di Filippo Miraglia (responsabile immigrazione Arci nazionale) da "Il Manifesto" del 12 maggio 2019
Il fastidio che il titolare del Ministero dell’Interno ha per la Costituzione, le istituzioni della Repubblica, le leggi e le convenzioni internazionali, è così esplicito che dovremmo forse considerarlo eversivo. Così com’è chiara la sua attitudine alla competizione machista. Non potendo piegare l’ordinamento giudiziario ai suoi desiderata, né tanto meno quei corpi dello Stato che svolgono un servizio secondo quanto disposto dalla legge, prova a introdurre modifiche legislative che gli consentano di vincere, costi quel che costi. Scavalcando competenze e stracciando ogni senso di responsabilità pubblica che dovrebbe avere un ministro. Intanto ottiene un risultato d’immagine, alimentando il razzismo e provando così ad accrescere il suo consenso personale. L’obiettivo è comunque assicurato, anche se il testo non arriva neanche in consiglio dei ministri. Se poi ci arriva, e magari viene anche approvato, tanto meglio. La dinamica del secondo salvataggio effettuato dalla Mare Jonio, la nave di Mediterranea, (piattaforma della società civile sostenuta anche dall’Arci, che ha destinato la raccolta del 5 per mille di quest’anno proprio a Mediterranea) il 9 maggio scorso, deve avere irritato a tal punto il ministro della Propaganda da spingerlo a forzare le istituzioni pur di impedire che quanto è successo si possa ripetere. Leggendo il primo articolo della bozza di decreto si capisce che il riferimento è proprio a quanto è successo giovedì scorso a 40 miglia dalla Libia, in acque internazionali. La Mare Jonio ha tratto in salvo 30 persone ed ha chiesto, alle autorità italiane, trattandosi di una nave italiana, di indicare un porto sicuro. L’Mrcc di Roma ha risposto inoltrando una mail del Viminale che dice alla Mare Jonio di fare riferimento alle
Ciafani (Legambiente): "Forlì diventerà un modello per l'Italia, vent'anni dopo Treviso" A circa un anno e mezzo dall’inizio dell’impresa, Alea Ambiente - azienda in house di 13 comuni della Romagna forlivese – si racconta. Lo ha fatto venerdì pomeriggio al Teatro il Piccolo
A circa un anno e mezzo dall’inizio dell’impresa, Alea Ambiente - azienda in house di 13 comuni della Romagna forlivese – si racconta. Lo ha fatto venerdì pomeriggio al Teatro il Piccolo di Forlì alla presenza di quanti hanno accompagnato e contribuito allo sviluppo dell’azienda e all’avvio del Porta a Porta con Tariffa Puntuale sul territorio. Sono intervenuti il sindaco della città di Forlì, Davide Drei, il presidente di Alea Ambiente, Daniele Carloni, il presidente di Contarina Spa – azienda di proprietà di 49 comuni della provincia di Treviso – Franco Zanata, il direttore generale di Alea Ambiente, Paolo Contò. Ospite speciale, il presidente di Legambiente nazionale, Stefano Ciafani.
Proprio Ciafani spiega che da oggi il modello di riferimento per tutt'Italia deve diventare Forlì. Da Legambiente viene il pieno appoggio al sistema di raccolta domiciliare con tariffa puntuale: "E' un sistema che l'Italia praticava in provincia di Treviso vent'anni prima che l'Europa parlasse di economia circolare. Non avevamo dubbi che questo modello avrebbe funzionato anche a Forlì, in una regione come l'Emilia-Romagna che si deve liberare da un sistema oppressivo di gestione dei rifiuti ancora ancorato ai modelli del Novecento". Per il presidente di Legambiente "oggi è il 25 aprile dell'economia circolare in Emilia-Romagna, il giorno in cui si festeggia una liberazione sul sistema basato sulla multiutility", tanto che "da oggi non c'è solo un modello Treviso, ma si deve parlare di sistema Forlì in Italia". Il prossimo step per la società dei rifiuti? "In futuro Alea Ambiente dovrà fare anche impianti di proprietà, deve essere la missione successiva per evitare di appoggiarsi in impianti di altre imprese, non sempre accoglienti per i rivoluzionari quale è Alea".
L’evento al teatro il Piccolo è stato l’occasione per ripercorrere le tappe principali di Alea Ambiente e dell’introduzione del Porta a Porta con Tariffa Puntuale. Alea Ambiente nasce il 6 giugno del 2017, ed entra in servizio il 1 gennaio del 2018 con un primo periodo di attività transitoria. A maggio 2018 comincia l’attività di comunicazione e informazione e di distribuzione propedeutica all’introduzione del Porta a Porta. Il territorio gestito da Alea Ambiente viene suddiviso virtualmente in 5 step di avvio. I primi comuni a partire con il Porta a Porta, nel settembre 2019, sono: Castrocaro Terme e Terra del Sole, Modigliana, Dovadola, Rocca San Casciano e S. Benedetto, Portico e Tredozio. A seguire a dicembre, Civitella di Romagna, Galeata, Modigliana, Predappio, infine nei primi mesi del 2019 Forlì, Forlimpopoli e Bertinoro. Nell’arco del periodo sono stati inaugurati 2 Punti Alea: uno a Forlì e uno per vallata, a Dovadola e a Civitella di Romagna, con l’obiettivo di essere ancora più presenti sul territorio. “Leggi tutto su forlitoday
Salone del Libro. Lo scandalo più grande, non è solo lo sfregio che lo stand fascista porta a Torino, ma quello, enormemente più grave e intollerabile, all’intero Paese, rappresentato da un ministro della repubblica che da quell’editore filo-fascista e filo-nazista pubblica
La presenza fascista nella più importante manifestazione editoriale italiana non è un «fatto culturale». È un oltraggio alla cultura. Chiedere alle vittime e ai loro eredi di condividere lo stesso spazio con i loro carnefici (e i loro eredi) non è atto voltairiano di libertà di pensiero. Ma un gesto di disumanità e di apatia morale intollerabile. Hanno ragione i rappresentanti del Museo di Auschwitz quando richiamano le istituzioni «proprietarie» dell’evento – il Governatore del Piemonte e la Sindaca di Torino in primis – alle loro responsabilità per rimediare alla precedente pilatesca passività. Così come ha ragione – mille volte ragione – quella parte del mondo della cultura che si mobilita di fronte all’oltraggio a quella che è la (residua) dignità degli intellettuali, lacerandosi, certo, dividendosi tra posizioni che hanno, a mio modo di vedere, pari dignità, tra chi intende esprimere la propria indignazione con il rifiuto della propria partecipazione (con l’idea che questa suonerebbe come accettazione). E chi invece intende esserci con la propria combattiva presenza (con l’idea che non esserci significherebbe lasciare agli altri libero il campo). Entrambi con la consapevolezza della portata della sfida in corso: della minaccia, inedita, che la falla aperta dallo sdoganamento di ciò che la fine della seconda guerra mondiale
Fascion. Il leghista chiede il ritorno del «grembiulino» nelle scuole e invoca «ordine e disciplina». E fa un comizio dallo stesso balcone del duce
Il comizio di Salvini dal balcone "mussoliniano" del palazzo comunale di Forlì
Tutto l’armamentario da ducetto. Matteo Salvini nel giro di poche ore passa dal discorso dal balcone del municipio a Forlì alla richiesta di ritorno del grembiule a scuola per riportare «ordine e disciplina» per finire a Montecatini con l’ennesimo accenno alla riapertura delle case chiuse e a Capannori (Lucca) lanciando «la castrazione chimica come cura democratica e pacifica per gli stupratori».
LA CAMPAGNA ELETTORALE del vicepremier e capo leghista è un succedaneo, un distillato, un bignami delle parole d’ordine del ventennio. E allo stesso tempo un tipico esercizio di distrazione di massa in stile berlusconiano, un elenco di slogan e falsi problemi per far parlare delle sue sparate e non affrontare i problemi del paese – come la bambina di Napoli per la quale da ministro degli Interni dice solo «prego per lei» – e della maggioranza in bilico per la poltrona di Siri.
La sparata del giorno è comunque quella sul grembiule: «Nelle scuole elementari e medie va reintrodotto il grembiule o la divisa». Una sparata che si basa su una falsa premessa e su motivazioni finte: «Abbiamo nuovamente previsto l’educazione civica a scuola e vorrei che tornasse il grembiule per evitare che vi sia il bambino con la felpa da 700 euro e quello che l’ha di terza mano perché non può permettersela», dice Salvini durante un breve comizio a San Giuliano Terme (Pisa). Il leader della Lega cita ad esempio la reintroduzione dell’educazione civica – votata all’unanimità alla camera in prima lettura – che in realtà più che il ritorno alla disciplina contiene la conoscenza della Costituzione, spesso disattesa e vilipesa dallo stesso vicepremier, fin dalla scuola dell’infanzia.
Sul ritorno del grembiule i presidi sono scettici e denunciano ben altre priorità per le scuole. «E’ possibile, non mi sembra ci siano problemi particolari nel farlo, certo abbiamo altre priorità, non mi sembra, insomma, una questione fondamentale», commenta il presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), Antonello Giannelli. «L’emergenza più importante – prosegue il dirigente scolastico – è un’altra: abbiamo solai e controsoffitti delle scuole che andrebbero monitorati, ogni settimana c’è un crollo; a volte si tratta di fatti lievi, a volte cadono interi pezzi di soffitto: questa è una cosa molto urgente su cui intervenire, con un monitoraggio che andrebbe fatto subito e non costa quasi nulla. Invece – osserva ancora Giannelli – si pensa a prendere le impronte digitali ai presidi, una misura che costerà 100 milioni che potrebbero essere dedicati ad altro».
La campagna di conquista delle (ormai ex) regioni rosse va avanti con parecchi segnali contrastanti. I contro comizi di venerdì a Modena, con le pacifiche proteste sedate a manganellate dalla polizia, sono diventati, la stessa sera a Forlì, un coro – «Siamo tutti antifascisti» – che ha sovrastato la voce di Salvini dal balcone del municipio. Lo stesso balcone dal quale Mussolini aveva assistito all’uccisione dei partigiani – impiccati ai lampioni – e aveva tenuto diversi comizi.
«Usare il balcone del municipio su piazza Saffi per parlare a una (per la verità scarsa) platea di un comizio sembra scimmiottare le adunate anteguerra del regime», attacca il sindaco dem uscente, Davide Drei. «Usare la funzione di ministro dell’Interno per utilizzare ogni spazio al di fuori dei regolamenti comunali, confondendo il ruolo istituzionale con quello del segretario di un partito, è un dispetto ai valori costituzionali basilari su cui si fonda l’Italia», continua il sindaco romagnolo.
DI «SFREGIO» ALLA CITTÀ parla anche la Cgil locale: uno sfregio, scrive la segretaria cittadina Maria Giorgini, in particolare «alla piazza intitolata alla memoria di Aurelio Saffi che custodisce il sacrario ai caduti per la libertà a memoria dei 465 partigiani morti per restituire la democrazia e la libertà alla nostra città e al nostro paese».
E un colpo davvero basso Salvini l’ha sferrato venerdì pomeriggio a Reggio Emilia. Dove ha incontrato, fatto selfie e promesse a un gruppo di esodati beffati anche dal decreto Quota 100. Una delegazione dei seimila esclusi dalle 8 salvaguardie post Fornero e ancora senza lavoro e pensione perché sprovvisti dei tantissimi requisiti e paletti fissati dalla Ragioneria generale si sono fatti abbindolare dal vicepremier. E così se poche settimane fa il sottosegretario leghista Durigon dichiarava al manifesto che «secondo l’Inps i seimila esodati non esistono», Salvini ha promesso loro un fantomatico disegno di legge per farli rientrare nell’Ape sociale e andare in pensione a 63 anni. Peccato che nessun disegno di legge, nemmeno quello citato (della leghista Elena Murelli, del 30 aprile) sia agli atti e che gli stessi esodati siano stati ricevuti nei mesi precedenti la campagna elettorale per le politiche con le stesse promesse. La Lega li befferà per la seconda volta.
GIULIO MARCON, portavoce della campagna Sbilanciamoci!, ha chiarito che anche solo decidendo di completare la fase 1 di acquisto dei primi 26 F35, si tratta di impegnare, stando solo ai prezzi base senza manutenzione e gestione, altri 3,7 miliardi di euro, circa 700 milioni l’anno.
Ma con uno stop totale del programma – come chiederà una nuova mozione parlamentare – si potrebbero risparmiare 10 miliardi.
Questa cifra potrebbe essere impiegata, salvaguardando i posti di lavoro nello stesso settore, per costruire 100 velivoli per l’elisoccorso o 30 Canadair o altri aerei antincendio, oppure mettere in sicurezza 5 mila scuole o realizzare mille asili.
Venezuela. Abituati al più drammatico incipit sul «colonnello Aureliano Buendia...» di Cent’anni di solitudine, è sicuro che Guaidó passerà non alla storia latino-americana ma tout-court al costume: si potrà dire infatti d’ora in poi che una cosa annunciata come vera in realtà è «alla Guaidó», oppure «Gran Varietà Guaidó»
Non ci sono più, per Washington, quegli affidabili Pinochet di una volta. Il golpe tanto auspicato dalla Casa bianca e, di sottecchi, da molti governi europei, con in Italia Salvini plaudente e l’appoggio del confinante fascista Bolsonaro, annunciato poi dai media di mezzo mondo, si è alla fine rivelato una bolla di sapone. Ora gira la voce che di una «farsa» si sarebbe trattato, con i «russi» che avrebbero giocato a Guaidó e agli americani un brutto tiro, facendo arrivare notizie false di un improbabile compatto schieramento dell’esercito con l’autoproclamato presidente ad interim, ma talmente convincente da fargli proclamare la «rivolta militare» per «l’Operazione libertà definitiva».
Abituati al più drammatico incipit sul «colonnello Aureliano Buendia…» di Cent’anni di solitudine, è sicuro che Guaidó passerà non alla storia latino-americana ma tout-court al costume: si potrà dire infatti d’ora in poi che una cosa annunciata come vera in realtà è «alla Guaidó», oppure «Gran Varietà Guaidó». Non dimenticando che solo tre mesi fa Juan Guaidó, un signor nessuno formatosi alla scuola di rivolte sanguinose quanto fallite di Otpor (dalle molte primavere arabe alla Georgia, all’Ucraina) e diventato per caso presidente dell’Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente della repubblica ad interim, subito riconosciuto dagli Usa e dall’Unione europea.
Che ha consentito al sequestro di Londra di dieci miliardi della divisa di Stato venezuelana derivati dal commercio del petrolio, ma inviando «ben» 20 milioni in derrate alimentari alla frontiera di una paese, la Colombia, in crisi nera ma taciuta. Tutti questi ricatti e «aiuti» non hanno prodotto alcun risultato, se non impoverire ulteriormente i venezuelani e alimentare la propaganda. Tutti contro Maduro, inesorabilmente, «dittatore» nonostante che in quel Paese dall’avvento di Chavez nel 1998 a oggi, di elezioni – supervisionate spesso da osservatori internazionali – politiche, amministrative, presidenziali, ce ne siano state almeno 25, tutte vinte dal chavismo e due – tra cui le ultime politiche – invece perse. Sempre non spiegando come sia possibile che esista in una «dittatura» un parlamento eletto, una Costituzione – sulla quale ha giurato anche Guaidó – e una Assemblea costituente.
Ma per passare dal faceto al serio, non possiamo dimenticare che quest’ultimo alzamiento è una tragedia e prelude al peggio. Anche se resta vero che le vittime del tentato colpo di Stato alla fine sono due e decine i feriti, e se ci guardiamo attorno la guerra tra gang a Londra nelle ultime 24 ore e l’ultimo, ordinario mass shooting in un campus universitario Usa, ne hanno fatte molte di più.
È una tragedia perché insiste su una situazione di indubbia crisi aperta, per un paese nevralgico del mondo globalizzato: è la riserva petrolifera del pianeta, ed ha avviato da venti anni una trasformazione socialista della società che chiama «bolivariana» che aveva sollevato dalla miseria milioni di persone. I due termini però sono entrati in conflitto fra loro: l’estrattivismo, il petrolio come fondamento dei processi redistributivi e centralità organizzativo-burocratica, si è rivelato una maledizione quando il costo del barile è precipitato, e insieme uno strumento non sufficiente per sviluppare i grandi progetti sociali avviati; e, invece, si è appalesato come un meccanismo riproduttivo di una vasta corruzione.
La morte di Chavez nel 2013 ha fatto il resto. Chavez, che all’inizio del suo avvento sulla scena, sembrava nient’altro che un caudillo, un militare al potere ma di sinistra, si è in realtà rivelato come l’artefice di una svolta che prevedeva forme di democrazia progressiva, con tanto di nuova Costituzione bolivariana, dentro un processo che ha avviato una modifica dei rapporti di produzione e di proprietà; oltre che essere diventato un leader molto popolare, riportato a palazzo Miraflores da una folla di 200mila persone dopo il tentato golpe del 2002, anche quello subito appoggiato dagli Usa e pure quello fallito. Il lascito nelle mani di Maduro del Venezuela mostra ora alcune evidenze pesanti e critiche: Maduro non ha proprio il carisma di Chavez; le ultime elezioni politiche hanno visto la sconfitta dei socialisti bolivariani; da 5 anni il Paese è soggetto a pesanti sanzioni economiche che ora arrivano a bloccare le esportazioni di petrolio; proprio per questo il Venezuela si è rivolto alla Russia e in modo più masssiccio alla Cina, mentre continua a sostenere l’economia di Cuba socialista, anch’essa tornata a subire le sanzioni di Trump dopo la svolta di Obama.
Non c’è più la crisi venezuelana: c’è una crisi mondiale, internazionalizzata dalla spregiudicatezza, violenza e incapacità che contrassegnano la presidenza Trump e l’Amministrazione Usa dei Pompeo, dei Bolton, degli Elliot Abrams – l’inviato statunitense per il Venezuela che, se esistesse il diritto internazionale, dovrebbe stare in galera all’Aja per aver ispirato gli squadroni della morte in Salvador e Guatemala negli anni Ottanta. Un incapacità confermata dagli avvenimenti di questi giorni. Perché le informazioni alla Casa bianca arrivano solo da una opposizione inaffidabile.
Certo la crisi economica profonda nel Paese c’è, ma come spiegare il sostegno a Maduro, dopo l’auoproclamazione del 23 gennaio, dopo il boicottaggio dei blackout, dopo 5 anni di sanzioni? Senza dimenticare la tempistica del «golpe», proclamato il giorno prima del Primo Maggio, quando presidenza, governo e Forze armate avrebbero partecipato a manifestazioni preparate proprio per la festa dei lavoratori e belle e pronte come risposta di massa al tentativo golpista. Ora la provocazione resta in campo. Perché – visto che in ogni paese al mondo se un leader politico chiama alla rivolta militare perlomeno viene interrogato – tutti aspettano un mandato d’arresto per Leopoldo Lopez e Juan Guaidó, probabilmente mandato scientemente allo sbaraglio dai padrini statunitensi perché si «martirizzasse».
Insomma, nonostante l’evidente fallimento è tutt’altro che finita. Ed è grave perché la vera debolezza del Venezuela a questo punto non è militare, è la sua crisi economica, la mancanza di una opposizione non golpista e la necessità solo annunciata di nuove elezioni politiche. E, come ripete l’autorevole sociologo Raul Zibechi, pur critico di Maduro «se i tentativi di golpe non vengono fermati, salta tutto» e non ci sarà alcuna possibilità di «via negoziata» né di revisione critica dei gravi errori del «socialismo bolivariano» che rischia di sopravvivere ed offrire il fianco a nuovi, scellerati tentativi golpisti; né tantomeno ci sarà un nuovo, necessario, protagonismo popolare.