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Quirinale. Nel caso di un premier dimissionario, a gestire la crisi dovrebbe essere Mattarella prima della fine del mandato e dell’insediamento del nuovo presidente

 

Il capo dello Stato viene eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle Regioni. Quest’organo deve individuare la persona che ritiene sia in grado di svolgere il ruolo di garante politico della Costituzione per il lungo periodo di sette anni. Questo dice la nostra Carta e da qui dovremmo partire se volessimo – come dovremmo – ragionare per principi e non per immediate convenienze.

La discussione, invece, è dominata dalla ricerca di un candidato che sia in grado di garantire, nel breve periodo, gli attuali assetti di potere, assicurando una continuità di indirizzo politico e la regolare conclusione della legislatura. Visioni miopi che rischiano di piegare le logiche della Costituzione a quelle dalla politica.
Così è solo per la personale sensibilità costituzionale del presidente Mattarella che è venuta meno un’ipotesi disinvoltamente perseguita che avrebbe sì garantito lo status quo, ma a scapito della tenuta futura del sistema costituzionale. Infatti, la rielezione dell’attuale titolare della carica presidenziale, dopo il precedente di Napolitano, avrebbe finito per scardinare il sistema che la nostra costituzione ha stabilito per assicurarne l’indipendenza e l’autonomia.

Pur se non si è esplicitamente prevista la non rieleggibilità (ed è stato un male), il semestre bianco e la nomina a senatore di diritto e a vita alla scadenza del mandato indicano una chiara direzione di rotta e segnano la volontà di assicurare un fisiologico ricambio al vertice dello Stato. Con la rielezione come ipotesi ordinaria (due eccezioni fanno regola) il presidente della Repubblica diventerebbe titolare di un potere senza un termine certo, la cui possibile conferma finirebbe per rappresentare solo una variabile dipendente dalle esigenze tattiche del momento. Bene ha fatto Mattarella a respingere questo scenario.

Diversa, ma non troppo, l’ipotesi ora accarezzata dai più: il trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. In questo caso, in termini di stretto diritto costituzionale, la perplessità deriva dalla motivazione espressa a sostegno di tale elezione. L’attuale presidente del Consiglio – si afferma – sarebbe il miglior garante della continuità, tanto più visto che condizione essenziale per l’elezione al Colle è rappresentata da un necessario contestuale accordo circa il suo successore al Governo. Non vi è dubbio che in assenza di una preventiva intesa sugli assetti del nuovo governo l’elezione di Draghi sarebbe compromessa, non potendo immaginare di aprire una crisi di governo al buio, che dovrebbe poi essere governata e risolta da chi tale crisi ha causato, lasciando nel frattempo il governo dimissionario allo sbando.

Di questo mi sembra vi sia diffusa consapevolezza, tant’è che sono già state immaginate diverse modalità per assicurare una rapida risoluzione della crisi di governo. Nel caso ci sarebbe solo da auspicare che si evitino improprie sovrapposizioni tra i ruoli di “capo” del governo dimissionario e il nuovo capo dello Stato. Per questo sarebbe opportuno che a gestire la crisi fosse il presidente uscente nel breve periodo che intercorrerebbe tra l’elezione da effettuarsi prima della scadenza del mandato di Mattarella e l’insediamento del nuovo presidente.

Ma proprio queste considerazioni fanno emergere la questione di fondo. Non può porsi una continuità tra il ruolo svolto dal responsabile della politica generale del governo e quello del custode della nostra Costituzione. Al capo dello Stato spetta vigilare sui governi (e sugli altri poteri), non sostituirsi ad essi. Draghi al Quirinale, in ragione della sua nuova funzione, non potrebbe proseguire le politiche di cui è stato responsabile sino ad ora, dovrebbe cambiare pelle e farsi guardiano. Garantire e non governare.

È questo il presupposto necessario. Lo impone la nostra Costituzione che assegna al capo dello Stato il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale ed esclude che possa essere titolare dell’indirizzo politico maggioritario. Entro questa prospettiva, costituzionalmente orientata, cadono molte delle ragioni contingenti che oggi si propongono a sostegno di una soluzione Draghi.

Rimarrebbero in piedi solo due motivi. Il primo è quello espresso da alcuni esponenti politici, i quali espressamente dichiarano di voler torcere in senso presidenziale la nostra forma di governo. Si giocherebbe con il fuoco e sarebbe questa in realtà una ragione per contrastare questa deriva. L’altro motivo, ben più solido, richiama l’autorevolezza e il prestigio acquisiti nel Paese ed in Europa dall’attuale titolare della presidenza del Consiglio, che rappresentano certamente requisiti necessari per poter svolgere il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale.

Oltre a questi però sarebbe opportuno considerare almeno un’altra caratteristica che deve possedere il garante politico della Costituzione non solo nell’immediato, ma nel più lungo periodo. La capacità di assicurare che i poteri governanti operino nel rispetto della superiore legalità costituzionale, senza le forzature cui spesso assistiamo e che deve avere nel Presidente il suo severo guardiano. Un giuramento di fedeltà alla Costituzione vigente che valga non solo sino alla fine dell’attuale legislatura, ma anche dopo. Soprattutto dopo.