici. Non una, ma più volte, siamo stati sul punto di chiudere definitivamente la nostra avventura.
Certamente, come conseguenza della crisi della sinistra italiana – e mondiale – incapace di immergersi e nuotare nei cambiamenti ideologici, sociali, culturali, economici che hanno caratterizzato la fine del Ventesimo secolo e i primi venti anni dei Duemila; ma anche a causa di
Leggi tutto: il manifesto: Cinquanta splendide primavere - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)Movimenti. La protesta a piazza Montecitorio del movimento "Per la società della cura": «Il piano di ripresa e resilienza non cambia l’economia che ha prodotto la pandemia. Sono politiche economiche ispirate alle vecchie ricette di stimoli tipiche degli anni Novanta che non producono lavoro dignitoso né qualità della vita». Condanna dell'esautoramento del parlamento e della discussione pubblica sulle soluzioni contenute nel piano di oltre 330 pagine anche da parte dei deputati in piazza
Davanti alla Camera che ha ricevuto il piano del secolo, quello di «ripresa e resilienza» solo dopo le 14 per votarlo senza conoscere la versione definitiva in serata, ieri si è radunato un puzzle di movimenti, associazioni e sindacati che anima la rete «Per una società della cura». Insieme hanno redatto il «Recovery PlaNet» alternativo a quello che il 30 aprile il governo invierà alla Commissione Europea. Prossimi appuntamenti: a Roma per il Global Health Summit del 21 maggio e il ventennale del G8 di Genova.
«QUESTO MODO di fare politica la dice lunga sulla concezione della democrazia di questo governo – sostiene Marco Bersani di Attac – Il piano insegue i miti della crescita competitività e concorrenza con il presidente del consiglio Mario Draghi che spinge alla sua attuazione senza una discussione pubblica perché sostiene che ogni ritardo provoca perdite di vite umane. Farei presente che le 116 mila vittime sono la conseguenza di un modello di sviluppo che ha provocato la pandemia del Covid e che potrebbe produrne altre se non lo si cambia. Nel Pnrr non c’è un’alternativa a questo modello».
«SI STANNO AFFRONTANDO i problemi del mondo del 2021 come le pandemie e l’emergenza climatica con le politiche economiche degli anni novanta – sostiene Monica Di Sisto di Fair Watch – Pensano che gli investimenti si traducano in punti di Pil da portare a Bruxelles come un trofeo. Ma gran parte di quelli prospettati nel piano rispondono a politiche di stimolo che rischiano di finire in nulla se il mercato interno e il tessuto sociale sono impoveriti come oggi. Gli incentivi non si traducono in lavoro dignitoso e qualità della vita. La storia dell’altra crisi dovrebbe averlo dimostrato. E invece si procede nello stesso modo, più di prima. Abbiamo votato un parlamento perché esami il piano, altrimenti parliamo di ristrutturazione autocratica del paese».
«QUELLA CHE SI VOTA in queste ore è una grande spartizione di risorse che quasi tutti i partiti stanno aspettando da mesi e li ha rapidamente convinti a imbarcarsi in un governo di destra-centro-sinistra, un’“ammucchiata” senza precedenti in Italia e in Europa- ha detto Piero Bernocchi (Cobas) – Senza un reddito di base, beni comuni come scuola e ricerca, trasporti e sanità sottratti al mercato non ci sarà nessuna transizione».
ANCHE SULLA SANITÀ è il piano è stato giudicato insufficiente. «La sofferenza usata per altre esigenze economiche per fare ripartire il modello di sviluppo che è alla base di queste pandemie – ha detto intervenendo online Vittorio Agnoletto di Medicina Democratica e della campagna “Nessun profitto sulla pandemia” – Abbiamo bisogno di cambiare il paradigma della sanità, di assumere medici e infermieri, una medicina territoriale, strutture ospedaliere intermedie, i Lea devono essere garantiti da un servizio pubblico e di un’azienda sanitaria pubblica a livello europeo. Altrimenti alla prossima pandemia rincorreremo le multinazionali per avere altri vaccini».
CRITICHE sono state rivolte da Rossella Muroni (Verdi) al la visione estrattivistica delle politiche energetiche, alla politica di transizione alle energie rinnovabili non democratica e non priva di problemi sull’idrogeno; sulle grandi opere e sui commissariamenti. «C’è un deficit di partecipazione democratica – ha detto in piazza Stefano Fassina (LeU) che ha votato la fiducia al governo -La storia non finisce oggi, le leggi delega passeranno in parlamento e i progetti vanno definiti, è importante continuare la mobilitazione». «Voterò contro questo scandalo – ha detto Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) in piazza- Il governo precedente è caduto perché aveva permesso la partecipazione al piano. Ora il Parlamento lo discute a scatola chiusa».
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