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AUTONOMIA . Respinta la proposta di legge popolare. Mai esaminata in commissione e posposta contro ogni logica alla riforma Calderoli

Due ore per 100mila firme. Il senato liquida i cittadini Comitato di raccolta firme per la proposta di legge popolare sull'autonomia - Ansa

Ieri l’aula del senato ha velocemente esaminato e in due ore bocciato la proposta di legge costituzionale popolare sull’autonomia regionale. È stata una prima prova per il nuovo regolamento di palazzo Madama che, adottato immediatamente dopo la crisi del governo e le dimissioni di Draghi nell’estate del 2022, doveva essere uno strumento indispensabile per consentire il funzionamento della nuova legislatura, la prima con un numero assai ridotto di parlamentari, questa.

Il nuovo regolamento – che la camera non è era riuscita a darsi – doveva servire anche a rendere finalmente operativo uno strumento di democrazia diretta previsto già nella Costituzione accanto al referendum abrogativo, le proposte di legge di iniziativa popolare, ma del tutto inapplicato nella prassi parlamentare. Malgrado richiedano la faticosa (e onerosa) raccolta delle firme, le proposte di iniziativa popolare sono rimaste sempre lettera morta. Con le nuove norme non avrebbe dovuto essere così. Non avrebbe.

È andata diversamente, in breve i fatti. Come parte della campagna contro il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata, Il Coordinamento per la democrazia costituzionale ha proposto una legge costituzionale per modificare in più punti l’articolo 116 della Costituzione, quello che rivisto all’epoca della riforma (del centrosinistra) del Titolo V ha offerto alla Lega e ai presidenti delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna l’appiglio per chiedere la devoluzione di una lunga lista di funzioni e i relativi finanziamenti.

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In pratica con quella modifica costituzionale la riforma Calderoli – che viceversa intende intaccare l’unità dello stato senza passare per la Carta costituzionale – sarebbe diventata impossibile. In sei mesi il Coordinamento ha raccolto più del doppio delle 50mila firme necessarie alla presentazione della proposta, anche perché il nuovo regolamento del senato sembrava offrire una prospettiva concreta all’iniziativa: non solo la commissione di merito deve esaminare il testo avanzato dai cittadini entro un mese dal deposito, ma l’aula deve metterlo all’ordine del giorno e votarlo passati tre mesi.

Il testo è stato depositato a luglio scorso, quando già la commissione discuteva della riforma Calderoli. Ma a novembre Massimo Villone, costituzionalista che i lettori del manifesto ben conoscono e che ha preparato il testo della proposta di legge, ha dovuto scrivere una lettera al presidente della prima commissione del senato Balboni, per sollecitare la trasmissione della proposta di legge in aula. La commissione infatti non aveva fatto passi in avanti, una forma di ostruzionismo di maggioranza contro l’iniziativa popolare. Ostruzionismo continuato in aula, dove il testo è giunto senza relatore, quando la maggioranza ha votato in modo del tutto illogico per anteporre nel calendario la discussione della proposta Calderoli – legge ordinaria – alla proposta popolare, costituzionale e in grado di bloccare l’altra.

E così, approvata tra lo sventolio dei gagliardetti leghisti la legge sull’autonomia differenziata martedì, ieri tra una commemorazione di Gigi Riva e altre varie ed eventuali, il presidente La Russa ha trovato due ore per la discussione della proposta di legge popolare. Liquidata con indifferenza dalla maggioranza mentre Balboni si lanciava in un elogio di Almirante. Poi il voto e la scontata e rapida bocciatura. Fine dei giochi. Tutta qui l’attenzione che il senato ha voluto concedere a 100mila e più cittadini, al loro desiderio di partecipazione e a chi ha proposto la raccolta delle firme e ne ha sostenuto le spese. Alla faccia del nuovo regolamento “aperto”. Una breve storia triste, da ricordare alla prossima discussione sull’astensione dal voto.

 

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ISRAELE/PALESTINA. Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua. Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due […]

La protesta dei familiari degli ostaggi davanti alla Knesset (Foto Ap/Ohad Zwigenberg) La protesta dei familiari degli ostaggi davanti alla Knesset - Ap/Ohad Zwigenberg

Qualcosa sul piano diplomatico si muove, ma a Gaza non è ancora tempo di tregua. Secondo «funzionari anonimi» egiziani sentiti dall’Ap, il governo israeliano avrebbe proposto una pausa di due mesi nella Striscia, la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi nelle carceri israeliani e la possibilità per i leader di Hamas a Gaza di trasferirsi in altri paesi. In cambio Tel Aviv chiede la liberazione di tutti e 130 gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Stando agli stessi funzionari, tuttavia, i rappresentanti di Hamas hanno rifiutato la proposta.

LA NOTIZIA sembra inaspettata. Da un lato, per alcuni significherebbe che il governo Netanyahu non sta considerando soltanto l’opzione tabula rasa, come ripetono continuamente i rappresentanti dell’esecutivo. Ieri il ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, ha dichiarato: «Questa è una guerra che determinerà il futuro di Israele per i decenni a venire: la caduta dei combattenti ci costringe a raggiungere gli obiettivi della guerra».

Anche se Gallant si riferiva specificatamente ai 21 militari israeliani caduti nelle scorse ore, le sue parole non si sono discostate di un millimetro dalla linea dei vertici israeliani. «Sradicare Hamas da Gaza e mettere in sicurezza la Striscia» è il mantra di Netanyahu e del suo governo fin dal giorno seguente agli attacchi terroristici di Hamas.

Tra l’altro il premier ieri ha dichiarato: «La mia aspirazione principale è la vittoria totale, niente di meno». Dall’altro, indicherebbe che forse le pressioni internazionali degli Usa e della comunità internazionale e quelle interne starebbero mettendo in difficoltà Bibi.

LE IMMAGINI dei familiari delle vittime che fanno irruzione in una riunione di commissione al parlamento a Gerusalemme hanno fatto in fretta il giro del mondo. Così come la testimonianza di Aviva Siegel, una degli ostaggi liberati da Hamas che ha raccontato di fronte alla Knesset di aver assistito ad abusi e atrocità subiti dagli ostaggi.

«I terroristi portano vestiti che non vanno bene per le ragazze, le vestono come le bambole. Hanno trasformato le ragazze nelle loro bambole, con cui possono fare quello che vogliono», si legge sulle colonne del Times of Israel. Secondo Siegel gli stupri «toccano anche i ragazzi». E intanto le grandi città israeliane compaiono pià spesso cartelli con il volto di Netanyahu insanguinato e la scritta «dimettiti».

Le stesse fonti anonime egiziane sostengono che Hamas avrebbe rilanciato con la sua nota richiesta: non verranno rilasciati altri ostaggi finché Israele non metterà fine alla sua offensiva e si ritirerà da Gaza. Il motivo è pratico: la proposta israeliana sarebbe per Hamas un suicidio e Tel Aviv, quando l’ha avanzata con un’astuta mossa politica, sapeva già che era irricevibile. Perché senza ostaggi la forza ai tavoli diplomatici del gruppo sarebbe ridotta a zero. Hamas punta a un cessate il fuoco permanente, altrimenti tra due mesi l’offensiva non avrà limite alcuno.

IN OGNI CASO Israele non commenta le indiscrezioni sulle trattative. Ma due conferme indirette ci sono. Secondo la Cnn, il capo del Mossad (i servizi segreti israeliani), David Barnea, avrebbe proposto che i leader di Hamas vengano esiliati dalla Striscia come parte di un più ampio accordo di cessate il fuoco.

Il portavoce del ministero degli esteri del Qatar, Majed al-Ansari, in serata ha aggiunto: «Non posso dare dettagli specifici sulla mediazione in corso ma posso dire che siamo impegnati in discussioni serie con entrambe le parti. Stiamo ricevendo un flusso costante di risposte da entrambe le parti e questo è motivo di ottimismo». Anche se, per ora, l’ottimismo è soltanto il suo

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ALLA CAMERA. In discussione il decreto legge Energia, dopo la passerella della premier a Forlì con von del Leyen. Gnassi (Pd): «Bocciate le risorse per i beni mobili delle famiglie, il credito d'imposta per le imprese, i sostegni all'agricoltura». In Sicilia il governatore Renato Schifani commissario per gli inceneritori

Dopo la passerella di Meloni, via i fondi per gli alluvionati Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni - Ansa

L’attenzione ai romagnoli, vittime delle due alluvioni di maggio 2023, è durato il tempo della passerella a Forlì di Giorgia Meloni con Ursula von der Leyen, la settimana scorsa. Alla Camera ieri mentre le commissioni Ambiente e Attività produttive discutevano la conversione in legge del decreto «Disposizioni urgenti per la sicurezza energetica, la promozione delle fonti rinnovabili, il sostegno alle imprese energivore e in materia di ricostruzione nei territori colpiti dagli eventi alluvionali», sono stati bocciati gli emendamenti pro alluvionati, secondo quanto dichiarato dal deputato romagnolo del Pd Andrea Gnassi.

«IL GOVERNO boccia tutte le proposte di modifica ed emendamenti al dl Energia sugli aiuti per gli alluvionati dell’Emilia-Romagna – ha spiegato -. Bocciate le risorse puntuali e con copertura di spesa per indennizzi dei beni mobili per le famiglie. Bocciata la proposta per il credito d’imposta per le imprese. Bocciata la proroga del pagamento dei mutui con Cassa depositi e prestiti per investimenti pubblici dei comuni colpiti dall’alluvione. Bocciati i sostegni all’agricoltura colpita. Bocciate tutte le proposte per dotare di strumenti idonei e personale i comuni proprio per usare le risorse del Pnrr», anche perché, senza personale capace di progettare, le frane resteranno tali e le aziende agricole continueranno a faticare, spesso ancora impossibilitate a raggiungere i propri campi.

È IL BICCHIERE MEZZO VUOTO, a cui si accompagna la volontà di mettere un commissario alla gestione dei rifiuti in Sicilia, nominando il presidente della Regione Renato Schifani, che avrebbe l’incarico di realizzare degli inceneritori, un vecchio ed eterno piano del centrodestra che ritorna dopo una quindicina d’anni, una specie di evergreen come il Ponte sullo Stretto. L’emendamento, presentato dai relatori, ha scatenato reazioni per tutto il pomeriggio: il voto positivo era atteso in tarda serata.

LA DISCUSSIONE degli emendamenti porta però anche aspetti salutati con gioia dalle forze progressiste. La più importante è che le due Commissioni hanno ritirato l’emendamento di Fi al dl Energia che puntava a dare all’Isin (Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare) compiti autorizzativi per le nuove centrali nucleari. E se Bonelli (Avs) parla di stop importante «alle follie del governo Meloni» in coerenza con quanto gli italiani hanno «deciso con ben due referendum», il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini suona lo stesso spartito di sempre, intervenendo a un evento di Confindustria: «Non possiamo dire pregiudizialmente no al nucleare come fonte di produzione energetica perché siamo circondati da paesi che hanno un costo dell’energia ben più basso rispetto al sistema industriale italiano».

IL DEPUTATO e responsabile del Dipartimento energia di Fi, Luca Squeri, ha smorzato: «Sono stato invitato a ritirare l’emendamento semplicemente per complicazioni di tipo normativo», attaccando poi Bonelli per «il suo ultra ambientalismo fuori dal tempo e dal mondo» che sarebbe stato «bocciato dai cittadini e dai fatti». Fino a prova contraria, però, ai due referendum sul nucleare al momento ha prevalso la posizione vicina a Bonelli.

TRA GLI ALTRI TEMI discussi ieri, lo stop al contributo annuo da 10 euro/kW posto a carico dei titolari di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di potenza superiore a 20 kW, visto bene anche da Confindustria Energia, e l’allargamento a tutto il territorio nazionale della possibilità di individuare porti in cui poter realizzare le piattaforme galleggianti e le relative infrastrutture per l’eolico offshore, due dei quali nel Mezzogiorno. Obiettivo: puntare al raggiungimento dell’autonomia energetica nazionale anche attraverso una filiera industriale legata alla produzione di energia eolica. Sarà infine possibile produrre energia elettrica nelle aree termali sfruttando le risorse geotermiche, se questo non arreca problemi alle caratteristiche delle acque termali

 

 

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STATE SERENISSIMI. ll ddl Calderoli è già arrivato in Europa. I comitati contro l’autonomia hanno discusso con la Commissione ad hoc del Parlamento europeo la petizione contro l’autonomia differenziata. «L’incontro è stato […]

La manifestazione in piazza del Plebiscito a Napoli contro l'autonomia differenziata foto Ansa Manifestazione in piazza del Plebiscito a Napoli contro l'autonomia differenziata - foto Ansa

ll ddl Calderoli è già arrivato in Europa. I comitati contro l’autonomia hanno discusso con la Commissione ad hoc del Parlamento europeo la petizione contro l’autonomia differenziata.

«L’incontro è stato imperniato -spiega Franco Russo- sul pronunciamento sul ddl Calderoli da parte del Commission Staff che, nel suo Working Document del 24 maggio 2023 afferma: “Questa riforma pretende di essere ’neutrale’ per il bilancio delle amministrazioni pubbliche. Tuttavia, senza risorse aggiuntive, potrebbe rivelarsi difficile fornire gli stessi livelli essenziali di servizi in regioni con una spesa storicamente bassa, anche a causa della mancanza di un meccanismo di perequazione”».

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«Il Parlamento europeo- dice Russo- può intervenire sia interloquendo con quello italiano, sia per attivare la Commissione perché verifichi come vengono impiegati i fondi strutturali al fine di superare i divari territoriali e sociali».

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RIFORME. La maggioranza lavora al ddl Casellati, unica certezza l'elezione diretta del presidente del Consiglio. Sulle regole che disciplineranno i rapporti con il parlamento e il premio di maggioranza ancora buio fitto. Le opposizioni lavorano all’alternativa: il cancellierato alla tedesca

 Maria Elisabetta Casellati - Ansa

Sul premierato la maggioranza ha le idee chiarissime. Anzi confuse, tanto da decidere di far slittare di qualche giorno il temine per presentare gli emendamenti in commissione Affari costituzionali del Senato. Non si tratta di una contraddizione, nel senso che le idee sono politicamente molto chiare sul fatto che una riforma con l’elezione diretta del premier si farà, ed è l’unica cosa certa; tuttavia c’è invece ancora confusione su tutto il resto del ddl di riforma Casellati, che verrà cambiato profondamente, sebbene in modi su cui c’è tuttora nebbia.

In ogni caso ieri si è conclusa in Commissione la discussione generale sulla riforma, e si è anche svolto una riunione di Fdi, mentre stamattina ci saranno le repliche del relatore, e presidente della Commissione, Alberto Balboni, e della ministra Casellati; seguirà un vertice di maggioranza proprio in vista degli emendamenti che, è stato ribadito, saranno comuni a tutta la maggioranza. Questi dovranno essere depositati il 31 gennaio e non più il 29. Significative sono anche le riflessioni che le opposizioni stanno cominciando a fare, visto che la loro idea è di presentare non solo emendamenti singoli al ddl Casellati ma anche una proposta alternativa complessiva, in sostanza il cancellierato alla tedesca. Si tratta di un percorso fondamentale visto che la maggioranza sembra voler correre verso il referendum e sarà fondamentale presentarsi nel dibattito pubblico con una proposta alternativa e non come sostenitori dello status quo.

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I diversi interventi della maggioranza durante tutta la discussione generale (i capigruppo in Commissione Marco Lisei di Fdi, Mario Occhiuto di Fi, Paolo Tosato, oltre ad Andrea De Priamo, anch’egli meloniano) e Balboni in un importante convegno alla Sapienza con alcuni costituzionalisti lo scorso giovedì, hanno spiegato che il ddl Casellati sarà riscritto, ma di certo rimarrà l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Questo è un elemento da tener presente da parte di chi, anche nella parte riformista del Pd e nel mondo accademico, si illude che se dopo le elezioni Europee del 9 giugno ci saranno scossoni politici (sia a destra che a sinistra), il centrodestra possa riaprire il confronto sulle riforme, su una soluzione che mantenga il regime della Repubblica parlamentare. L’elezione diretta è una bandiera, ed è «irrinunciabile»; il resto è intendenza e, come diceva De Gaulle, «suivra», seguirà. Vista questa impostazione il centrodestra sta ragionando sulle indicazioni di alcuni giuristi che, favorevoli all’elezione diretta del premier, hanno segnalato alcuni svarioni.

Il primo punto su cui si sta ragionando è quello che rende addirittura incostituzionale il ddl Casellati: si tratta della previsione che l’elezione del Parlamento sia «trainata» da quella diretta del premier, con conseguente fine della separazione dei poteri. Certamente verrà tolto dal testo l’indicazione di un premio di maggioranza del 55%, per mantenere solo il principio, ma si sta esaminando anche la possibilità di inserire una forma per separare relativamente l’elezione diretta del premier e l’elezione del Parlamento, pur mantenendo collegati i due momenti. Questa soluzione, tuttavia, implicherebbe che il premier debba essere eletto con una maggioranza del 50% dei consensi, con il ricorso a un secondo turno se tale quorum non viene raggiunto nel primo, scenario che non piace a Lega e Fi. Il vantaggio di tale soluzione sarebbe che nella legge elettorale si potrebbe inserire l’attribuzione del premio di maggioranza alla coalizione che raggiunge una soglia relativamente bassa, come quella del 40%, indicata nella sentenza 1/2014 della Corte costituzionale, non rischiando l’illegittimità complessiva delle norme.

Questa sarebbe la modifica più sostanziosa. In subordine, se non verranno ascoltati i giuristi (come sembra probabile), si manterrà il meccanismo previsto dal ddl Casellati, espungendo solo l’indicazione della cifra del 55%. Balboni ha annunciato al termine della riunione di Fdi che presenterà sette emendamenti a nome di tutta la maggioranza: Verrà limata o abrogata la norma antiribaltone (limitandola al solo decesso o anche alla rinuncia del premier?), proposto un limite di due mandati per il candidato premier e rafforzati i poteri del premier. Ancora in alto mare il tema della fiducia all’inizio di legislatura al governo: tale meccanismo, voluto dalla Lega, permette ai partiti della coalizione di contrattare con il premier eletto sulla squadra di governo. Ed è questo il punto su cui la maggioranza si confronterà nel vertice di oggi

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STATE SERENISSIMI. La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa […]

 Matteo Salvini e Giorgia Meloni - LaPresse

La coincidenza del trentennale della «discesa in campo» di Berlusconi con il primo voto favorevole all’autonomia differenziata incornicia la destra italiana. Pulsioni secessioniste ed egoistico-nordiste del genere padroni in casa nostra c’erano anche allora, trent’anni fa. E anche allora la Lega (Nord) di Bossi non legava bene con i patrioti post missini di Fini (tra i quali una giovane Meloni, ammiratrice dichiarata del pochissimo federalista Mussolini). Berlusconi inventò una doppia alleanza, diversa anche nei simboli al Nord e al Sud. Trovata ottima per conquistare il potere ma zoppicante per governare, eppure capace in forme più o meno coerenti di durare un ventennio.

Tra la retorica nazionalista e l’indipendentismo padano l’intesa non è mai stata e mai potrà essere strategica, fondata su una razionalità politica o un programma di riforme realizzabili. Ma è stata e continua a essere un’intesa consolidata da convinzioni comuni: l’egoismo dei ricchi, il merito come privilegio dei favoriti, la solidarietà come carità, le tasse come un balzello, il denaro come misura del valore di tutto, il potere pubblico come un’oppressione. Nell’insieme un’ideologia reazionaria che nel regionalismo differenziato trova adesso una forma nuova. Non si chiama più secessione o devoluzione ma è la stessa cosa.

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