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ECONOMIA. Pechino - cresce al tasso del 4,4% - rappresenterà per il Fmi il 30% della crescita globale nel 2023. Tre volte il contributo Usa che sarà solo dell’1%. E ora l’input cinese è quello green
 

 Un treno sulla tratta della nuova via della seta - Ap

«Ristagno», «rallentamento», «fine di un ciclo». Sono solo alcuni dei termini che circolano in questi giorni a proposito dell’economia cinese. Il perché è presto detto.

NEL SECONDO trimestre di quest’anno, stando ai dati del Nationl Bureau of Statistics (NBS), il pil del Dragone è cresciuto del 6,3% rispetto a giugno dell’anno scorso. Tra aprile e giugno, la crescita è stata invece dello 0,8%.

Un po’ poco, per gli osservatori economici, visto che tra gennaio e marzo l’indice era stato del 2,2%. Per il Financial Times, addirittura, sarebbe questa la ragione del deflusso di capitali dalla Cina verso altre economie asiatiche che si sta registrando in questi mesi (gli afflussi netti nei mercati emergenti dell’Asia hanno superato quelli in Cina per la prima volta dal 2017). Le cause? Certamente le politiche draconiane contro il Covid-19, la crisi del settore immobiliare, l’alta disoccupazione giovanile (i giovani hanno una maggiore propensione al consumo).

Per le autorità di Pechino, nondimeno, tutto questo è in linea con le previsioni (crescita per il 2023 fissata al 5%), perfino «normale», vista la particolare congiuntura internazionale. D’altra parte, anche una crescita al di sotto del 5% farebbe della Cina il motore dell’economia globale nel 2023. Secondo l’Fmi infatti, con un tasso di crescita del 4,4%, Pechino rappresenterà il 30% della crescita aggregata globale per l’anno in corso. Tre volte tanto il contributo degli Usa che, se tutto andrà bene, cresceranno soltanto dell’1%.

E NON BASTA. Leggiamo su Milano Finanza: «Il valore complessivo dell’import-export delle merci cinesi ha superato per la prima volta i 20 mila miliardi di yuan (2,8 trilioni di dollari), con un aumento del 2,1% su base annua, nonostante il periodo di forte rallentamento della domanda internazionale».

Questione di numeri, ma anche di scelte strategiche. La leadership cinese sembra voler conquistare la supremazia in settori innovativi, come quello delle tecnologie green. È un cambio di paradigma, per quella che fino a ieri era «solo» la «più grande fabbrica del mondo», ma soprattutto la fabbrica delle produzioni a basso valore aggiunto. Veicoli elettrici, aerospazio, chip per telefonini, apparecchiature mediche, robotica, componentistica navale, batterie, fotovoltaico.

Un’economia che cresce riqualificandosi, senza l’assillo delle fonti di energia. C’è la Russia per questo, che proprio verso Oriente ha girato i rubinetti del suo gas e del suo petrolio, dopo il crack con l’Occidente. Cina grande player dell’economia mondiale e hub di tecnologie avanzate, insomma. Con cui sarebbe meglio cooperare che scannarsi.

Negli Usa l’hanno ben capito i colossi dell’hi-tech Intel, Qualcomm e Nvidia, che proprio qualche giorno fa hanno chiesto a Biden di togliere le restrizioni all’export di microchip verso Pechino.

Ma cosa significa la Cina per l’Italia?

La nostra economia è storicamente votata all’export. Gli ultimi dati dell’Istat, rivelano che nel trimestre marzo-maggio 2023, questo si è ridotto del 3,3%. Su base annua, l’aumento, in termini monetari, è stato dello 0,9%, al quale, tuttavia, ha fatto da contraltare un -3,6% in volume. Ha pesato il crollo delle esportazioni verso alcuni paesi Ue (-4,2% Germania, – 12,1% Belgio) e verso gli Stati Uniti (-5,8%).

MA FUORI DALLO scacchiere transatlantico è tutta un’altra storia. Se la caduta non è stata rovinosa è perché abbiamo smerciato da un’altra parte. E in particolare verso la Cina (+14,9%), da cui attingiamo anche semilavorati. Un mercato che vale dal 25 al 40% per settori come quello dell’automotive, del lusso, dei beni strumentali. Grande paradosso: gli Usa ci inondano del loro gas liquido, ma per puntellare la bilancia commerciale dobbiamo guardare all’«amico della Russia».

Dobbiamo farlo ma non dirlo. Gli Usa non solo hanno preteso che rinunciassimo al gas russo, ma insistono anche perché il nostro Paese non rinnovi il memorandum sottoscritto nel 2019 con Pechino, nell’ambito della nuova Via della Seta.

Un tema spinoso per la Meloni, che in questi giorni è stata costretta ad ammettere che «la questione va maneggiata con delicatezza». Come stare al governo sotto l’ala protettrice di Washington, senza «disturbare chi vuole fare». Dilemma.

MA DI MEZZO C’È il futuro del nostro Paese, in un quadro europeo che la guerra in Ucraina ha già pesantemente destrutturato (energia, export, crisi tedesca). Facile dirsi «alleati», se poi gli interessi sono così divergenti. I vantaggi del multilateralismo.

Ciò che anche il vecchio Henry Kissinger, ricevuto da Xi Jmping, ha dovuto riconoscere, lasciandosi ad una dichiarazione di mero buonsenso: «La relazione Usa-Cina è di vitale importanza per la pace e la prosperità di entrambi i paesi e del mondo»