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Commenta (0 Commenti)Poeta, rivoluzionario e sacerdote. Ernesto Cardenal, sacerdote, rivoluzionario e poeta nicaraguense, nel 1984 fu sospeso a divinis da Woityla. Oggi, sul punto di morte, è stato ufficialmente riabilitato da papa Francesco
Meglio tardi che mai» verrebbe da dire sulla riabilitazione come sacerdote del poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura in Nicaragua negli anni ’80 durante tutta la Rivoluzione popolare sandinista. Nel 1984 lui, insieme al fratello Fernando (gesuita, coordinatore della Gioventù sandinista e successivamente ministro dell’Istruzione), padre Miguel D’Escoto (ministro degli esteri) e padre Edgar Parrales (ministro per la famiglia) furono sospesi a «divinis» da Karol Wojtyla; dunque esonerati dallo svolgere i loro compiti sacerdotali.
È RIMASTA NELLA STORIA la fotografia del papa polacco che il 4 marzo 1983, appena sceso dall’aereo sulla pista dell’aeroporto Sandino di Managua, salutando uno per uno i membri del governo rivoluzionario (noi de il manifesto eravamo lì a un passo), puntò il dito su Ernesto (l’unico dei quattro preti-ministri ad accoglierlo) che gli si era inginocchiato per baciargli l’anello.
L’allora pontefice ritirò subito la mano umiliandolo e intimandogli: «devi regolarizzare la tua situazione con la Chiesa». Quella visita finì con la clamorosa contestazione a Giovanni Paolo II durante la messa nella gremita piazza 19 de julio; e la sua precipitosa dipartita, rosso di rabbia in volto, dal Nicaragua
.
Uno degli slogan di quel tempo del corso sandinista era: Entre cristianismo y revolución no hay (non cè) contradicción. Mentre in quasi tutta l’America latina era in auge la Teologia della liberazione, avanguardia nell’applicazione del Concilio vaticano II. Che Wojtyla si prodigò letteralmente a sradicare a partire dal suo non casuale primo viaggio dalla sua nomina (nel gennaio 1979) alla III Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla, che avrebbe dovuto sancire l’«opzione preferenziale per i poveri». Facendo così un grande favore al presidente Usa Ronald Reagan, nel frattempo impegnato nel promuovere le sette fondamentaliste in tutto il sub continente.
Papa Francesco ha finalmente revocato la sospensione al 94enne padre Ernesto, ricoverato in rianimazione per una grave infezione in un ospedale della capitale nicaraguense. A portargli il messaggio il nunzio Stanislaw Waldemar. Il quale ha espresso l’intenzione di concelebrare una messa insieme a lui. Sempre che, a questo punto, Cardenal riesca a rimettersi. Mentre il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Baez, si è precipitato al suo capezzale chiedendogli la sua benedizione «come sacerdote della Chiesa cattolica».
MONSIGNOR BAEZ, molto legato a papa Francesco, è il prelato che più si è esposto con le sue critiche al regime del presidente Daniel Ortega, ancor prima della rivolta studentesca scoppiata il 18 aprile dello scorso anno, repressa nel sangue dalle forze di sicurezza del fu comandante guerrigliero.
Così come Ernesto Cardenal è stato uno dei primi esponenti del sandinismo a denunciare (fin dagli anni ’90) la piega antidemocratica di Ortega da segretario del Fronte Sandinista prima, e dittatoriale da quando è tornato al governo nel 2007.
Tanto da essere preso di mira da una vera e propria persecuzione politica che gli è valsa un paio d’anni fa una sanzione di 750mila dollari per una inventata controversia sulla proprietà dei terreni dove lo stesso Cardenal aveva fondato negli anni ’70 la sua comunità contemplativa nell’isola di Solentiname del grande lago Nicaragua. Il sistema giudiziario, strettamente controllato da Ortega, era arrivato a congelargli il conto corrente; per poi sospendere il procedimento di fronte alle proteste di intellettuali e letterati dal mondo intero.
IL PADRE CARDENAL è considerato infatti uno dei più grandi poeti latinoamericani. È stato insignito della Legion d’onore francese, del premio latinoamericano Pablo Neruda; fino al Premio regina Sofia di Spagna per la poesia iberoamericana (nel 2012). L’ultimo riconoscimento, il premio Mario Benedetti, lo aveva ottenuto giusto lo scorso anno; e lo dedicò al 15enne nicaraguense Alvaro Conrado, ucciso il 20 aprile scorso da un francotiratore del regime durante una manifestazione di protesta degli studenti. Tra le sue opere più famose: Oración para Marilyn Monroe (ancora del 1965), Quetzalcoatl, Canto Cosmico, La Revolución perdida…; molte di esse tradotte fin in venti lingue.
Nella sua lunga vita il padre Cardenal è stato suo malgrado avvezzo a subire feroci atti di repressione. Già nel 1977 gli sgherri della Guardia somozista distrussero le installazioni della comunità di Solentiname (cappella, scuola, biblioteca, laboratorio di arte primitivista, cooperativa di pescatori e contadini) e assassinò vari dei suoi attivisti. Così come fu clamorosamente boicottato durante la rivoluzione sandinista da ministro della cultura dalla stessa moglie di Daniel Ortega, Rosario Murillo (anch’essa poetessa e oggi vicepresidente nonché factotum del regime) che aspirava a quel posto; e che decise di inventarsi la Associazione dei lavoratori della cultura, in feroce competizione col padre-ministro.
CON LA RESTITUZIONE delle funzioni sacerdotali papa Francesco ha operato in extremis una sorta di risarcimento nei confronti del padre Ernesto che ora «è pronto per andarsene in pace» come ha commentato la scrittrice e anch’essa poetessa nicaraguense Gioconda Belli.
Gesto che il primo pontefice latinoamericano aveva già concesso (su esplicita richiesta) al padre Miguel D’Escoto prima di morire. Mentre Edgar Parrales optò subito per rinunciare allo stato laicale; e Fernando Cardenal scelse invece di rifare il noviziato per rientrare nella Compagnia gesuita a tutti gli effetti. Ancora qualche mese fa il riottoso Cardenal, che mai aveva chiesto la sua riabilitazione, ebbe a dire: «rivendico di essere stato poeta, sacerdote e rivoluzionario».
Commenta (0 Commenti)Appello. Naufraga il progetto europeo, quando si vendono armi e si alimenta il conflitto a Sud e a Oriente del Mediterraneo senza assumersene alcuna responsabilità, quando si sceglie di alzare muri per creare zone di buio informativo e umanitario, quando si chiudono le frontiere comprando governi terzi e pagando eserciti stranieri affinché facciano il lavoro sporco.
Il Mar Mediterraneo è stato la casa comune di civiltà millenarie nelle quali l’interscambio culturale ha significato progresso e prosperità. Oggi è divenuto la fossa comune di migliaia di giovani che vi trovano la morte per l’assenza di canali d’ingresso legali e sicuri.
Le città, luogo di convivenza di uomini e donne di origini molto diverse tra loro e rifugio di migranti e richiedenti asilo, guardano con stupore alla deriva (all’atteggiamento?) degli stati europei nei confronti dei diritti delle persone che cercano di attraversare il Mediterraneo.
Riteniamo legittimo l’obiettivo di fuggire dalla violenza o dalla mancanza di opportunità e libertà democratiche, e crediamo che la soluzione sia la pace e la democrazia, così come riteniamo che le migrazioni debbano essere gestite in maniera ordinata sotto il coordinamento di diversi organi governativi.
Riconosciamo altresì che i nuovi arrivati e le nuove arrivate debbano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri di ogni altro cittadino.
La chiusura dei porti italiani e maltesi alle navi di soccorso e il recente blocco burocratico nei porti spagnoli e italiani delle navi Open Arms, Aita Mari, SeaWatch3, insieme a quello dei porti francesi, sono esempi pratici di come anche l’Europa stia naufragando.
Riteniamo che l’Europa naufraghi quando viola la legge del mare, quando riduce i mezzi della propria guardia costiera, quando accusa di traffico di esseri umani chi li soccorre, facendo ciò che dovrebbero fare gli stati, quando cerca di annullare i meccanismi di solidarietà nelle nostre città.
Naufraga quando i governi europei, nascosti dietro le proprie bandiere e presunte soluzioni pratiche, rifiutano di aiutarsi in modo solidale nell’affrontare il tema dei flussi migratori dovuti a conflitti regionali.
Naufraga il progetto europeo, quando si vendono armi e si alimenta il conflitto a Sud e a Oriente del Mediterraneo senza assumersene alcuna responsabilità, quando si sceglie di alzare muri per creare zone di buio informativo e umanitario, quando si chiudono le frontiere comprando governi terzi e pagando eserciti stranieri affinché facciano il lavoro sporco.
Naufraga quando si confondono le vittime dei conflitti con i loro assassini, come sta facendo l’estrema destra europea.
Dobbiamo salvare l’Europa da se stessa. Rifiutiamo di credere che la risposta europea di fronte a questo orrore sia la negazione dei diritti umani e l’inerzia di fronte al Diritto alla Vita.
Salvare vite non è un atto negoziabile e negare la partenza alle navi o rifiutarne l’entrata in porto, un crimine.
Costringere le persone a vivere in un clima crescente di disuguaglianza su entrambe le sponde del mare è una soluzione a breve termine che non garantisce alcun futuro, soprattutto quando i flussi migratori più imponenti si producono seguendo altre rotte, non quelle marittime.
Le città presenti vogliono riconoscere l’azione e il coraggio della società civile rappresentata dalle navi di Open Arms, SeaWatch, Mediterranea, Aita Mari, SeaEye, del peschereccio di Santa Pola, del sindaco di Riace, della Guardia Costiera italiana e dello spagnolo Salvamento Maritimo, così come di tutte le organizzazioni umanitarie che operano alle frontiere. Esigiamo che il governo italiano e quello spagnolo nonché la Commissione Europea abbandonino la strategia di bloccarle e criminalizzarle.
Oggi ci siamo riuniti a Roma per sigillare un’alleanza tra città europee che diano appoggio alle organizzazioni umanitarie e alle navi europee di soccorso nel Mediterraneo.
Allo stesso tempo, le città europee continueranno a lavorare insieme per combattere l’involuzione dei principi fondativi della Ue e riportare il progetto europeo a galla.
Un’alleanza in mare e una in terra per un Mediterraneo che abbia un futuro.
Testo del manifesto sottoscritto dai sindaci di Barcellona, Madrid, Saragoza, Valenzia, Napoli, Palermo, Siracusa, Milano, Latina e Bologna.
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Scarica: manifesto – volantino – volantone
Migliaia di manifestanti hanno riempito le strade della capitale dietro le parole d’ordine #FuturoalLavoro. Una mobilitazione proclamata unitariamente da Cgil, Cisl e Uil a sostegno della piattaforma unitaria con la quale le tre confederazioni avanzano le loro proposte e per chiedere al Governo di aprire un confronto serio e di merito sulle scelte da prendere per il futuro del Paese.
Tutto il mondo del lavoro è sceso in piazza per rivendicare la creazione di lavoro di qualità, investimenti pubblici e privati a partire dalle infrastrutture, politiche fiscali giuste ed eque, rivalutazione delle pensioni, interventi per la tenuta sociale del Paese, a partire dal welfare, dalla sanità, dall’istruzione, dalla Pubblica Amministrazione e dal rinnovo dei contratti pubblici, maggiori risorse per i giovani, le donne e il Mezzogiorno.
Un corteo pacifico e colorato. Palloncini, bandiere e striscioni hanno invaso le vie del centro di Roma, hanno sfilato fianco a fianco lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie, giovani, donne, pensionati e migranti (ascolta – leggi). All’arrivo del corteo in Piazza San Giovanni in Laterano, quando la coda era ancora a Piazza della Repubblica, hanno preso la parola dal palco: una infermiera del 118, una pensionata, un rider, un delegato dell’ex Ilva di Taranto, una delegata della scuola e un lavoratore di un’impresa edile (ascolta).
A concludere la grande giornata di mobilitazione gli interventi dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo.
“È davvero uno spettacolo questa piazza così piena, così grande. E c’è ancora gente che deve mettersi in marcia per il corteo”. Queste le prime parole del segretario generale della Cgil Maurizio Landini dal palco, “in tanti mi chiedono – ha aggiunto – quanti siamo oggi. Ci sono troppi che danno i numeri in questo Paese: a loro dico, a questo punto, contateci voi”. “A quelli del governo dico: se hanno un briciolo di intelligenza ascoltino questa piazza e aprano il confronto. Noi siamo il cambiamento”. (leggi – ascolta).
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No presidente Mattarella, davvero no. Io sono fra quelli che hanno sempre avuto per lei massima stima, ma credo che questa volta lei sia davvero in errore.
Dare legittimità a Guaidò è contro ogni regola democratica, significa opporsi alla posizione assunta dalle Nazioni unite che, con tutte le sue debolezze, è però tutt’ora una delle poche istituzioni che ci garantiscono il rispetto, almeno formale, di qualche diritto internazionale.
Significa rifiutare la ragionevole proposta di dialogo avanzata da papa Francesco che è uno che l’America latina la conosce molto bene.
Temo ci sia, sul Venezuela e la sua crisi, una grande disinformazione.
Bisognerebbe forse ricordare che quelli che oggi sostengono questo signore autoproclamatosi presidente (fra cui la notoriamente pessima rappresentanza della comunità italiana) sono stati coloro che un golpe l’hanno fatto nel 2002 contro il presidente democraticamente eletto del Venezuela, Hugo Chavez. Lo arrestarono, addirittura, e c’è un bel documentario trasmesso allora dalla Bbc, che consiglierei di proiettare al Parlamento europeo a Bruxelles, in cui si vedevano i golpisti su un palchetto, un insieme che sembrava tratto dal famoso affresco di Diego Rivera nel
Leggi tutto: Venezuela, Mattarella stavolta è in errore - di Luciana Castellina
Commenta (0 Commenti)Economia. Produrre di più con meno persone, un modello che oggi raschia il fondo del barile e blocca il sistema sotto i colpi di uno sviluppismo che crea debito e bassi salari
Dopo tanto criticare, più o meno sensato, da parte degli “sviluppisti” di ogni forma e colore alla decrescita felice alla Latouche, siamo entrati a gonfie vele nell’età della decrescita infelice. Mentre i politici e la maggior parte degli economisti studiano i modi per far crescere il Pil, il Pil non cresce, non solo in Italia, ormai tecnicamente in recessione, ma nemmeno in quelle che sono state in Occidente le locomotive della crescita che abbiamo alle spalle. Emerge una verità scandalosa.
Che la crescita e la cultura economica e politica che l’ha animata, non solo distruggono ambiente e territorio ma non producono nemmeno maggior sviluppo. In molti avevano provato a spiegarcelo. Il ciclo del consumismo dissennato che aveva trainato la crescita degli anni felici si è inesorabilmente bloccato. Produrre di più con meno persone al lavoro- questa è stata la ricetta della produttività e della competitività nei paesi dell’Occidente e questo è stato il modello che si è provato a imporre al mondo intero- alla fine raschia il fondo del barile.
Se diminuiscono i salari e il numero di chi li percepisce, è impossibile tenere alto il livello dei consumi. La finanziarizzazione dell’economia, che ha permesso per un po’ alle persone e agli Stati di comprare indebitandosi, si è bloccata, travolta dall’insolvibilità dei debiti che essa stessa ha sollecitato. Se lo sviluppo continuerà ad essere misurato sul Pil e sulla crescita dei consumi probabilmente lo sviluppo si è bloccato per sempre. E se le persone continueranno a vedere nel possesso di beni la chiave per la felicità sono destinate ad essere sempre più infelici.
Nel frattempo si fa strada una ragione ancora più profonda di insicurezza e di infelicità. La preoccupazione per il riscaldamento climatico, per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, per la fragilità del territorio rispetto ai sempre più frequenti “eventi estremi”. Secondo un recentissimo sondaggio Swg, riguarda l’81% degli italiani. E si comincia a capire come ci sia un rapporto stretto fra il degrado ambientale e la cementificazione del territorio e l’uso privilegiato delle energie fossili.
Nonostante tutte le prediche sullo sviluppo sostenibile i dati in proposito ci dicono che l’unico stop significativo all’aumento del CO2 nell’atmosfera è avvenuto negli anni peggiori della crisi economica. E però gli esponenti del partito del Pil, trasversali a tutti gli schieramenti politici, continuano a progettare una crescita basata sull’intensificazione dell’uso dei combustibili fossili, magari a prezzi più bassi per difendere la competitività delle nostre imprese. E a progettare grandi infrastrutture considerando come una variabile secondaria il loro impatto sul territorio e sulla vita di chi ci abita. Uomini, animali, piante. In nome di una crescita trainata dall’ulteriore intensificarsi degli scambi di merci, anche quando i numeri ci dicono che questi scambi stanno rallentando.
Persino chi dentro il governo sembra più sensibile alle ragioni dell’ambiente, il Movimento 5Stelle, finisce per giustificare una misura come il reddito di cittadinanza come ossigeno necessario alla crescita del Pil, e a vaneggiare su un nuovo miracolo economico alle porte, la cui prevedibile assenza alimenterà ancora di più l’infelicità futura. I sovranisti autoritari- da Trump a Salvini- contrappongono l’occupazione alla lotta al riscaldamento climatico. L’ambientalismo, come l’accoglienza dei migranti, è una roba da ricchi, per chi ha la pancia piena. E propongono vecchie ricette che distruggono l’ambiente e la dignità del lavoro.
E non costruiscono lavoro stabile, perché nessun lavoro dura se contribuisce a distruggere il mondo in cui viviamo.
Basterebbe guardarsi intorno per vedere le macerie che un’idea dissennata della crescita ha provocato. La speculazione edilizia ha prodotto centinaia di mega edifici vuoti, che non trovano compratori. Accanto agli scheletri dei capannoni industriali cominciano a comparire gli scheletri dei supermercati abbandonati.
L’assenza di una cultura del riciclo, del riuso, della manutenzione, nell’epoca dell’usa e getta applicato alle cose e alle persone, ci presenta un conto salatissimo. Accanto alle lavatrici, ai frigoriferi, ai computer gettati in discarica, cominciano a comparire le macerie dei ponti, delle scuole, delle strade.
La ragione e l’esperienza dovrebbero insegnarci che la vecchia strada è bloccata e che bisogna intraprenderne una nuova. Ma la ragione e l’esperienza non bastano, ad una economia e a una politica che si ritrae di fronte alla possibilità di immaginare un futuro diverso, in cui la buona vita, la cura dei beni comuni, la salute e l’istruzione prendano il posto del Pil come misuratore del benessere delle persone e dei territori . Contro il senso comune che ci inchioda al vecchio mondo che muore.
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