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In quasi trecento pagine la Corte d’appello sbriciola l’inchiesta che ha smantellato il modello di integrazione divenuto noto in tutto il mondo. “Nessuna prova di arrembaggio di risorse pubbliche”

A Riace “l’unica mission era aiutare gli ultimi”. I giudici riabilitano Mimmo Lucano e il paese dell’accoglienza

Ma quale associazione a delinquere, alla base del modello Riace c’era l’idea di “perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento dei bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto”. E così c’era tanto “generalizzato disordine amministrativo” che non si può neanche ipotizzare l’esistenza di accordi criminali stabili. Traduzione, non esistevano neanche i presupposti per la demolizione del modello di accoglienza che ha fatto scuola nel mondo e del suo sindaco dell’epoca Mimmo Lucano, dopo la condanna in primo grado a oltre 13 anni di carcere, in Appello assolto da tutte le accuse salvo un falso che gli vale una condanna a 18 mesi con pena sospesa.

 
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Impostazione accusatoria polverizzata

È con quasi trecento pagine di motivazioni che la Corte d’appello di Reggio Calabria demolisce il teorema accusatorio che leggeva Riace come sede di un’associazione criminale e ribalta totalmente la sentenza di primo grado che quell’impostazione prendeva per buona. “Adesso ricomincio a respirare”, aveva detto Lucano, assistito dagli avvocati Andrea Dacqua e Giuliano Pisapia, a pochi minuti dalla clamorosa pronuncia.

"L'esistenza di uno stabile accordo di natura delittuosa - è scritto - nemmeno può essere desunta". In più, sottolineano i giudici, non ci sono e non ci sono mai stati neanche gli elementi per sostenere in giudizio l’esistenza dei singoli reati contestati. Per la truffa aggravata "manca la prova degli elementi costitutivi il reato", mentre le determine per le quali Lucano era accusato di falso ideologico in realtà "non erano funzionali a ottenere le somme del Ministero". Anche tecnicamente scorretta è la contestazione di peculato, cioè l’appropriazione di risorse dello Stato da parte di pubblico ufficiale. “Non è configurabile – ricorda la Corte - per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato". Affermazioni secche, nette, che sbriciolano l’inchiesta costata l’esistenza stessa al “modello Riace” e anni di calvario al sindaco che ne era diventato il simbolo e altri dodici indagati.

 

“La mission di Lucano era aiutare gli ultimi”

Lucano, per anni bersagliato dal ministro Matteo Salvini che lo bollava come “uno zero” – non aveva alcun intento criminale, riconoscono i giudici, al contrario era “certo di poter alimentare una economia della speranza”, il cui unico obiettivo era quella “che più volte ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi”.

 

 

E no, confermano i giudici, in tasca non si è mai messo una lira. “I dialoghi intercettati, in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico suggeriscono di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio 'arrembaggio' alle risorse pubbliche", afferma la Corte. E’ stato lui, nel corso di una conversazione intercettata a dire senza mezzi termini che anche con la riduzione del pocket money i fondi, se messi a sistema, sarebbero stati sufficienti per far star bene tutti e poi – ricordano i giudici – “che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza emersa in un ulteriore dialogo in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avessero cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria”.

Nessun arricchimento personale

Sebbene non sia mai stato trovato uno straccio di prova al riguardo, il Tribunale di primo grado si spingeva ad affermare che "gli investimenti che Mimmo Lucano avrebbe fatto con i soldi avanzati dal progetto di accoglienza per i migranti costituivano, ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale”, le sue tasche storicamente vuote sarebbero state “mera apparenza”. Un assunto, se non un’illazione che “non si condivide” affermano i giudici, sottolineando che “il contesto in cui Lucano ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, “io devo avere uno sguardo più alto”)” devono essere indicatori meritevoli di considerazione.

 

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Sui lungopermanenti il Viminale sapeva

Per altro – si sottolinea – non è possibile ipotizzare che Lucano e i suoi avessero voluto lucrare sui “lungopermenti” – questa una delle principali tesi dell’accusa – permettendo di rimanere in struttura a persone che già avevano esaurito il proprio percorso in accoglienza. Della questione, c'era "la piena consapevolezza, - si legge nelle motivazioni - da parte del Servizio centrale e della Prefettura, della presenza dei cosiddetti lungopermanenti" che, se ci fossero stati "i presupposti di legge andavano al limite espulsi con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco". Insomma, o la cosa era regolare o il primo colpevole va cercato al Viminale.

Troppo disordine perché sia ipotizzabile un’associazione criminale

Impensabile, sottolineano poi i giudici, è ipotizzare che a Riace ci sia stata un’associazione a delinquere stabile. Al contrario, nella storia del paese dell’accoglienza si possono individuare “condotte tra loro isolate – scrivono i giudici – difficilmente collocabili in un disegno unitario e anzi spesso frutto di iniziative tra loro scarsamente coordinate, se non confliggenti”. In più, non solo l’inchiesta e il processo di primo grado, ma anche le precedenti relazioni ispettive “delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni, nonché l’inesorabile procedere delle associazioni in ordine sparso”.

 

 

A fornire “ulteriore e plastica smentita”, sostengono i giudici, “è anche la formale richiesta di una più approfondita ispezione ministeriale, richiesta di cui vi è traccia anche nei dialoghi intercettati, in cui proprio Lucano lamentava il carattere incompleto, poiché meramente documentale”. Insomma, a Riace non c’è mai stata volontà di nascondere o di nascondersi. Bastava voler guardare davvero.