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AMARCORD GIALLOROSSO. Reunion ieri alla Camera per il libro sul Covid dell'ex ministro Speranza. Che provoca l'avvocato: su Trump mi hai fatto rizzare i capelli. La leader Pd: l’intesa si può trovare. L’avvocato in retromarcia su The Donald gela la platea: no a cartelli elettorali, ci sono ostacoli da rimuovere. Bersani: se si continua a rinfacciarsi il passato Meloni resta al governo

Pressing Schlein, Conte nicchia: «Per la coalizione serve tempo» Giuseppe Conte e Elly Schlein - LaPresse

C’eravamo tanti amati, a patto che a palazzo Chigi sedesse Giuseppe Conte. Che non ha affatto messo da parte l’idea di tornarci, e questo è forse il succo di due ore di incontro ieri alla Camera con Elly Schlein e Roberto Speranza. Occasione: la presentazione del libro dell’ex ministro della Salute, «Perché guariremo» (Solferino), una sorta di diario politico dell’emergenza Covid.

PER L’OCCASIONE C’È QUASI tutta la sinistra che ha flirtato con Conte, da Bersani a D’Alema e Franceschini, e poi altri ministri di quel governo, Provenzano, Amendola. E ovviamente Schlein, con il chiaro obiettivo di irretire il recalcitrante avvocato in una futuribile coalizione. Sono tutti arrabbiati per il mezzo endorsement dell’avvocato a Trump, che rovina il clima da amarcord giallorosso. A sorpresa, è il timido Speranza a tirare fuori il discorso: «Giuseppe, quando ti ho sentito domenica sera parlare di The Donald in tv mi si sono rizzati i capelli in testa!».

Lui incassa con evidente fastidio. Si parla della gestione Covid, baci e abbracci, i due gestori dell’emergenza mostrano il petto alle destre (più Renzi) che li vogliono incastrare con la commissione parlamentare. «Mi fanno pena», altro fendente di Speranza. «Sarà un boomerang per chi l’ha proposta gli fa eco “Giuseppi”. Che, sotto gli occhi vigili di Bersani e D’Alema, fa una mezza retromarcia su Trump: «Non ho mai detto che lui e Biden sono sullo stesso piano, ci sono più similitudini tra noi e Biden, ho solo detto che se torneremo al governo (cioè lui premier, ndr) dovremo avere buoni relazioni con il presiedente Usa, chiunque sia». Mezzo sollievo in sala. «A me si rizzando i capelli quando vedo un Pd bellicista, e che rinnega la transizione ecologica con gli inceneritori, infilandoci le dita negli occhi. Non siamo qui per farci delle provocazioni».

IL MOMENTO SI FA GRAVE, Conte accusa

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«Una prigione non è un albergo a 5 stelle». L’Ungheria risponde con arroganza allo scandalo per le immagini di Ilaria Salis condotta in catene in tribunale a Budapest. Meloni chiama Orbán, ma il governo italiano non compie passi per l’estradizione. E la destra assolve i carcerieri

ANGHERIA. La risposta dopo lo scandalo di Ilaria Salis incatenata in tribunale. A destra c’è chi è d’accordo. Meloni chiama il premier ungherese

Budapest si offende: «Le nostre prigioni non sono alberghi» 

Le immagini di Ilaria Salis che entra in carcere in catene hanno fatto il giro del mondo, provocando per lo più reazioni di sdegno. Dall’Ungheria, però, la risposta che arriva non è affatto imbarazzata, ma indispettita, quasi offesa. In vista del consiglio Ue di giovedì Giorgia Meloni ha chiamato il primo ministro Viktor Orbàn per confrontarsi sul caso, sia pure, avvertono le veline di palazzo Chigi, «nel pieno rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ungherese». Prima però si era espresso il Servizio carcerario ungherese, con toni eloquenti: «Nel nostro paese la legislazione in materia e diversi protocolli professionali regolano le condizioni di detenzione con norme rigorose. La presenza dei ratti è una bugia, i penitenziari rispettano elevati standard igienici, ma una prigione è una prigione perché non fornisce i servizi di un albergo 5 stelle». Il riferimento è sia alle lettere mandate da Ilaria Salis negli scorsi mesi sia alla testimonianza (concorde nel descrivere l’assoluto degrado delle prigioni ungheresi) di una sua ex compagna di cella.

A PROPOSITO della questione carceraria, giusto ieri la Corte d’appello di Milano ha ricevuto dall’Ungheria un documento con i chiarimenti richiesti per decidere sulla consegna di Gabriele Marchesi, il giovane milanese accusato, come Salis, di aver preso parte all’aggressione di alcuni neonazisti. Il fatto è che la risposta di Budapest, a parere del procuratore Cuno Tarfusser, è «gravemente deficitaria» e, per questo, continuerà a opporre il suo parere negativo all’estradizione. «Il punto – sostiene Tarfusser – è la mancanza di proporzionalità e ragionevolezza tra il fatto per come viene contestato e la prospettiva di pena. Non posso certamente essere il braccio destro giudiziari’ di Orban all’estero. Nel momento in cui uno stato devia da una prospettiva europea comune sui diritti, io magistrato italiano devo tenerne conto».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Da Orbán un avvertimento ai governi europei

La prossima udienza per Marchesi è prevista il 13 febbraio. C’è però in Italia chi sostiene la giurisdizione ungherese. A destra la situazione è la seguente: Forza Italia chiede al parlamento di non dividersi sul caso Salis, mentre il suo leader Antonio Tajani (incidentalmente anche vicepremier e ministro degli Esteri) alterna dichiarazioni preoccupate a frenate per chiarire che comunque non si può interferire più di tanto sugli affari giudiziari di un paese straniero («E Orban non c’entra niente», ha aggiunto). Tra i Fratelli d’Italia si segnalano le parole di Fabio Rampelli, convinto che «la premier riporterà a casa Ilaria Salis». Il ministro Francesco Lollobrigida, sfidando il senso del ridicolo, ha invece evitato ogni commento sostenendo di non aver mai visto le immagini di Ilaria Salis incatenata. Ancora più problematica, per usare un eufemismo, la posizione della Lega, che quasi non vede nulla di strano nella scena delle catene in tribunale. Dice l’eurodeputata Susanna Ceccardi che le vere immagini scandalose sono quelle degli antifascisti «in assetto armato come vere e proprie organizzazioni parabrigatiste».

IL VICESEGRETARIO del Carroccio Andrea Crippa si spinge ancora un po’ più in là: «Spiace per il trattamento riservato a Ilaria Salis e ci auguriamo sappia dimostrare la propria innocenza. Però ogni Paese punisce come vuole e non compete a me giudicare quello che si fa in altri paesi». Le opposizioni, va da sé, sono esplose davanti a queste parole, bollando Crippa come un giustificazionista della violazione dei diritti umani (è il parere più gentile, offerto da Debora Serracchiani del Pd). Per il resto si moltiplicano le richieste a Meloni di riferire in parlamento. Intanto, a Budapest, Giuseppe Salis, il papà di Ilaria, continua a battere la sua personalissima via diplomatica. Ieri mattina è finalmente riuscito a incontrare l’ambasciatore italiano in Ungheria Manuel Jacoangeli, ma è rimasto perplesso di fronte alle spiegazioni ricevute. «Noi fino al 12 ottobre, quando mia figlia ha scritto una lettera – dice Salis -, non avevamo evidenza del trattamento che stava subendo. Gli unici che lo sapevano e non hanno detto nulla sono le persone dell’ambasciata italiana in Ungheria».

QUESTA MATTINA, Ilaria Salis riceverà in carcere la visita dei suoi genitori, che poi venerdì incontreranno a Roma il presidente del Senato Ignazio La Russa. La Farnesina, dal canto suo, continua a muoversi passo lento. Sempre ieri mattina è stato ricevuto l’ambasciatore ungherese. Al centro dell’incontro il rispetto dei diritti umani nelle carceri e la possibilità di riportare Ilaria Salis in Italia e, magari, farle scontare la custodia cautelare ai domiciliari, in attesa che la giustizia faccia il suo corso (la prossima udienza è lontana, il 24 maggio). Intanto il collegio dei garanti dei detenuti fa sapere di aver intenzione di esercitare «senza indugio» nei confronti dell’Ue e dell’Ungheria «le proprie attribuzioni e prerogative di meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti». Appare sempre più evidente che la soluzione della vicenda non riguarderà tanto i tribunali quanto le sedi diplomatiche

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Il piano Mattei del governo Meloni è una scatola vuota dai connotati che rivelano un pensiero neo-coloniale. Gli obbiettivi dichiarati in cinque punti

Ansa

“Avremmo auspicato di essere consultati”. Questa la prima reazione dell’Unione africana dopo la presentazione del piano Mattei da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alla conferenza Italia-Africa a Palazzo Madama. Le espressioni usate da Meloni, come “da pari a pari” e “accordi non predatori”, non convincono e non riescono a fugare il sospetto di un’impostazione neo-coloniale del piano, tanto che da parte africana è stato affermato che mai alcuna imposizione sarà accettata. Anche in materia di immigrazione il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki, ha chiesto si tratti di “amicizia e non di barriere securitarie”.

5,5 MILIARDI DI EURO: SPICCIOLI

Le risorse del piano non sembrano costituire un ricco paniere e c’è chi sostiene che andrebbero centuplicate. I miliardi di euro sono 5,5, tra crediti, operazioni a dono e garanzie. Saranno presi dal fondo italiano per il clima (circa 3 miliardi) e dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo (2,5 miliardi). Cifre che appaiono insufficienti soprattutto se si considera che saranno 9 i Paesi africani coinvolti in progetti pilota: Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d'Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica democratica del Congo e Mozambico. 

Il governo non vuole però rischiare e chiede quindi il coinvolgimento dell’Unione europea, delle istituzioni finanziare internazionali, delle banche multilaterali di sviluppo e di altri Stati donatori. Quindi l’annuncio secondo il quale, entro l’inizio del 2025, un nuovo strumento finanziario sarà messo a punto con Cassa depositi e prestiti “per agevolare gli investimenti del settore privato”. Ovvia la presenza al vertice dei rappresentanti di dodici partecipate italiane, come Leonardo, Fincantieri, Enel, Eni, Terna e Snam. 

LE CINQUE PRIORITÀ

Vediamo allora come si articolano gli obiettivi principali di questo piano che, ironia della sorte, prende il nome dal fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, partigiano resistente.

Energia. Trasformazione dell’Italia in hub energetico, un ponte tra l’Europa e l’Africa, con interventi per rafforzare l’efficienza energetica e l’impiego di energie rinnovabili, dove le aziende italiane potranno selezionare start-up locali tecnologiche e innovative per sostenere così l’occupazione. Esempio di Meloni: “Un’iniziativa in Kenya dedicata allo sviluppo della filiera dei biocarburanti, che punta a coinvolgere fino a circa 400 mila agricoltori entro il 2027”.

Istruzione e formazione. Promozione dell’aggiornamento e della formazione dei docenti, avvio di nuovi corsi professionali in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro e la collaborazione con le imprese, coinvolgimento degli operatori italiani sul modello italiano delle Pmi. Esempi citati da Meloni: “Un grande centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema delle energie rinnovabili” in Marocco e la “riqualificazione strutturale delle scuole con scambi fra studenti e insegnanti” in Algeria.

Agricoltura. Diminuzione dei tassi di malnutrizione, sostegno allo sviluppo delle filiere agroalimentari e dei bio-carburanti non fossili. Esempi citati da Meloni: “Un progetto di monitoraggio satellitare sull’agricoltura” in Algeria, “un centro agroalimentare che valorizzi le eccellenze e l'esportazione dei prodotti locali” in Mozambico, mentre in Egitto il piano intende sostegno alla “produzione di grano, soia, mais e girasole con investimenti in macchinari, sementi, tecnologie, e nuovi metodi di coltivazione” in Egitto;

Salute. Rafforzamento dei sistemi sanitari, miglioramento dell'accessibilità e la qualità dei servizi primari materno-infantili, potenziamento delle capacità locali in termini di gestione del personale sanitario e della ricerca; sviluppo strategie di prevenzione e contenimento delle minacce alla salute, in particolare pandemie e disastri naturali. Esempio portato da Meloni: un progetto in Costa d’Avorio per madri e neonati.

Acqua. Perforazione di pozzi, alimentati da sistemi fotovoltaici, investimenti sulle reti di distribuzione. Esempio citato da Meloni: la “costruzione di pozzi e reti di distribuzione dell'acqua, soprattutto a fini agricoli, alimentate esclusivamente da energia rinnovabile” nella Repubblica democratica del Congo; “interventi di risanamento delle acque” in Etiopia.

UNA CABINA DI REGIA NON MANCA MAI

Sarà Giorgia Meloni a presiedere la cabina di regia che coordinerà le attività di collaborazione tra Italia e Stati africani, promuovere le attività di incontro tra i rappresentanti della società civile, imprese e associazioni di entrambi i fronti, monitorare l’andamento e l’aggiornamento del piano, promuovere iniziative finalizzate all’accesso a risorse messe a disposizione dall’Ue e da organizzazioni internazionali.

Alla cabina saranno in molti a partecipare: da ministri e viceministri al presidente della Conferenza delle Regioni,dal direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo ai rappresentanti di imprese a partecipazione pubblica e industriali e molti altri rappresentanti di organi governativi e non. 

Infine c’è da sapere che il piano Mattei avrà una durata di quattro anni, ma potrà essere aggiornato anche prima della scadenza e ogni anno, entro il 30 giugno, il governo trasmetterà al Parlamento la relazione sullo stato di attuazione degli obiettivi. 

 

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Presidente Nichi Vendola, lei definisce questo progetto di Autonomia differenziata «un atto di guerra». E però, è tutto previsto dall'articolo 116 della Costituzione. Cosa la preoccupa, allora? «Lo avete visto il leone di San Marco, cioè lo stendardo dei separatisti veneti, ruggire nell’aula del Senato? Non è forse un gesto rivelatore, non spiega più di mille discorsi che cosa sta accadendo? L’autonomia differenziata, per come è stata confezionata dal genio luciferino del ministro Calderoli, è un atto di guerra contro il popolo italiano. Spezza l’unità nazionale e liquida l’universalismo dei diritti di cittadinanza. Mette in liquidazione il servizio sanitario nazionale e manda in pensione la scuola pubblica. Colpisce e umilia il Sud, condannato ad un destino di marginalità e di insignificanza, al massimo usato come discarica o come villaggio turistico».

Una visione catastrofistica... «È una minaccia drammatica per il Paese, perché moltiplica a dismisura le diseguaglianze nemiche storiche di sviluppo e democrazia. Chi credeva di sterilizzare la spinta leghista alla secessione accentuando, con la modifica del titolo V della Costituzione, il tema dell’autonomia, si è sbagliato: il centrosinistra, con la consueta prosopopea dei suoi ideologi, si era illuso di spegnere così la fiamma eversiva della rottura del Paese. Oggi, imparata la lezione, tutto il fronte delle opposizioni ha il dovere di salire sulle barricate. Non si tratta di un esercizio di retorica nazionalista, si tratta di difendere un’idea semplice scolpita nell’articolo 3 della nostra Carta fondamentale: la pari dignità e l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, la Repubblica che rimuove gli ostacoli alla piena realizzazione della giustizia sociale».

I sostenitori dell'Autonomia, anche i più “originali” come per esempio i parlamentari meridionali di centrodestra, definiscono il progetto “un'opportunità anche per il Sud”. In sostanza, un obbligo collettivo alla responsabilizzazione. «La responsabilizzazione del Sud consisterebbe nella sua resa al servilismo, all’afasia, alla logica di diritti dimezzati? Direi che questo argomento è solo una provocazione. Se dovessi usare un lessico antiquato direi che i parlamentari di centrodestra del Sud andrebbero tutti denunciati per “alto tradimento”. Non so se sono fascisti o post-fascisti o a-fascisti, però sicuramente sono sfascisti. E portano a casa ciascuno i propri trofei: la Lega guadagna una secessione camuffata e fatta con legge ordinaria, Fratelli d’Italia un premierato figlio dell’antica propensione a “un uomo (o una donna) solo al comando”, insieme portano a casa un indebolimento letale della democrazia parlamentare».

È previsto il trasferimento di quote di Irpef e Iva alle Regioni che attivano il percorso dell'Autonomia. Ora, un emendamento di FdI dispone la medesima cosa anche per le altre Regioni, a parziale compensazione. Ma con una clausola di invarianza di spesa. E in ballo ci sarebbe sempre la perequazione prevista dalla Costituzione. La partita finanziaria quanto deve preoccuparci? «Le regioni più ricche sottrarranno alla fiscalità generale quote crescenti di gettito, quelle più povere andranno alla deriva, in un processo avventuristico di decostruzione della natura solidaristica dello Stato. Mi fa sorridere la clausola dell’invarianza di spesa. Io ti prometto che ti risarcirò, ma non posso toccare il mio salvadanaio né il mio conto in banca: e quindi? Quindi l’emendamento da coda di paglia dei Fratelli contro l’Italia è puro illusionismo».

Quantomeno verranno finalmente fissati i Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, dopo anni di tentativi a vuoto anche con i governi di centrosinistra: potrebbero accorciare i divari, o c'è il rischio viceversa di cristallizzare proprio quei divari? I Lep vanno comunque accompagnati da modalità d'attuazione e da risorse. «I divari non saranno cristallizzati, saranno accresciuti e moltiplicati. I Lep annunciati sono solo dei sedativi per provare ad addormentare la discussione».

Proprio la sanità, e lei da ex governatore lo sa bene, è uno dei terreni sui quali si misurano i maggiori gap. Nonostante, peraltro, la fissazione dei Lea.  «Sarò franco, magari di una franchezza brutale: questo acronimo, i Lea, è una foglia di fico per coprire un grave arretramento culturale sul terreno del diritto alla salute. Rammento che nella rivoluzionaria legge di riforma del 1978, la 833, quello alla salute era definito come un diritto inalienabile di ogni cittadino oltre che un cogente bene pubblico. L’arretramento si determina nel momento in cui la sanità viene aziendalizzata, piegata cioè alla logica della domanda e dell’offerta, spinta sui binari di un mercato in cui crescerà sempre più il privato, spesso cofinanziato dal pubblico, e si depotenzierà la sanità pubblica che non investirà sulla cosa più strategica: il territorio, i servizi socio-assistenziali del territorio».

Presidente, le contraddizioni sono ovunque. Basti pensare che chi sostiene (da destra) l'Autonomia, poi vuol accentrare la gestione delle risorse europee o del Fsc; e viceversa (a sinistra). Tutta la politica è in confusione? «La destra non fa confusione, fa occupazione: di ogni millimetro di interesse pubblico, di ogni casamatta della società e delle istituzioni, di ogni centro di affari. Costruisce il proprio blocco sociale e il proprio sistema di potere con assoluta disinvoltura, senza alcun problema estetico o tanto meno etico. Accentra a Roma la gestione dei fondi europei per muoverli secondo i propri interessi elettorali e lo fa nello stesso momento in cui inneggia all’autonomia delle regioni. Senza pudore, con ogni mezzo. “Todo modo”, parafrasando Sant’Ignazio di Loyola». 

In tutta franchezza: il regionalismo ha fallito? Il processo di decentramento è stato un mezzo disastro, le Regioni si sono trasformate in enti di amministrazione e gestione, c'è già un'Italia a macchia di leopardo, un mosaico di piccole Repubbliche. Qualcosa andrebbe rivisto alla radice? «Il regionalismo andrebbe ripensato con coraggio, anche e soprattutto alla luce delle sue contraddizioni e delle sue tante, troppe ombre. Le Regioni hanno a un certo punto dismesso la loro missione fondamentale - essere centri di programmazione e di pianificazione, nodi di congiunzione tra centro e periferia - e sono diventate centrali appaltanti e enti di mera gestione. Dal centralismo statale si è passati al centralismo regionale. Con fenomeni di sprechi e corruzione che sono divenuti endemici, al Sud come al Nord. La prova più disastrosa di gestione del Covid è stata offerta dalla opulenta sanità della Lombardia. Ora, invece di vedere i difetti e resettare la macchina del regionalismo, la si carica di poteri debordanti, fino a svuotare lo Stato centrale in materie cruciali».

Anche il centrosinistra dovrebbe intestarsi un mea culpa: la riforma del 2001 che ha aperto la strada all'Autonomia differenziata, la “rossa” Emilia Romagna che s'è mossa sullo stesso sentiero di Veneto e Lombardia, i partiti che assumono accenti diversi da Nord a Sud, i passi compiuti verso l'Autonomia anche da recenti governi di centrosinistra, la bocciatura della riforma costituzionale di Renzi che in realtà “imbrigliava” parecchio l’Autonomia differenziata. «Tutto vero, tutto giusto, anche se non vedo ancora la sufficiente consapevolezza autocritica di chi ha agevolato il percorso che ci ha portato al baratro di oggi. Discorso più complesso per quanto riguarda Renzi: col referendum gli italiani si opposero al suo “riformismo dall’alto” e al suo populismo da establishment».

In una fase diversa, anche Puglia e Campania avevano ipotizzato di accettare la “sfida” dell'Autonomia. Salvo poi cambiare tatticamente idea. Potrebbe essere, paradossalmente, un'opzione da riproporre? «Forse a Sud qualcuno si illudeva di imbrigliare gli “animali spiriti” del leghismo, visto anche che il Nord spesso convergeva indipendentemente dal colore politico delle regioni. Forse agiva un riflesso condizionato di quella mutazione non solo simbolica dei “presidenti di regione” in “governatori” unti dalla consacrazione elettorale: una mutazione che poteva rendere naturale la bulimia delle competenze. Intendiamoci: autonomia è una parola bellissima, un concetto promettente. Farla calare, partendo dal tema fiscale, sulla testa di un Paese cresciuto dentro la dinamica dello sviluppo diseguale e con una incancrenita “questione meridionale”, era solo una furbizia lessicale. Si scrive autonomia, si legge secessione: quella dei ricchi. Gianfranco Viesti ha scritto pagine ineccepibili su questo».

E il Sud non dovrebbe fare un esame di coscienza su gestione delle risorse, qualità dell'amministrazione e della spesa? Spesso rischiamo d'essere noi il miglior spot per l'Autonomia differenziata. «Le colpe, talvolta imperdonabili, delle classi dirigenti meridionali, non possono essere messe sul conto dei cittadini del Sud: che già hanno pagato un caro prezzo in termini di arretratezza, carenza di infrastrutture, dominio delle clientele, degrado dei servizi pubblici. Quindi noi dobbiamo essere i critici inflessibili delle tare storiche che hanno azzoppato i nostri territori, ma dobbiamo anche essere consapevoli che c’è tanto Sud che ha lottato contro gli sprechi, la mafia, la corruzione. Ricordo sommessamente che tangentopoli è nata a Milano. Ricordo che l’unica regione italiana non scalfita neppure dallo scandalo denominato “Rimborsopoli”, e che riguardò i rimborsi illeciti percepiti dai consiglieri regionali, fu la mia Puglia negli anni in cui ero governatore».

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PIANO MATTEI. Gelo alla conferenza Italia-Africa. Previsti investimenti per 5,5 miliardi di euro. Ma per ora a investire è solo l’Italia

L’Unione africana: «Non siamo  stati consultati» 

Intervenendo ieri al Senato nei lavori di apertura della conferenza Italia-Africa la vicesegretaria generale dell’Onu Amina Mohammed ha ricordato come i leader mondiali abbiano quantificato in 500 miliardi di dollari l’anno la somma necessaria per favorire lo sviluppo del continente africano. L’Unione europea ha invece appena firmato con la Banca africana di sviluppo un accordo per investimenti – la maggior parte dei quali a fondo perduto – per un valore di 150 miliardi di euro. Entro la fine di febbraio, inoltre, sempre l’Ue siglerà un accordo con l’Egitto che prevede investimenti per 9 miliardi di euro nei prossimi anni per il solo paese nordafricano. A fronte di queste cifre i 5,5 miliardi di euro (3 dei quali prelevati dal Fondo per il clima più altri 2,5 da quello per la cooperazione e lo sviluppo) annunciati ieri da Giorgia Meloni per il lancio del Piano Mattei appaiono a dir poco insufficienti, anche se la premier conta sul contributo fondamentale che in futuro potrebbe arrivare da Unione europea, Stati uniti e Paesi arabi.

Insomma seppure lanciato in grande stile con 25 capi di Stato e di governo africani arrivati a Roma per l’occasione insieme ai vertici Ue e dei principali organismi internazionali, c’è il rischio concreto che il Piano Mattei, annunciato dalla premier fin dal giorno del suo arrivo a Palazzo Chigi, resti per l’appunto solo un annuncio. Va detto che l’accoglienza non è stata delle più calorose. La Nigeria, che con i suoi 210 milioni di abitanti è la nazione africana più popolosa, ha disertato l’appuntamento e così gran parte dei principali paesi dai quali partono i migranti che ogni anno arrivano sulle coste italiane. Ma a gelare l’atmosfera ci ha pensato soprattutto il presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki: «L’Africa è pronta a discutere i contenuti e le modalità di attuazione del Piano Mattei, sul quale avremmo auspicato essere consultati», ha detto intervenendo nell’aula del Senato. Insomma, si parla del futuro degli africani senza sentire cosa pensano gli africani. Non contento, Faki ha poi chiesto di passare dalle parole ai fatti: «Capirete bene che non ci possiamo più accontentare di semplici promesse che spesso non sono mantenute». I leader occidentali sono avvisati, tanto che a sera, una volta chiusi i lavori della conferenza, Meloni sente il bisogno di rispondere al presidente della Commissione Ua. Il Piano mattei. dice, «può essere sembrata una cosa chiusa ma non lo è, e il vertice Italia-Africa era fondamentale per condividere strategia e definizione finale dei progetti».

Per il resto tutto come da copione a partire dall’area intorno al Senato trasformata in zona rossa e quindi inaccessibile. Di migranti e di come fare per impedire che continuino a partire diretti in Italia, uno degli obiettivi che secondo Meloni dovrebbe conseguire il Piano Mattei, in realtà si è parlato poco. Il Piano prevede invece investimenti su istruzione e formazione, salute, agricoltura, acqua ed energia, settori che la premier definisce «strategici». «Occorre dire basta alla logica delle risorse spese in miriadi di interventi che non producono risultati significativi» spiega. Si partirà con una serie di progetti pilota in una decina di paesi, tra i quali la Tunisia dove è previsto un progetto per potenziare la depurazione delle acque utili a irrigare ottomila ettari e dare vita a un centro di formazione nel settore agroalimentare. O la Costa d’Avorio, dove si dovrebbe migliorare le possibilità di accesso alle cure con un’attenzione particolare a bambini, mamme e persone fragili.

Ma è anche, se non sopratutto, sull’energia che si guarda a palazzo Chigi. «L’interesse che persegue l’Italia – spiega infatti Meloni – è aiutare le nazioni africane interessate a produrre energia sufficiente alle proprie esigenze e a esportare in Europa la parte in eccesso». Con l’obiettivo dichiarato di trasformare l’Italia «in un hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa».

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Legata ai polsi e ai piedi, una cintura stretta in vita, un guinzaglio di catena, Ilaria Salis è comparsa davanti al tribunale di Budapest. Da un anno è in carcere in condizioni terribili. Accusata di lesioni lievissime, rischia 11 anni. Il governo italiano, amico di Orbán, non chiede l’estradizione ma solo di non infierire

IL CASO . A Budapest comincia il processo contro l’antifascista italiana. La procura contro la scarcerazione. La nuova udienza tra 4 mesi

 Ilaria Salis con i ceppi ai piedi nell’aula di Budapest - Ansa

Prima si sente il rumore di catene che si trascinano per terra. Poi si apre il portone e il primo a entrare è un agente dei reparti operativi della polizia ungherese: divisa mimetica chiara, pistola al fianco, passamontagna in testa. Seguono gli imputati: manette ai polsi, schiavettoni alle caviglie e una cintura di cuoio stretta in vita da cui parte un guinzaglio. È così che il signor Giuseppe Salis e sua moglie Roberta Benevici hanno potuto rivedere Ilaria, la loro figlia: «Come un animale». L’ultima volta era a metà novembre, in carcere, da dietro un vetro, con una cornetta per parlare. Lei li guarda, allunga lo sguardo fino agli amici milanesi seduti nelle retrovie, e sorride. Un modo per resistere alle terrificanti condizioni a cui è sottoposta in carcere, tra spazi angusti, topi, scarafaggi, cimici, cibo di infima qualità, costrizioni e restrizioni che fanno inorridire mezza Europa ma non ancora abbastanza il governo italiano.

ILARIA Salis, 39 anni, di professione maestra, è sotto processo a Budapest con l’accusa di aver preso parte all’aggressione di tre neonazisti lo scorso febbraio, nel periodo del Giorno dell’onore, l’appuntamento che, dalla metà degli anni ’90 in poi, richiama nostalgici da tutto il continente per commemorare le gesta delle SS che combattevano contro l’Armata Rossa. Non solo, per gli investigatori Salis farebbe parte di un’organizzazione chiamata Hammerbande, già al centro di svariate indagini in Germania e bollata a volte come estremista e a volte come terrorista. Da qui l’enormità del patteggiamento che le è stato proposto: 11 anni di prigione. Lei però si è sempre dichiarata innocente e lo fa anche in

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