Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Il presidente dell'Ordine dei Geologi dell’Emilia–Romagna interviene sul caso della falla sull'argine: "La ricostruzione della nostra Romagna non è facile, arriva l’autunno, arrivano le piogge e i cantieri, quando si lavora nel movimento terra, vanno in difficoltà"

  lavori di ripristino dopo la falla sull'argine di Traversara

"Dal maggio 2023 la Romagna è come un vascello in un mare in tempesta. Generalmente in una nave, quando si deve affrontare una tempesta, tutti remano nella stessa direzione, tutti concorrono ad azioni che possano mettere in salvo la nave. Purtroppo, qui sta succedendo il contrario, mi riferisco alle polemiche conseguenti ai fatti di Traversara, dove la tracimazione di settembre provocò il collasso dell’argine, le case distrutte, un paese in ginocchio, i singoli giudizi di quanto accaduto a secondo della propria convinzione”. Lo ha affermato il geologo Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia – Romagna, oggi sui luoghi colpiti dai nuovi eventi calamitosi, con la falla del Lamone che ha causato nuovi allagamenti proprio a Traversara.

“L’impegnativa ricostruzione dell’argine è avvenuta in coincidenza di un evento di piena che ha causato una trafilatura con la conseguente fuoriuscita di acqua da un argine appena abbozzato, ed ecco di nuovo le polemiche - prosegue Antolini - Da tecnico, da libero professionista so quanto sia difficile l’operazione di ricostruzione di un argine con la piena incombente. La ricostruzione della nostra Romagna non è facile, arriva l’autunno, arrivano le piogge e i cantieri, quando si lavora nel movimento terra, vanno in difficoltà, che siano argini che siano frane”.

“Il pensiero va ovviamente a tutte quelle persone di Traversara coinvolte da una nuova alluvione, ai Tecnici che posso capire come si sentono nel combattere un nemico 1.000 volte più forte con un esercito specializzato ma debole nei numeri. Alle imprese che dal maggio 2023 operano sul territorio con un impegno che va ben oltre ai doveri contrattuali - conclude il presidente dell'Ordine dei Geologi dell’Emilia-Romagna che chiede alle istituzioni - di sbloccare i Piani Speciali e quindi iniziare la vera ristrutturazione della Romagna con opere che riducano il rischio alluvione, ma soprattutto di smetterla con le polemiche e remare insieme per uscire dalla tempesta. Il momento è di assoluta emergenza”.

lavori argine Traversara 4 ottobre

 
Commenta (0 Commenti)

La dichiarazione del presidente La France Insoumise: «Finalmente, ma basta proclami privi di effetto»

Macron: «Stop alle armi per colpire Gaza», ma il corteo è scettico Il corteo pro-Pal di Parigi foto di Christophe Michel/Abacapress.com

«La priorità oggi è di ritornare a una soluzione politica, di smettere di consegnare le armi destinate ai combattimenti a Gaza», ha detto il presidente della Repubblica Emmanuel Macron alla radio pubblica France Inter, in un’intervista realizzata martedì sera ma diffusa ieri.

«La Francia non consegna armi» a Israele, ha precisato Macron alla radio, malgrado le inchieste giornalistiche e le accuse da parte di numerose Ong hanno documentato il contrario. Lo scorso marzo, infatti, un’inchiesta del media Disclose aveva rivelato che «la Francia ha autorizzato alla fine del mese di ottobre 2023, la consegna a Israele di almeno 100.000 componenti di munizioni per fucili mitragliatori suscettibili di essere impiegati a Gaza contro i civili».

Dopo la pubblicazione dell’intervista su France Inter, l’Eliseo ha precisato al canale all-news Bfmtv che la Francia continuerà in ogni caso a esportare verso Israele i componenti necessari alla difesa dello Stato ebraico, in particolare quelli impiegati dal sistema anti-missile Iron dome.
Per l’inquilino dell’Eliseo, la priorità è di «evitare l’escalation» proprio mentre l’esercito israeliano invade il Libano e bombarda Beirut. «Il popolo libanese non può essere sacrificato a sua volta», ha detto Macron, «il Libano non può divenire una nuova Gaza». La Francia, ha annunciato il presidente, organizzerà a ottobre una Conferenza internazionale a sostegno del Libano.

La formula utilizzata da Macron non è priva di ambiguità, ma colpisce perché, finora, la diplomazia francese si era mostrata restia a prese di posizione simili nei confronti di Israele. Per questo, nella piazza parigina dove si svolgeva una manifestazione in solidarietà con il Libano e con la Palestina, le dichiarazioni del presidente sono state accolte con un certo scetticismo.

«Macron mente, e non sarebbe la prima volta» ha detto Omar Alsoumi, uno dei fondatori del collettivo Urgence Palestine e tra gli organizzatori della manifestazione. «Vi sarebbero molte ragioni per contestare la legittimità di Macron», ha proseguito Alsoumi, «il fatto che – come gli ha detto una donna palestinese durante la sua visita in Canada – non sia capace di fermare il proprio alleato è una di queste».

Il 26 settembre scorso, Macron era stato accusato di «avere del sangue sulle mani» da dei contestatori durante una conferenza stampa col premier canadese Justin Trudeau a Montreal. Accuse echeggiate nella manifestazione di ieri da numerosi poster col viso del presidente e la scritta: «complice», appesi un po’ ovunque lungo il percorso.

Avvolta in una bandiera libanese e con in testa una kefiah rossa, Mariane si è detta invece più ottimista. «È un po’ tardi, ma spero sia vero, sarebbe una buona cosa», ha detto, rispetto alle dichiarazioni di Macron. Questa giovane lavoratrice dello spettacolo libanese è originaria di Nabatiye, una città nel sud del paese che già da mesi subisce i bombardamenti israeliani. «La mia famiglia è ancora là, stiamo cercando di farli uscire dal paese, io ora sono bloccata qua», dice.

Alla manifestazione erano presenti anche alcuni sindacati – come la Cgt e Solidaires – e degli esponenti de La France Insoumise, tra i quali Jean-Luc Mélenchon e il presidente insoumis della commissione finanze della Camera, Eric Coquerel.

Per i partiti del Nuovo Fronte Popolare, le parole del presidente della Repubblica sono positive, seppur tardive: «Finalmente, e tanto meglio», ha commentato per esempio il segretario dei socialisti Olivier Faure su X.

«Bisogna smettere di inviare armi a Israele come diciamo da mesi», ha detto dal canto suo il coordinatore di Lfi Manuel Bompard, per il quale tuttavia «contano solo gli atti» e non «le frasi prive di effetti»

Commenta (0 Commenti)

Cessate il fuoco Diecimila persone a Roma, pullman fermati prima del Raccordo. Moltissimi sono accorsi per protestare contro la stretta repressiva. I tafferugli sono arrivati alla fine: feriti 3 manifestanti e 24 agenti

Manganelli e divieti non arrestano la piazza palestinese

 

I guai sono arrivati tutti insieme e tutti alla fine. Quando la manifestazione convocata da Udap, Giovani Palestinesi e Associazione dei palestinesi in Italia era stata appena sciolta dagli organizzatori, un drappello di poche decine di persone ha cercato di forzare il blocco della polizia tra Piramide e viale Ostiense. La carica di alleggerimento è durata lo spazio di pochi minuti, poi dalle retrovie è avanzato un altro gruppo di manifestanti (anche qui nell’ordine delle poche decine) che ha dato vita a una sassaiola corredata da petardi e lì la risposta delle forze dell’ordine è stata più veemente: lacrimogeni, idranti sparati non in orizzontale ma dall’alto e infine una carica più dura, arrivata fino alla metà del piazzale. Il bilancio finale è di tre feriti, quattro fermati, che vanno ad aggiungersi ai 19 che erano stati fermati in mattinata mentre cercavano di raggiungere Roma, con 38 fogli di via firmati al volo. In totale, fanno sapere dalla questura, i controllati sono stati 1.600. Ventiquattro i contusi tra le forze dell’ordine.

IN PIAZZA le presenze hanno toccato almeno quota diecimila, malgrado la pioggia e lo sciopero dei mezzi pubblici. La mattina si era aperta con Radio Onda Rossa che ha anticipato persino il notiziario di Radio Rai nel dire che la «manifestazione statica» era stata infine concessa, mentre su Whatsapp giravano numeri di telefono di avvocati da chiamare in caso di bisogno. C’erano studenti in grandi quantità, famiglie con bambini, vecchie glorie del movimento e tanta gente comune accorsa non soltanto per mostrare la sua vicinanza ai palestinesi che ogni giorno continuano a morire a centinaia, ma anche per il clima che si era venuto a creare nei giorni precedenti al corteo, tra divieti e allarmi, mentre sullo sfondo resta il tema del nuovo durissimo ddl sicurezza che a breve diventerà legge. Così abbiamo incontrato il settantenne con il fazzoletto dell’Anpi al collo e l’aria di quello che non si perde una manifestazione, la mamma accorsa a controllare il figlio sedicenne, la ragazza alla quale non interessa la piattaforma della convocazione e tiene a ribadire di non voler «rispondere a quello che scrivono gli altri». Tra i volti notevoli si è visto anche quello imbiancato di Roberto Nistri, ex Terza posizione e tra i fondatori dei Nar, macchina fotografica al collo e zaino sulle spalle. Nessuno si è accorto di lui, forse perché nessuno sapeva chi fosse (stato).

IN QUESTO CONTESTO i gruppi organizzati si sono fatti notare solo per le loro bandiere, ma non sono stati i protagonisti della piazza. Anzi, nel minuetto che ha tenuto banco per gran parte del pomeriggio – corteo sì, corteo no, corteo forse – non si riusciva a capire chi avesse l’incarico di gestire la pratica, cioè chi materialmente avrebbe dovuto spiegare al megafono il da farsi. Così, se ogni entrata di piazzale Ostiense era stata blindata (con gli agenti che sono per lo più rimasti dietro ai mezzi quasi tutto il tempo), quando la massa si è mossa non ha potuto fare altro che girare intorno all’aiuola, formando un curioso serpentone che si è mosso in tondo. Sembrava finita lì, e invece all’improvviso quella che aveva tutta l’aria di una manifestazione tranquilla, quasi anonima considerate le premesse, si è trasformata in un episodio di tafferugli (e già si sprecano le solite voci sugli infiltrati). Non tutti, peraltro, si erano accorti di quanto stava accadendo: i più lontani dall’imbocco di viale Ostiense hanno preso atto della situazione solo quando la carica è arrivata fino a quasi il centro della piazza, dove qualche decina di studenti stava ballando la musica arabtronica sparata dalle casse del furgoncino degli organizzatori.

PRIMA, sotto un cielo plumbeo e una pioggia battente che ci ha messo un paio d’ore abbondanti a lasciar spazio al sole, la sfilza di interventi non ha deluso le aspettative di chi era venuto solo a cercare lo scandalo. Va detto che lo spettacolino oratorio sembrava proprio costruito ad uso e consumo esclusivo dei giornalisti (pure attaccati perché non racconterebbero la verità su quanto accade in Medio Oriente). Lo spazio davanti al microfono, infatti, era stato riservato ai soli cronisti, con il servizio d’ordine che si aggirava per chiedere ai manifestanti «semplici» di mettersi dietro ai cordoni. In mezzo alla folla si è venuto a creare uno spiazzo per le telecamere, i microfoni e i taccuini, mentre intorno la stragrande maggioranza dei presenti intonava cori e slogan ormai consueti: Palestina libera, From the river to the sea Palestine will be free, Netanyahu assassino, intifada intifada!

SI DICEVA degli interventi: mentre all’inizio le voci dei palestinesi erano tutte concentrate a parlare della carneficina di Gaza, quando è venuto il tempo delle sigle, diciamo, locali sono arrivate anche le evitabilissime celebrazioni del 7 ottobre 2023 come data d’inizio di una rivoluzione o, dipende, eccezionale momento di resistenza. Non è sfuggito nemmeno il tizio col fazzoletto di Hezbollah, lietissimo di mostrare cotanto trofeo ai fotografi e ai cameraman. I tempi sono quel che sono e il famoso quarto d’ora di celebrità che secondo Andy Warhol sarebbero prima o poi spettati a chiunque adesso sono un tempo sin troppo lungo. Basta un gesto o anche meno. Lo stesso vale per le svariate sigle di movimenti residuali consapevoli che l’unico modo possibile per guadagnare una menzione in cronaca è di spararla grossa.

L’IMPRESSIONE che resta è molto meglio delle premesse, comunque: giovani e giovanissimi hanno messo il proprio corpo a disposizione di una causa di giustizia, poco o per nulla spaventati dai divieti di polizia e dalle neanche tanto velate minacce dei giorni scorsi, forti di una lucidità e di uno spirito che altre frange sembrano ormai aver perso del tutto. Se è tanto o se è poco probabilmente non si può ancora dire. Ma per il momento basta così.

Commenta (0 Commenti)

La guerra che domani compie un anno registra un altro giorno di pesanti bombardamenti sul Libano e sulla Striscia di Gaza con decine di vittime. Israele ora pensa a un’azione «più forte» contro la Siria. E per ricordare il 7 ottobre potrebbe partire l’attacco all’Iran

Vigilia di sangue Incerta la sorte del successore di Nasrallah. Campi profughi palestinesi sotto attacco

Nel Libano sotto le bombe è guerra di annientamento

Beirut foto di Wael Hamzeh/Epa

Continuano i bombardamenti in quella che pare sempre di più una guerra tesa all’annientamento e alla distruzione fisica dei luoghi di Hezbollah, di Hamas in Libano e di quello che resta dei movimenti di resistenza palestinese nei 12 campi profughi del paese. Proprio ieri è stato colpito per la prima volta il campo di Beddawi, a Tripoli, nel nord est, in una zona non interessata dal conflitto fino a questo momento. Un drone israeliano ha infatti colpito l’appartamento di Said Attallah Ali, membro dell’ala militare di Hamas, uccidendo lui e altri tre membri della sua famiglia.

ANCORA BOMBE SU BEIRUT nella notte tra venerdì e sabato e durante la giornata di ieri, sempre sulla Dahieh, la periferia a sud di Beirut. Il presidente del consiglio esecutivo di Hezbollah, Hashem Safieddine (probabile successore di Nasrallah), è «irragiungibile» dalle prime ore di venerdì, quando un bombardamento violentissimo pare lo abbia preso nella Dahieh.

Nel pomeriggio ieri colpito Burj el Barajneh, quartiere di Beirut sud, e in serata una sede del comitato sanitario islamico, affiliato a Hezbollah, a Jiyeh, nella regione dello Chouf, a una ventina di chilometri da Beirut. Tre i morti e otto feriti, un primissimo bilancio in serata, ma non si hanno ancora i nomi. Non è la prima volta che Israele attacca personale medico e paramedico.

L’aviazione israeliana ha lanciato missili su Kfar Kila, Deir Mimas e Khiam a Marjeyoun, a Nabatiyeh el-Faouqa (Nabatiyeh) nel sud, a Taraya (Baalbek) nel nord est, solo per citare alcuni dei luoghi.

HEZBOLLAH HA RIVENDICATO invece un attacco alla caserma di Maale Golani alle 16 locali e, secondo le fonti israeliane, alcuni missili hanno colpito una palazzina a Deir el-Assad, nel nord di Israele, facendo delle vittime.

Un soldato della 36ma divisione dell’esercito israeliano è stato gravemente ferito nel sud del Libano, nell’offensiva di terra lanciata da Israele che non sta avendo i risultati dichiarati da

Commenta (0 Commenti)

Libano Forti bombardamenti sulla capitale: nel mirino di Israele c’è Sefiaddine, possibile successore del leader di Hezbollah. Uccisi nove paramedici. L'Onu avverte: «Stiamo assistendo a una ripetizione quasi letterale di ciò che accade a Gaza»

Un uomo tra le rovine del quartiere della Dahieh, dopo una notte di raid israeliani foto Ap/Hassan Ammar Un uomo tra le rovine del quartiere della Dahieh, dopo una notte di raid israeliani

Impossibile entrare a Dahieh. Nel sud di Beirut Hezbollah ha messo in atto un vero e proprio veto alla stampa internazionale che ha interesse a documentare le conseguenze dei bombardamenti israeliani nelle ultime ore. Ciò che è certo, dai muri che tremavano nella capitale libanese, dai funghi di fuoco nel cielo, è che la scorsa notte l’aviazione di Tel Aviv ha colpito pesantemente.

«IL PIÙ DURO bombardamento del Libano», titolano alcuni media arabi; «sono state usate le stesse bombe sganciate per uccidere Nasrallah» dichiarano altri. Gli 11 raid che ieri notte hanno colpito Beirut sono stati devastanti. I media israeliani affermano che l’obiettivo dell’aviazione dello stato ebraico fosse Haschem Sefiaddine, cugino del capo storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ucciso in un bombardamento massiccio il 27 settembre scorso.

Per ora il Partito di Dio smentisce e le testate israeliane non insistono troppo, sintomo del fatto che forse stavolta le bombe israeliane non hanno centrato la preda. Ma ciò non toglie che per ogni ufficiale di Hezbollah che la controparte sceglie di colpire, si contano decine di vittime. Almeno 29 ieri, secondo fonti libanesi, in un bilancio che continua ad aggravarsi e che ormai ha superato ampiamente la guerra del 2006. Libano.

Nell’ultima settimana si contano un altro centinaio di cadaveri sepolti sotto le macerie di Beirut, nella guerra del 2006 i morti totali in 34 giorni di conflitto furono stimati tra i 1.100 e i 1.500. Ora siamo oltre i 2mila. Ma quella era una guerra a tutti gli effetti, iniziata con un’incursione di Hezbollah e seguita da un’invasione in piena regola di 10mila soldati di Tel Aviv nel Libano meridionale. Al culmine delle operazioni militari si stima che Israele avesse 30mila effettivi nel territorio del Paese dei cedri, senza contare il personale aeronautico.

ORA INVECE siamo ancora nelle fasi preparatorie del conflitto su larga scala. Hezbollah continua a diffondere bollettini sulle perdite israeliane e nella sola giornata di ieri afferma di aver ucciso almeno altri quattro soldati nemici. D’altra parte Tel Aviv ritiene che almeno 150 combattenti del partito sciita siano stati eliminati dall’inizio dell’escalation, tra cui «alcuni comandanti di battaglioni e compagnie».

Il tenente colonnello dell’esercito israeliano Nadav Shoshani ha dichiarato che sono ancora in fase di valutazione «i danni causati dagli attacchi aerei nel sud di Beirut giovedì sera, che hanno preso di mira il quartier generale dell’intelligence di Hezbollah». Nello stesso bombardamento, secondo Hezbollah, avevano perso la vita nove paramedici e ne erano stati feriti altri 17.

Nel sud del Libano un attacco israeliano ha ucciso altri paramedici nei pressi di un ospedale governativo (quindi non gestito da Hezbollah) a Marjayoun. Sono 37 le cliniche libanesi che hanno smesso di funzionare, di cui nove dell’Onu.

Marjayoun è un insediamento a maggioranza cristiana che era stato risparmiato dai raid nei mesi scorsi. Ora, tuttavia, sembra che le forze armate di Netanyahu abbiano deciso di rendere «terra di nessuno» (no man’s land) tutta la zone che si sviluppa a sud del fiume Litani.

DI CONSEGUENZA, anche i pochi insediamenti cristiani del sud (che nelle precedenti guerre erano rimasti quasi intoccati) iniziano a pagare le conseguenze dell’escalation. Secondo Laila Baker, direttore regionale del Fondo delle Nazioni unite per la popolazione, «stiamo assistendo a una ripetizione quasi letterale di ciò che stava accadendo a Gaza con le violazioni del diritto umanitario internazionale da parte degli israeliani». Baker ha poi definito «catastrofico» l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani sul Libano, compresi gli attacchi alle infrastrutture sanitarie del Paese.

In un clima di tensione tangibile, ieri il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, è volato a Beirut per ribadire che Teheran è vicino a Hezbollah e che gli ayatollah non hanno paura di svolgere missioni diplomatiche in Medio Oriente nonostante le minacce di Tel Aviv.

 

Commenta (0 Commenti)

Corte costituzionale Camere riunite per l’ottavo scrutinio per un giudice costituzionale. I messaggi ai deputati di Fdi, Lega e FI: «Presenza obbligatoria». Tra i favoriti due nomi vicini a Fdi: Francesco Marini, padre del premierato, e Carlo Deodato, segretario generale di palazzo Chigi. La maggioranza punta a raccattare i 363 voti necessari per l’elezione senza coinvolgere le opposizioni

Consulta, la destra prova a fare da sola: «Martedì tutti in aula» Una votazione a Montecitorio per la Corte costituzionale – Ansa

Un messaggio perentorio apparso ieri sui telefoni dei parlamentari di Fdi smuove la palude che dura ormai da 11 mesi sull’elezione del giudice mancante della Corte costituzionale. Le camere si riuniranno martedì alle 12.30 per l’ottava votazione, dopo sette andate a vuoto da novembre 2023, per rimpiazzare Silvana Sciarra. «Non sono ammesse assenze da parte di alcun deputato (vale anche per ministri, viceministri e sottosegretari)», si legge nel messaggio partito dai vertici di Fdi. «Eventuali missioni – si precisa – vanno rimandate o annullate» e così anche «eventuali impegni – istituzionali e/o politici – già assunti». Vista l’aria che tira sui treni, con ritardi record, si raccomanda di «organizzare il viaggio in modo di essere presenti alla Camera con largo anticipo».

STAVOLTA MELONI SEMBRA fare sul serio, dopo 11 mesi di melina: sulla carta il centrodestra potrebbe avere i tre quinti dei componenti di Camera e Senato necessari per eleggere il giudice, dunque 363. Fdi, Lega, Forza Italia e Noi Moderati ne sommano infatti 355, cui potrebbero aggiungersi i sei deputati delle minoranze linguistiche e qualcuno di quelli che hanno appena lasciato Azione e Iv, da Carfagna a Gelmini e Versace e altri dei gruppi misti.

Quota 363 dunque è teoricamente raggiungibile, ma molto difficile: c’è sempre una quota fisiologica di assenti e il voto è segreto. I nomi che circolano a Montecitorio sono quelli del costituzionalista Francesco Saverio Marini, consigliere di Meloni e padre della riforma sul premierato, e di Carlo Deodato, segretario generale della presidenza del Consiglio. Nomi di fiducia della premier, e dunque difficilmente in grado di ottenere voti fuori dal perimetro della maggioranza. Nei prossimi giorni potrebbe dunque spuntare qualche altro nome finora coperto e in grado di pescare anche tra le fila delle opposizioni. «L’accordo sul nome c’è per cui c’è bisogno del voto di tutti anche di chi ha il diritto alla missione», il messaggio arrivato ai parlamentari della Lega.

FINORA ERA PARSO che Meloni volesse attendere dicembre, quando scadono altri tre membri della Consulta, il presidente Augusto Barbera e i vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti. A quel punto il Parlamento potrebbe procedere all’elezione in blocco di 4 giudici, uno per ogni partito di maggioranza, lasciandone uno alle opposizioni. L’accelerazione fa pensare che invece la premier voglia tentare di mettere a segno almeno una nomina prima del 12 novembre, quando la Corte sarà chiamata a esaminare i ricorsi di 4 regioni contro l’autonomia differenziata, a partire da quelli di Toscana e Puglia.

Difficile che si tratti di un improvviso soprassalto di responsabilità istituzionale, visto che da mesi il presidente della Repubblica definisce la mancata nomina del giudice mancante « un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento» e non smetta di invitare garbatamente il Parlamento ad adempiere ai suoi doveri.

IN CASA PD L’ACCELERAZIONE è arrivata del tutto inaspettata. I dem affermano che da parte della maggioranza non è stato proposto alcun dialogo per un nome condiviso, nonostante la Costituzione abbia previsto un quorum così alto proprio per evitare nomine di parte. Né risultano accordi con altre forze di opposizione. La chiamata via whatsapp è arrivata anche ai parlamentari di Forza Italia. Anche in questo messaggio si lascia intendere che l’accordo in maggioranza +è stato trovato, dunque si chiede una «presenza inderogabile» e il «massimo sostegno per arrivare al quorum prescritto»

Commenta (0 Commenti)