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L'estate di Salvini. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio, non si può lasciare il ministro dell'interno a sbandierare Italy first

L’estate è stata spesso palcoscenico di tormentoni politici, utili a riempire il vuoto di notizie e raggiungere una opinione pubblica distratta. Ma quella del 2018 passerà alla storia come il tempo di Salvini, capace di consolidare l’egemonia leghista sull’esecutivo giocando cinicamente su una emergenza migranti che oggettivamente non esiste. M5S non riesce a contenere la piena, e nel confronto sembra balbettare su terreni come la Tav, la Tap, e l’Ilva. Si conferma che non c’è partita tra il leader provato sul campo di un partito vero come la Lega e quello costruito in provetta di un movimento in crisi di crescenza.

In parte, un copione già visto. Ma cogliamo una novità: Salvini ha alzato i toni. Sprezzante verso Mattarella, Fico, le opposizioni, i magistrati, l’Europa. E, se a qualcuno mai venisse il dubbio, ha chiarito che non ha alcuna intenzione di dimettersi.

Due punti. Il primo: non accade perché Salvini ha preso un colpo di sole. Il secondo: è una strategia che non può durare a lungo. L’unica conclusione ragionevole è che il leader leghista stia guardando ai prossimi confronti elettorali, a partire dalle europee del 2019, forse affiancato da un anticipo delle elezioni politiche, più probabile proprio per l’accelerazione salviniana. Ne potrebbe uscire una netta svolta a destra del paese. La domanda è: si può fermare o contrastare Salvini?

Diciamo subito che – lo dimostra il caso Mancuso – di un ministro scomodo ci si può liberare solo con una mozione di sfiducia individuale. È possibile o probabile che dalle opposizioni ne venga una. Ma una sfiducia individuale respinta serve solo a compattare la maggioranza e paradossalmente rafforzare il ministro che si vuole colpire. Quindi, cautela.

È utile la via giudiziaria? Probabilmente no. Secondo le ultime notizie, Salvini è formalmente indagato. Se è così, si apre lo scenario di un reato ministeriale, e trova applicazione la l. cost. 1/1989, che riforma il testo del 1948 disegnando per il premier e i ministri una procedura ad hoc. Questa comporta anzitutto il passaggio a uno speciale collegio di tre magistrati estratti a sorte (art. 7).

Se il collegio non decide l’archiviazione, si prevede una autorizzazione parlamentare, che può essere negata a maggioranza assoluta dei componenti ove l’assemblea «reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9). L’autorizzazione è richiesta anche per limitazioni della libertà personale, intercettazioni, sequestro o violazione di corrispondenza, perquisizioni personali o domiciliari. Né può essere disposta l’applicazione provvisoria di pene accessorie di sospensione dall’ufficio (art. 10). È dunque ovvio che una maggioranza compatta può allo stesso modo respingere una sfiducia individuale e bloccare una indagine penale a carico del ministro.

Rimane la politica. Gli argomenti di una sinistra compassionevole e solidale e attenta al legame europeo sono nobili, e per una parte di noi doverosi. Ma sono temi che nel paese non mostrano oggi di riscuotere un consenso maggioritario. Fa impressione che persino la popolarità di papa Francesco abbia subito un netto calo, soprattutto tra i giovani, pare per la sua difesa dei migranti. Per uscire dall’angolo, bisogna avere la forza di un progetto più ampio. Il trumpismo fatto in casa di Salvini si sconfigge certo anche battendosi per i migranti, ma includendoli in un progetto complessivo sui diritti dei lavoratori, i precari, i disoccupati, i milioni di poveri, le periferie degradate, il ceto medio impoverito, i giovani che non possono permettersi una famiglia o un figlio, i deboli, i diversi. Non si può lasciare Salvini a sbandierare Italy first.

Non è compito da poco. Soprattutto per il Pd, a rischio di una definitiva consunzione, come dicono anche i fischi di Genova e la consapevolezza che la storia di privatizzazioni sospette di favori ad amici e sodali è a lungo maturata nelle stanze del centrosinistra di governo. Una palingenesi è indispensabile, anche se tuttora impedita dalle scorie del renzismo. Niente scorciatoie. Potrebbero solo condurci a un Salvini santo subito.