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EUROPEE. Il giornalista presenta la lista promossa con Raniero La Valle. Rifondazione: «Noi ci siamo»

Michele Santoro, foto LaPresse Michele Santoro - LaPresse

Una colomba con il ramoscello di ulivo su sfondo rosso e la scritta «Pace, terra, dignità»: è questo il simbolo davanti al quale Michele Santoro e Raniero La Valle si presentano per annunciare il programma della lista della quale sono promotori. Il quadro disegnato dal giornalista e conduttore per le europee di giugno è il seguente: non ci sarà travaso di voti tra maggioranza e opposizioni, i due schieramenti si limiteranno a qualche riequilibrio interno e l’astensione è destinata a crescere ulteriormente. Dunque, è il ragionamento, c’è bisogno di un soggetto nuovo che irrompa nell’agone elettorale. E il tema attorno al quale radunare i forgotten della politica attuale è proprio la pace.

Per La Valle, i conflitti sanguinosi in Ucraina e in Palestina rappresentano la «soglia di non ritorno»: «Abbiamo lasciato che sia la guerra a decidere – sostiene lo storico esponente pacifista – non secondo un criterio di verità ma di autorità. L’intero sistema è diventato di dominio e guerra. Gaza è il risultato mondiale, massimo, della spietatezza, dell’eliminazione del nemico fin dalla culla. E il mondo dice che quello che fa Israele è giusto. Al massimo chiede una giusta ‘proporzione’, come se si dovessero calcolare meglio costi e ricavi. Quando si arriva a questa contabilità l’anima del mondo è perduta. Ma qualcosa possiamo ancora fare».

Che l’idea di Santoro sia figlia della sua esperienza da uomo di comunicazione lo si capisce chiaramente quando evoca «l’opinione pubblica che irrompe e cambia la scena politica». «Stiamo costruendo un vettore per portare al centro delle europee la pace – prosegue – Siamo qui per impedire che in campagna elettorale di parli di tutto tranne che della guerra». Con chi? «Non partiamo dalle nostre idee – spiega – ma da quelle di tutto il campo che si è schierato contro la guerra. La nostra è una proposta aperta e sono sicuro che Unione popolare la accoglierà». Il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo replica a stretto giro: «Proponiamo dalla scorsa estate di unire il fronte pacifista e abbiamo confermato domenica scorsa con il voto del nostro Comitato politico nazionale la nostra disponibilità a partecipare al progetto di una lista di scopo. Lavoriamo con Luigi de Magistris per la partecipazione di tutta Up sulla base di un programma condiviso».

Santoro avverte: «Non vogliamo fare un partito della sinistra o rifondare nulla, noi vogliamo dichiarare guerra alla guerra. Dunque chi verrà eletto in questa lista deve rispondere a questo compito e tornare ai partiti di appartenenza». E Alleanza Verdi Sinistra? «Ho detto a Fratoianni e Bonelli che anche se non capisco come si schierano sulla guerra che non li viviamo come avversari ma come possibili interlocutori futuri. Noi siamo aperti a tutti quelli che sono contro la guerra fino all’ultimo momento utile». Il messaggio è rivolto a Sinistra italiana: «Insieme a loro potremmo arrivare a prendere più del 6% – dice ancora – Sarebbe un risultato che potrebbe riaprire la speranza in questo paese».

Ci sono le firme da raccogliere. Pare un tecnicismo, ma è anche faccenda di sostanza politica. Santoro assicura che, accordo con Rifondazione o no, accetta la sfida: «Vogliamo essere autonomi. Se non dovessimo farcela significherebbe che il nostro progetto non interessa a nessuno». Peraltro, ciò comporta che vanno preparate le liste: «Dateci due settimane, e saprete chi candideremo». I nomi che circolano, oltre a quelli dei due promotori: l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano («Si batte per esito unitario della lista. Se vorrà candidarsi ne saremo onorati»), l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, l’europarlamentare uscito dal M5S Piernicola Pedicini. E anche Ilaria Salis: «In questo momento lei non è condannata – dice Santoro – Se volesse candidarsi alle europee potrebbe farlo. Ma sta a lei decidere»

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DISEGNO DI LEGGE SUL PRESIDENZIALISMO. L’ex presidente del Senato, eletto con Fdi, ha reso evidente il proprio dissenso. Le correzioni al ddl prevedono il rafforzamento dei poteri di opposizione e Presidente della Repubblica

 Maria Elisabetta Casellati e Roberto Calderoli - Fabio Frustaci /Ansa

Marcello Pera, dopo aver criticato – per usare un eufemismo – il ddl Casellati in ripetute occasioni, ha deciso di «parlamentarizzare» il proprio dissenso dalla linea della maggioranza e di Fdi, il partito con cui è stato rieletto in Senato.

Sono dunque giunti in Commissione Affari costituzionali del Senato due suoi emendamenti al premierato: pochissimi ma significativi, perché parlano più di quello che dicono.

Il termine per i sub emendamenti era scaduto la scorsa settimana, e il presidente emerito del Senato aveva riferito ai cronisti l’intenzione di non volerne presentare alcuno. Tuttavia lo ha fatto, e una volta pubblicato il fascicolo delle proposte di modifica (oltre 2.600), i cronisti hanno potuto constatare la presenza delle due di Pera.

VOLENDO SINTETIZZARE il significato istituzionale e politico dei due testi, si può dire che rafforzano i poteri del Presidente della Repubblica e di quelli delle opposizioni, prevedendo addirittura l’introduzione in Costituzione della figura del «premier ombra» con precisi diritti.

Prima di vederli nel dettaglio, è facilmente intuibile che i due emendamenti mettono in discussione l’asserzione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e della ministra Maria Elisabetta Casellati, che la riforma non incide sui poteri del Capo dello Stato e che non altera gli equilibri del rapporto tra governo e Parlamento.

Il valore dei due emendamenti di Pera sta proprio in questa critica radicale all’assunto stesso del ddl premierato.

Il primo emendamento modifica l’attuale articolo 89 della Costituzione, il quale afferma: «Gli atti del Presidente della Repubblica sono controfirmati dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità». È la norma della Carta in base alla quale il Presidente della Repubblica è «irresponsabile» giuridicamente dei propri atti.

L’emendamento Pera esclude dalla controfirma una serie di atti presidenziali: «La nomina del Presidente del Consiglio, la nomina dei giudici della Corte Costituzionale, il decreto di scioglimento delle Camere, salvo che lo scioglimento non costituisca atto dovuto, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi al Parlamento e il rinvio delle leggi alle Camere».

LA SOLUZIONE DI PERA modifica profondamente il profilo che la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica, lo rende meno un arbitro e più un giocatore in campo, in grado di contrastare un braccio di ferro con il premier eletto che rivendichi prerogative sulla base di un mandato popolare.

Una soluzione certo discutibile ma che afferma in modo chiaro che il ddl Casellati stravolge il sistema attuale di pesi e contrappesi.

IL SECONDO EMENDAMENTO introduce un nuovo articolo nella Costituzione, il 96 bis, ed è più intuitivamente comprensibile: «Il Capo dell’opposizione è eletto, sulla base di un’esposizione programmatica, dai membri del Parlamento che abbiano dichiarato di appartenere all’opposizione. Egli è sentito dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Consiglio nei casi di guerra e di grave pericolo per la sicurezza nazionale, nonché negli altri casi previsti dalla legge. I regolamenti delle Camere ne regolano le modalità di elezione ed i poteri, in particolare con riferimento alla formazione dell’ordine del giorno delle Camere. I regolamenti determinano altresì i poteri di altri gruppi parlamentari di opposizione».

Anche in questo caso è un contro-bilanciamento «a valle» ancor più necessario perché il ddl Casellati non introduce nuovi poteri per il premier eletto, spingendolo quindi a prenderseli da solo, invocando il mandato popolare.

GLI EMENDAMENTI di Pera si inseriscono in una fase distopica del dibattito in Senato. La Commissione è impegnata nell’illustrazione degli emendamenti, che tuttavia sono stati depositati solo dalle opposizioni.

I partiti della maggioranza tacciono e non procedono alla chiarificazione del forte contrasto che oppone Fdi e Lega sulle norme che riguardano i casi in cui il premier eletto non ottiene la fiducia da lui posta.

In questo gioco la Lega è riuscita a ottenere l’incardinamento dell’Autonomia differenziata in Commissione Affari costituzionali della Camera, dopo il rinvio di una settimana. Ma Fdi ha fatto sapere che non si opporrà alla richiesta delle opposizioni di tempi adeguati di esame.

Nuovi colpi di teatro sono dietro la porta.

 

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Soldi rubati, case saccheggiate, video su Tik Tok con il bottino: Gaza e Cisgiordania, soldati di Tel Aviv depredano le case dei palestinesi. Israele non si ferma, escalation al confine con il Libano, scontro anche con il Vaticano: «Ma quali vittime sproporzionate, sono tutti complici di Hamas»

PALESTINA. In Cisgiordania confische alle famiglie dei prigionieri politici e raid nei cambiavalute. E a Gaza i soldati pubblicano i saccheggi su TikTok. Dalle banche e le abitazioni private sottratti averi per un valore di decine di milioni di euro

 Un soldato israeliano nella Striscia di Gaza - Ap /Ariel Schalit

In una piccola comunità palestinese alle porte di Ramallah è successo tre volte in pochi giorni, modalità identiche: a fine gennaio, tra le 1 e le 2 di notte, un gruppo di 15-20 soldati (solo uno a volto coperto, arabo fluente) ha fatto irruzione nelle case di un detenuto politico e due ex prigionieri. Accade spesso ma stavolta il motivo era diverso: la confisca di auto, denaro e gioielli.

«Prima se trovavano qualche centinaio di shekel i soldati se li intascavano. Ora arrivano in missione. Hanno devastato la cucina: aprivano gli sportelli, prendevano un piatto alla volta e li fracassavano a terra. Hanno tagliato i cuscini dei divani e aperto i cassettoni delle serrande. Ci ripetevano di dargli soldi e gioielli. Dopo un’ora e mezzo, hanno confiscato la nostra auto». Nura racconta di una notte insonne, una casa a pezzi.

A lei però è andata bene: prima di andarsene i soldati le hanno dato un documento con i dettagli dell’auto. A Ghassan non hanno lasciato in mano nulla. È un detenuto di lungo corso, tra arresti diversi ha trascorso 13 anni in carcere.

«SONO RIMASTI un paio d’ore. Hanno aperto le finestre e lanciato fuori i mobili. Mi dicevano di dargli i soldi e l’oro, che era meglio se li mettevo sul tavolo perché se

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ELEZIONI EUROPEE. Oggi alla Federazione nazionale della stampa il giornalista presenta il programma

 Michele Santoro - Ansa

La «lista per la pace» di Michele Santoro muove un primo passo: oggi alle ore 11 nella sala Tobagi alla sede della Federazione nazionale stampa italiana in via delle Botteghe Oscure 54 a Roma sarà illustrato il programma di «Pace terra dignità» per le elezioni europee del prossimo giugno. Assieme allo stesso Santoro interverranno Raniero La Valle, che con il giornalista ha promosso l’iniziativa, e Benedetta Sabene.

Non ci saranno, dunque, i soggetti della sinistra ai quali Santoro si era rivolto, anche nel corso del dibattito a più voci che si è svolto nei giorni scorsi sulle pagine di questo giornale. Alleanza Verdi Sinistra ha da tempo posto la questione del simbolo: i rossoverdi non hanno intenzione di smantellare il logo che li ha portati in parlamento alle scorse politiche e sotto il quale vogliono proseguire il loro percorso. Unione popolare, invece, ha posizioni diverse a seconda delle sue componenti: più possibilista, con sfumature diverse, Rifondazione comunista (soggetto che detiene il prezioso simbolo che consentirebbe alla lista di non raccogliere le firme per presentare le candidature, compito particolarmente oneroso per le europee), critici quelli di Potere al popolo, che lamentano poca chiarezza e chiedono maggiori garanzie programmatiche ai promotori della lista unitaria. Unione popolare ha convocato la sua «cabina di regia» (l’organismo che raccoglie rappresentanti dei diversi soggetti che ne fanno parte insieme all’attuale portavoce Luigi De Magistris) per il prossimo venerdì. Sarà il momento per valutare l’uscita di oggi e prendere una decisione.

Con Santoro annuncia invece di esserci, e da subito, Federico Dolce, segretario nazionale e portavoce di Mera 25, con alcuni rappresentanti del partito parte integrante di DiEM 25 il movimento dell’ex ministro delle finanze della Grecia Yanis Varoufakis. «Si apre un percorso inedito nel panorama politico italiano – sostiene Dolce – con la costruzione di una lista per le europee che darà voce alle progressiste e ai progressisti che vogliono rafforzare l’Europa, un’Europa come continente della pace e al servizio dei popoli e non delle élite e dei vincoli economici. Daremo il nostro contributo a costruire una lista innovativa nei nomi e nelle idee»

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ISRAELE/PALESTINA. Alla Camera le mozioni sulla Palestina, la richiesta dem passa con l’astensione delle destre che dicono no al riconoscimento dello Stato palestinese e al ripristino dei fondi a Unrwa. Soddisfatta la leader Pd: Un passo avanti». M5S e rossoverdi non si fidano: non basta.

Pressing di Schlein, Meloni accetta il cessate il fuoco Schlein alla Camera - Lapresse

Dopo il voto alla Camera sulle mozioni sulla guerra in Palestina, in casa Pd si respira una certa soddisfazione: è passato infatti un punto della mozione dem che impegna il governo a «sostenere ogni iniziativa volta a perseguire la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani e a chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza al fine di tutelare l’incolumità della popolazione civile, garantendo la fornitura di aiuti umanitari all’interno della Striscia».

IL CENTRODESTRA SI È astenuto dunque sul primo punto del testo Pd, lasciando che grazie al voto favorevole delle opposizioni (128 voti) passasse la richiesta di fermare il massacro di civili. Il Pd ha ricambiato la cortesia astenendosi sulla risoluzione della maggioranza (approvata come quella di Azione), assai più attenta a non disturbare il manovratore Netanyahu. Decisive due telefonate ieri tra Meloni e Schlein, in cui la premier ha accettato la richiesta sul cessate il fuoco, mentre non ha accolto la proposta di riconoscere lo stato Palestinese e neppure quella di riattivare i fondi per l’agenzia Unrwa.

«Siamo molto felici perché il Parlamento ha detto sì alla richiesta di un cessate il fuoco immediato e di una conferenza di pace», dice Schlein. «A Meloni ho chiesto un’iniziativa diplomatica molto più incisiva, in linea con la nostra tradizione diplomatica: alla Camera si è fatto un passo avanti. Sugli altri punti insisteremo». A partire dalla richiesta di fare il possibile «per fermare l’attacco annunciato a Rafah che sarebbe un’ecatombe». Nel suo intervento in aula la leader Pd ha definito quella di Israele a Gaza una «punizione collettiva» e ha condiviso il giudizio del ministro degli Esteri Tajani, che aveva definito «sproporzionata» la reazione di Israele. «È un bene che ora il governo italiano lo dica».

L’AVVICINAMENTO TRA PD e governo non ha però escluso l’intesa con M5s e rossoverdi. I dem e i grillini hanno votato reciprocamente le loro mozioni, compresa la parte del domunento 5S che chiedeva lo stop alle attività dell’Eni nei giacimenti di gas al largo di Gaza. Forte convergenza dei giallorossi anche sulla mozione di Verdi e Si, votata integralmente dal partito di Conte: i dem non hanno però partecipato al voto sui punti che prevedevano lo stop a qualsiasi fornitura di tecnologia utilizzabile a fini bellici a Israele, il supporto alle richieste del Sudafrica alla Corte dell’Aja e la sospensione dell’accordo di associazione tra Ue e lo stato ebraico come sanzione per quelli che Fratoianni ha definito esplicitamente «crimini di guerra», ricordando che «il diritto internazionale a Gaza è stato fatto a pezzi dalla violenza cieca e inaudita dell’esercito israeliano, Netanyahu è un incendiario e oggi è il principale ostacolo al processo di pace».

Rossoverdi e M5s hanno anche chiesto di fermare l’offensiva contro i civili a Rafah, ma anche questo punto è stato bocciato dalla maggioranza di destra. «Abbiate un po’ di coraggio nell’azione per la pace, concentratevi su questo invece di prendervela con Ghali», ha detto il leader di Si.

I 5S NON DANNO MOLTO peso al voto sul cessate il fuoco. «La maggioranza non ha espresso voto favorevole, ancora una volta il governo glissa e nasconde la testa sotto la sabbia: nulla è cambiato da quattro mesi fa quando il governo si è astenuto all’Onu sulla risoluzione che chiedeva una tregua umanitaria a Gaza», spiega Riccardo Ricciardi. In Aula aveva ironizzato sulle richieste di riformulazione arrivate dall’esecutivo sulla mozione 5s. «Cosa vuol dire un “cessate il fuco sostenibile”? Non bastano 28mila morti? E perchè ci avete chiesto di togliere “con urgenza” dalla richiesta di una conferenza di pace e dite no alle sanzioni ai coloni in Cisgiordania che hanno avuto l’ok di Usa e Regno Unito? Siete più servi dei servi».

MOLTA FREDDEZZA ANCHE da Si: «La richiesta di cessate il fuoco? Forse un passo in più, ma siamo lontanissimi da quello che servirebbe per fermare la carneficina. Se si vogliono due stati, è fondamentale il riconoscimento dello stato di Palestina, ma il governo continua a negarlo», dice Fratoianni. Il dem Provenzano vede il bicchiere mezzo pieno: «Oggi il Pd ha fatto la sua parte. E ha riportato l’Italia dalla parte giusta, quella della pace in Medio Oriente». Nel concreto i dem non si fanno troppe illusioni: «L’impegno del governo lo misureremo col tempo», dice Schlein.

Ieri c’è stato un piccolo risveglio anche di Azione, che finora aveva scavalcato le destre nel sostegno al governo di Tel Aviv. «Quanto Netanyahu sta facendo a Gaza è pericoloso e inumano. Deve andarsene il prima possibile», le parole di Calenda. La piccola mossa delle destra arriva mentre l’ambasciatore israeliano in Italia Alon Bar avverte: «Questo è il momento in cui vediamo chi sono i nostri veri amici». La Russa si precipita a rassicuralo: «Vogliono isolare Israele dall’Occidente per annientarla, noi ci opporremo

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ISRAELE / PALESTINA. L’attacco israeliano a Francesca Albanese (Onu) omette tutti gli altri fattori che confluiscono nella ostilità dei palestinesi verso le forme di oppressione che subiscono dallo stato ebraico

Soldati israeliani al checkpoint di Qalandiya a Ramallah, prima della guerra foto GettyImage Soldati israeliani al checkpoint di Qalandiya a Ramallah, prima della guerra - foto GettyImage

I tweet sono una trappola mortale. Perché l’asserzione senza argomentazione si espone con ogni probabilità alle esecuzioni sommarie.
Prendiamo il caso di Francesca Albanese, l’inviata speciale delle Nazioni unite per i territori palestinesi occupati, di cui Francia, Germania e una associazione di avvocati internazionali chiedono le dimissioni.

L’accusa che le viene rivolta è di avere infranto un tabù mettendo in relazione il massacro perpetrato il 7 ottobre dello scorso anno in Israele dalle milizie di Hamas con lo stato di oppressione in cui vive da decenni la popolazione palestinese, piuttosto che con una pura e semplice insorgenza di violenza antisemita.

Le due cose non sono però così fortemente in contraddizione, non si escludono a vicenda. Non vi è dubbio alcuno che tra i palestinesi, soprattutto quelli più vicini al fondamentalismo islamico, o segnati da un vissuto tragicamente ferito, siano andati affermandosi sentimenti antisemiti e fenomeni di odio antiebraico che hanno decisamente influito sulle forme efferate e mostruose dell’aggressione sferrata dai miliziani di Hamas lo scorso 7 di ottobre.

Non si può negare, tuttavia, che le condizioni in cui versa la popolazione palestinese e le vessazioni a cui è sempre più pesantemente sottoposta abbiano a loro volta contribuito al diffondersi di questi sentimenti di odio. Del resto, anche sul versante dei coloni fondamentalisti ebraici l’odio razziale non difetta e nemmeno il ricorso sistematico ad atti di violenza indiscriminata. La destra che governa a Gerusalemme si è dedicata senza sosta a esasperare le tensioni. La storia ha più volte mostrato come la reazione a condizioni di oppressione estrema possano darsi nelle forme più spaventosamente crudeli. Forse solo il Sudafrica con l’istituzione nel 1995 della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, ha contraddetto questa tragica concatenazione, laddove ci si sarebbe potuti attendere una soluzione alla Dessalines (il generale nero che, dopo aver proclamato l’indipendenza di Haiti, procedette nel 1804 allo sterminio di tutti i coloni bianchi). Questo non per procedere a paragoni indebiti, ma per ricordare che nessuna motivazione, sia pur legittima come la rivolta contro la schiavitù, è immune dal ricorso alla violenza più cieca e turpe o in grado di giustificarla.

Il tabu ha però, a ben vedere, una sua precisa funzione: usare l’argomento dell’antisemitismo non tanto per denunciarne l’effettiva velenosa presenza, ma per mettere in ombra tutti gli altri fattori che confluiscono nell’ostilità dei palestinesi verso le politiche e le forme di controllo esercitate ai loro danni dallo stato ebraico. Citare questi fattori non costituisce in alcun modo una giustificazione dei crimini commessi dai miliziani sul territorio israeliano. Ometterli, invece, vuol dire sottrarsi a ogni responsabilità politica e posizionarsi sul terreno dell’inimicizia assoluta, senza soluzione diversa dall’annientamento dell’avversario. Che uno stato in guerra si autoassolva di ogni crimine e si dipinga, contro ogni evidenza, come il più umano, corretto, democratico e rispettoso del diritto è cosa consueta. Ma per il resto della comunità internazionale, compresi gli alleati di Israele, stare a questo gioco di propaganda bellica non è certo un comportamento dignitoso.

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