ADDIO ALLE ARMI A dieci anni dall’ultima lettera, il fondatore del partito curdo manda un messaggio al suo popolo e alla Turchia: è tempo di pace
«Convocate il vostro congresso e prendete una decisione; tutti i gruppi devono deporre le armi e il Pkk deve sciogliersi». È la voce di Ahmet Türk a leggere, in curdo, la lettera di tre pagine che Abdullah Ocalan, storico fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ha consegnato nelle mani della delegazione del partito Dem nell’isola-carcere di Imrali. Quando Türk termina, passa il microfono alla co-presidente del Dem, Pervin Buldan. Sarà lei a leggere le stesse pagine, in turco: il messaggio è chiaramente diretto ai due protagonisti di quasi cinque decenni di scontro, repressione coloniale e lotta armata, il Pkk e la Turchia.
L’appello lanciato da Devlet Bahceli ha creato le condizioni: chiedo di deporre le armi e me ne assumo la responsabilità storicaAbdullah Ocalan
LE PAROLE, attese da dieci anni, dall’ultimo messaggio del leader curdo, risuonano nella sala dell’Elit World Hotel di Istanbul. Di fronte alla delegazione dei sette membri del Dem appena rientrati da Imrali, non c’è una sedia vuota. Attendono tutti, in silenzio.
Poi, sullo schermo, appare la foto di Apo: è seduto circondato dalla delegazione, indossa una giacca blu e un golf rosso scuro. In mano tiene dei fogli, lo sguardo è dritto in camera. Una foto storica, il volto del leader più amato si infila nelle menti di chi negli ultimi dieci anni poteva solo immaginarselo e ora lo guarda dai maxi schermi nelle piazze puntinate di bandiere gialle a Diyarbakir e Van, nelle assemblee popolari dell’ezida Shengal, nello stadio 12 Marzo di Qamishlo in Siria, nel campo profughi di Makhmour in Iraq, l’embrione da cui tutto è risorto, trent’anni fa. Un maxi-schermo è comparso anche a Berlino, a Pariser Square.
Il suo messaggio è altrettanto storico: Ocalan invita il suo movimento ad avviare una discussione interna che conduca ad abbandonare le armi e a dissolversi. Il leader alla soglia dei 76 anni, prigioniero politico da 26, prosegue così in un percorso politico rivoluzionario, che ha portato il Pkk a trasformarsi, a partire dalla fine degli anni Novanta, da movimento nazionalista e socialista che sognava uno stato al fautore di un nuovo modello, quel confederalismo democratico che ha rinunciato all’idea fallace dello stato-nazione come strumento di autodeterminazione. Ha dato a milioni di persone mezzi di partecipazione diretta alla cosa comune e una prospettiva di convivenza come alternativa strutturale alle divisioni settarie imposte dai regimi mediorientali e dagli alleati occidentali.
IN QUELLE tre pagine Ocalan ricostruisce passo per passo l’evoluzione del movimento che creò alla fine degli anni Settanta e che imbracciò le armi nel 1984: «Il Pkk è nato nel XX secolo, nell’epoca più violenta della storia dell’umanità, tra le due guerre mondiali, all’ombra dell’esperienza del socialismo reale e della guerra fredda nel mondo. La negazione della realtà curda, le restrizioni ai diritti e alle libertà fondamentali hanno giocato un ruolo significativo nella sua nascita e nel suo sviluppo», scrive.
«Il Pkk, l’insurrezione e il movimento armato più lungo ed esteso nella storia della Repubblica (turca), ha trovato base sociale e sostegno ed è stato ispirato principalmente dal fatto che i canali della politica democratica erano chiusi», prosegue. Fino ad arrivare alla realtà di oggi, figlia delle pratiche confederali che hanno avuto la loro culla nel campo profughi di Mahkmour, in Iraq, e sono poi maturate nell’esperienza del Rojava, in Siria.
«IL LINGUAGGIO dell’epoca della pace e della società democratica deve essere sviluppato in base a questa realtà – conclude Ocalan – L’appello lanciato da Devlet Bahceli, insieme alla volontà espressa dal presidente, ha creato le condizioni per cui lancio una richiesta a deporre le armi e me ne assumo la responsabilità storica». Fa un riferimento diretto all’uomo politico che in pochi si sarebbero aspettati potesse vestire i panni del negoziatore: Bahceli, il leader dell’Mhp, il partito ultranazionalista che siede al governo e che ha fatto della lotta all’autodeterminazione curda una delle chiavi del proprio discorso politico.
È al governo turco, a Bahceli come al presidente Erdogan, che Ocalan ieri ha passato la palla: tocca a loro dimostrare che si è estinto davvero quel «ruolo storico» del Pkk che il suo fondatore ritiene terminato. Dimostrare che l’abbandono delle armi e il dissolvimento del partito possano sfociare in una pace democratica e giusta. Gli eventi delle ultime settimane non fanno ben sperare: mentre al Dem veniva permesso di proseguire nel lavoro di tessitura e di dialogo con il Pkk a Imrali, Ankara continuava a commissariare i comuni curdi e trascinare in carcere centinaia di attivisti, politici, giornalisti, intellettuali.
E poi c’è il Pkk e il congresso che verrà. Il partito ha fatto della lotta armata uno degli strumenti pratici di avanzamento della teorizzazione politica, con la lotta all’Isis in Rojava e a Shengal e la liberazione dall’occupazione islamista.
LE DOMANDE sono molte: quale sarà il risultato della discussione interna al Pkk, quanto sarà pesante – o fragile – il consenso intorno alla nuova trasformazione che il fondatore gli chiede, quale sarà il futuro di una forza che ha segnato il destino di milioni di persone, curdi, arabi, ezidi, turkmeni, assiri, siriaci, e ha mostrato che un’alternativa ai regimi nazionalisti è possibile.
Commenta (0 Commenti)Alta adesione allo sciopero dei magistrati contro la riforma Nordio. «La separazione delle carriere e il sorteggio per il Csm minacciano l’autonomia, avremo pm controllati dall’esecutivo». Meloni per raffreddare lo scontro ha poco da offrire: sorteggio sì, ma temperato
VIZIO DI RIFORMA Vertice a palazzo Chigi: apertura al confronto per smentire la guerra ai magistrati
L’ordine parte dalla premier in persona ed è comunque solo la conferma di una linea già adottata: Dialogo, Dialogo, Dialogo. Mentre i magistrati incrociano le toghe per protesta, la premier riunisce lo stato maggiore ed è tassativa. La riforma della giustizia non deve apparire come punitiva nei confronti della magistratura. Bisogna rassicurare gli elettori. Con lei ci sono il guardasigilli Carlo Nordio, i due vicepremier Salvini e Tajani, Maurizio Lupi e il sottosegretario Alfredo Mantovano. A incaricarsi di sbandierare l’apertura più di ogni altro è Antonio Tajani, leader di Forza Italia e dunque principale sponsor della riforma. Risponde in aula al question time e abbonda in rassicurazioni: «Non ci sarà mai nessun tentativo di mettere i magistrati sotto l’ala del governo. Non vogliamo assolutamente travalicare i confini del potere esecutivo». La riforma, fa filtrare palazzo Chigi, «non è contro i magistrati ma nell’interesse dei cittadini». Poi sempre Tajani allunga il ramoscello d’ulivo: «Noi siamo pronti al confronto. Vedremo richieste e proposte e poi si vedrà».
Per confermare la volontà di «confronto costruttivo» il 5 marzo la presidente del consiglio vedrà l’Anm ma anche le Camere penali, gli avvocati. Mossa abile dal momento che mentre l’Associazione nazionale magistrati insisterà per cassare in blocco la separazione delle carriere le camere penali insisteranno con identica foga per mantenerla intatta. Sempre per evitare di gettare benzina sul fuoco i commenti sullo sciopero sono ridotti all’osso. Ma la Lega, a differenza dei centristi, non abbassa i toni. I ministri si adeguano e non mitragliano. L’ex magistrata Simonetta Matone, per il Carroccio, spara a zero: «Lo sciopero è un’offesa all’Italia. Le toghe che usano la Carta per attaccare il governo non la hanno letta o non la hanno capita».
Cosa può offrire Giorgia Meloni ai magistrati? Poco. La linea continua a essere quella già
Leggi tutto: La premier promette dialogo. Ma è un falso movimento - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente Nell'editoriale del nuovo numero della rivista Italianieuropei, l'ex presidente del consiglio individua in nuove elezioni, in Israele e Palestina, una possibile via d'uscita
«Una destra razzista ha preso il comando in Israele e persegue con la forza delle armi l’idea di una “soluzione finale’ della questione palestinese».
Massimo D’Alema, nell’editoriale all’ultimo numero della rivista Italianieuropei dedicato al conflitto israelo palestinese, «Una pace giusta», non lesina le accuse al governo Netanyahu, definendo «fasciste» le esternazioni di alcuni ministri e ricordando «l’impasto nazionalista e razzista anti-arabo che si è radicalizzato nella società israeliana».
Secondo D’Alema, solo nuove elezioni in Israele e Palestina possono riaprire un percorso di pace. «Israele non può identificarsi con l’immagine di massacratori e torturatori che oscura le ragioni di quella che è stata a lungo ammirata come l’unica democrazia del Medio Oriente».
Lo stesso ricambio è necessario tra i palestinesi, come l’emergere di leader «non compromessi con il terrorismo fondamentalista». L’ex premier invita l’Ue a fare «pressioni» su Israele affinché accetti «una forza di pace internazionale a Gaza». Una tesi, quella che prevede una «pressione internazionale» sulle due parti, condivisa nel suo articolo anche dall’ex premier Ehud Olmert.
Commenta (0 Commenti)Almeno una decina di magistrati della Procura di Ravenna, compreso il Procuratore della Repubblica, Daniele Barberini, stanno partecipando da questa mattina alle 9 all’iniziativa voluta dall’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) per la giornata di oggi, giovedì 27 febbraio.
Non un vero e proprio sciopero, ma comunque una giornata di astensione dalle consuete attività giudiziarie per i magistrati, che ne hanno però approfittato per aprire le porte di uno dei palazzi meno consueti della città per i comuni cittadini. Quello di giustizia per l’appunto, dove per entrare servono rigidi controlli e che abitualmente è frequentato solo dagli “addetti ai lavori”.
Oggi invece, i magistrati si mettono a disposizione dei cittadini, per incontrarli, instaurare un dialogo, parlare di giustizia e dei rischi che potrebbero concretizzarsi con l’eventualità di approvazione della riforma sulla separazione delle carriere.
L’evento andrà avanti per tutta la giornata, e costituisce un’occasione fin qui più unica che rara per avere informazioni di prima mano sul tema. L’argomento è delicato e molto tecnico. Si potrebbe dire, uno di quelli che meno si prestano a suscitare la curiosità della gente. Ma non per questo poco importante, anzi. I temi messi sul banco nella mattinata dai magistrati ravennati hanno a che fare con tutti noi, nel momento in cui dovessimo ritrovarci come parte offesa in un processo, tanto più se dall’altra parte dovesse esserci qualcuno con un ruolo di potere. Avere la garanzia di essere giudicati da un magistrato indipendente, il cui giudizio è legato all’applicazione della legge e non condizionato dalle pressioni che può subire dall’esterno, diventa decisamente rilevante. Ecco che il concetto astratto di “indipendenza della magistratura”, diventa immediatamente concreto.
E ancora, i magistrati hanno spiegato come il progetto di riforma sulla separazione delle carriere non sia una vera e propria riforma della giustizia, in grado di affrontare i problemi che effettivamente affliggono il sistema italiano, come quello della lunghezza dei processi. Non ci sarebbe nessun effetto in questo senso, ma nella discussione grossolana, spesso i due temi vengono più o meno involontariamente intrecciati, ingenerando confusione.
Per farsi un’idea propria sul tema, basata su fonti autorevoli quali i magistrati stessi, invitiamo caldamente i cittadini ad approfittare dell’evento, ponendo domande o anche semplicemente ascoltando cosa i magistrati hanno da dire.
Commenta (0 Commenti)«È come fare testa o croce in una partita truccata: se esce testa perdi tutto, se esce croce perdi tutto e non ti puoi neanche lamentare». Una vecchia conoscenza nelle istituzioni ucraine ci spiega così la sua visione del contesto attuale dopo l’annuncio che Zelensky venerdì sarà a Washington per firmare l’Accordo sulle terre rare con gli Usa senza aver ottenuto ancora alcuna garanzia di sicurezza. Qualche ora dopo il ministro degli Esteri russo Lavrov ha dichiarato che oggi si terrà a Istanbul il secondo incontro tra le delegazioni del Cremlino e della Casa bianca. L’Ucraina non è stata invitata neanche stavolta e la nostra fonte ci invia un messaggio: «Te l’avevo detto».
AL DI LÀ DELL’UMORE nero di molti alti funzionari di Kiev, è innegabile che la risoluzione della guerra in Ucraina si è trasformata in una questione economica. Ci sono già, e il loro numero cresce, schiere di commentatori più o meno improvvisati che annunciano apparentemente soddisfatti che era ovvio che andasse così, che già si sapeva e che chiunque abbia pensato anche solo per un secondo il contrario era nel migliore dei casi un ingenuo. Ma chi poteva immaginare che Donald Trump avesse in serbo per l’Ucraina il metodo dell’intimidazione e che avrebbe trattato Zelensky come un ostacolo al buon esito di una speculazione miliardaria? La stampa statunitense ha anche coniato una definizione per questo atteggiamento, transactional diplomacy, che potremmo tradurre più o meno con «diplomazia della compravendita». Il New York Times si spinge oltre e definisce le pressioni di Washington per la firma dell’Accordo sulle terre rare come «una diplomazia da ‘racket della protezione’».
TRUMP se ne frega, letteralmente e senza paura di nasconderlo. «Gli Stati uniti hanno bisogno di terre rare e l’Ucraina ne ha», ha dichiarato ieri il tycoon sottolineando sia che «è un’intesa molto buona anche per l’Ucraina» sia che «mi piacerebbe comprare anche i minerali in terra russa, se possibile». Anche in questo secondo caso, per Trump, si tratta di «un’ottima cosa anche per la Russia, perché potremmo fare affari lì». La costante è che non appena il presidente fiuta un affare inizia a dire che si tratta di qualcosa di molto vantaggioso per chi dovrebbe cedere alle sue richieste e quando ciò non avviene, come con Zelensky la settimana scorsa, passa agli insulti. Sull’ultima ipotesi, tuttavia, Trump ha specificato di non averne ancora parlato con Vladimir Putin.
Chissà se il tema verrà trattato oggi a Istanbul. «Penso che i risultati di questo colloquio mostreranno quanto velocemente ed efficacemente possiamo andare avanti» ha dichiarato
Leggi tutto: Il banco vince tutto: Zelensky vola in Usa e cederà le terre rare - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)Guerra ucraina Mosca e Washington sarebbero pronti a estrarre insieme le risorse dell’Ucraina. Zelenky: «Direi di sì agli Usa solo in cambio di protezione». Intanto il parlamento di Kiev vota quasi all’unanimità (e fa infuriare Musk): il presidente resta anche senza elezioni
La conferenza stampa del presidente ucraino Zelensky dopo l’incontro «Ukraine. Year 2025» – President of Ukraine Press Office
Mosca e Washington potrebbero collaborare sull’estrazione e la raffinazione delle terre rare. Siamo a un passo dall’assurdo. Non solo gli Usa stanno in tutti i modi tentando di obbligare Kiev a firmare un accordo che potrebbe accollare alle future generazioni di ucraini 500 miliardi di dollari di debiti, ma addirittura il Cremlino ora si offre di cooperare con le aziende statunitensi per sfruttare le materie prime di cui, secondo le parole del portavoce di Putin, l’America ha bisogno e la Russia dispone in misura già sufficiente.
SE COME ha dichiarato il presidente francese Macron lunedì da Washington «la tregua in Ucraina potrebbe essere raggiunta in qualche settimana», non parliamo di un futuro lontano per l’inizio di questa collaborazione. Gli ucraini sono preoccupati, lo erano già quando il prepotente di turno era solo il presidente dal ciuffo rosso, e peggio ora che si aggiunge Putin.
Per questo l’indiscrezione diffusa dall’agenzia Afp lunedì, secondo la quale l’Unione europea avrebbe offerto a Kiev un proprio accordo sui minerali e le terre rare definendolo un «partenariato vantaggioso per entrambe le parti», ha creato grandi aspettative.
Il caso è nato dalle parole che Stephane Séjourné, commissario europeo per la strategia industriale, avrebbe pronunciato in occasione della sua visita nella capitale ucraina il 24 febbraio. Tuttavia, il portavoce della Commissione europea Thomas Regnier ieri ha negato al Kyiv Independent che l’Ue abbia fatto qualsiasi offerta concorrente a quella degli Usa.
Il portavoce ha spiegato che dal 2021 l’Ue ha un partenariato strategico con l’Ucraina sulle materie prime e ha confermato che Séjourné ha effettivamente avuto degli incontri con i rappresentanti del governo ucraino, ma solo per «ribadire l’impegno europeo ad attuare il memorandum». I commenti sotto l’articolo sono sconsolati, molti dei lettori della testata ucraina ci avevano sperato.
TRUMP ha ribadito che l’accordo va firmato al più presto perché «aiuterà l’economia ucraina», ma non è chiaro come visto che tutti gli introiti andranno agli Usa, e permetterà al suo Paese di «recuperare le decine di miliardi di dollari e le attrezzature militari inviate all’Ucraina». Il presidente statunitense ha ripetuto ancora una volta che «potrebbe incontrare presto» Zelensky a Washington per firmare l’accordo.
È almeno la terza volta che il tycoon rilascia una dichiarazione del genere. Tanto che domenica, alla conferenza organizzata per la stampa internazionale a Kiev, il presidente Zelensky aveva anche ironizzato: «Continua a dirmi: ‘vieni, ti aspetto’ – allora io gli chiedo ‘quando?’ e lui risponde sempre evasivamente ‘potrei avere una finestra libera da… a…’». La platea ha riso osservando la smorfia dubbiosa del leader ucraino, ma al di là della battuta, le dichiarazioni della Casa bianca sono suonate davvero come un invito di cortesia a qualcuno che in realtà non si vuole incontrare.
Nella stessa sede Zelensky è diventato serissimo quando si è parlato di accordi commerciali. «Non esiste alcun debito di 500 miliardi con gli Usa, su questo voglio essere chiaro. Tale cifra è frutto di non so quali congetture. Ma ammettiamo che gli Stati uniti volessero da noi anche solo 100 miliardi, io non firmerei lo stesso. Nessuno è mai venuto da noi a dirci: ‘eccovi le armi, questa è la cambiale’. Non posso accettare che ciò che ci è stato fornito come sovvenzione ora sia trasformato in un debito perché semplicemente non-è-così».
L’ultima frase Zelensky l’ha scandita al rallentatore. Voleva che la stampa internazionale non equivocasse in alcun modo. Però, ha aggiunto poco dopo, «se in cambio di quella firma ci fossero fornite delle garanzie di sicurezza chiare che ci proteggessero da future invasioni o attacchi russi sarei disposto a rivedere la mia posizione».
E per chi non l’avesse capito ancora: «L’accordo sulle terre rare e qualsiasi intesa commerciale che firmeremo saranno realizzati solo con i partner e solo in cambio di garanzie di difesa, questo è ciò che ci serve». In serata il Financial Times ha dato l’Ucraina pronta a firmare l’accordo sulle terre rare con gli Usa.
Non solo, a Kiev servono anche molti fondi. Ieri una commissione mista formata da membri del governo ucraino, di Bce, Ue e Onu ha pubblicato una nuova stima sul costo della ricostruzione e della ripresa in Ucraina nel prossimo decennio: almeno 524 miliardi di dollari.
PER METTERE in sicurezza i prossimi mesi, intanto, il parlamento ucraino ha votato a larga maggioranza (268 voti su 280) una risoluzione per far restare al potere Zelensky «finché la guerra della Russia continua». Nuove elezioni si potranno ottenere solo «una volta che sarà raggiunta la tregua». «Indite le elezioni!» ha postato Elon Musk su X in risposta alla pubblicazione del voto.
Un contesto del genere non può che preoccupare la stampa locale.
Ha fatto molto discutere un lungo articolo di ieri che paragona le decisioni di Trump sull’Ucraina al «completo disastro» nelle trattative con i talebani afghani: «Resa al nemico e abbandono degli alleati sul campo». A Kiev è comune sentir dire che non sa in che guaio si stia mettendo il presidente Usa, che sarà usato da Putin e che alla fine la tregua salterà. Ma sono le opinioni degli afghani; per i talebani, invece, è il momento di fregarsi le mani.
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