LA QUESTIONE DEMOGRAFICA . Incontro tra la premier e il papa agli Stati generali di Roma. Il ridicolo panel di soli uomini
Roma, Stati generali della natalità con papa Francesco e Giorgia Meloni - LaPresse
Nel linguaggio della politica, «Stati generali» significa che i partecipanti rappresentano tutte le parti in causa. In realtà al convegno organizzato dal Forum delle famiglie lo squilibrio è evidente: su 42 ospiti solo nove sono donne. Quattro di loro sono state invitate solo in quanto leader di partito (Meloni, Schlein, Carfagna, Bonetti).
Il punto più basso si raggiunge prima di pranzo durante l’incontro intitolato «Natalità produce ricchezza», con sette manager e un ministro – tutti maschi – invitati a ragionare dell’impatto economico della crisi demografica. «Peccato che il dibattito non si svolga in una caverna ma agli Stati generali della Natalità» ironizza la vice-presidente del parlamento europeo Pina Picierno.
Con queste premesse, la terza edizione degli Stati generali della natalità si è trasformata nell’ennesimo palcoscenico da cui rilanciare i temi cari alla destra in ambito familiare. Ne aveva approfittato giovedì il ministro Francesco Lollobrigida per chiarire che agli Stati generali non si va a parlare di demografia ma «a capire se il nostro raggruppamento linguistico e culturale possa sopravvivere». Anche in questa occasione il discorso del ministro non è passato inosservato quando ha parlato di «etnia italiana».
Ieri invece è stato il giorno di Papa Bergoglio e della premier Giorgia Meloni che si è presentata vestita di bianco come il pontefice – una gaffe notata dallo stesso Francesco e che rilancia la centralità dell’armocromista. Il dialogo tra premier e papa dura un’oretta.
La sorella d’Italia prova a spostare la discussione su temi più concreti, quello dell’occupazione femminile e della sua conciliazione con il carico familiare: «Se le donne non avranno la possibilità di realizzare il desiderio di maternità senza rinunciare a quello professionale non è che non avranno pari opportunità, non avranno libertà». Giusto. Peccato che il suo governo abbia scelto il Primo Maggio per approvare una riforma del lavoro che favorisce il lavoro precario – senza tutele per maternità e paternità – rispetto a quello stabile.
Di fronte all’evidente contraddizione, il discorso di papa Francesco finisce per apparire un rimprovero a tutto campo al governo e un assist ai giovani accampati in tenda davanti alle università. «Difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti sono problemi reali» dice. «Sono problemi che interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi».
A Bergoglio non è piaciuta l’ennesima tirata sulla «sostituzione etnica» di Lollobrigida. E nemmeno la «scommessa sugli italiani» di Meloni. D’altronde l’Istat, nelle sue citatissime statistiche sull’inverno demografico, non parla mai di «italiani» ma di «residenti» e famiglie che danno impulso alla natalità sono soprattutto quelle straniere. Questa prospettiva dinamica sulla popolazione, che tiene conto anche dei flussi in entrata e in uscita, agli Stati generali è del tutto assente.
Tocca al papa, dunque, ricordare che «natalità e accoglienza non vanno contrapposte». «Una comunità felice – dice – sviluppa naturalmente i desideri di generare e di integrare, di accogliere, mentre una società infelice si riduce a una somma di individui che cercano di difendere a tutti i costi quello che hanno».
La conclusione del suo intervento è un invito alla premier a uscire dal ruolo di eterna vittima: «Adesso gli italiani hanno bisogno di risposte». Maurizio Lupi, leader del pacchetto di eletti di «Noi moderati» e riferimento ciellino in maggioranza, prova a mettere una pezza su un dialogo che assomiglia più a un confronto tra governo e opposizione. «Chi li mette in contrapposizione sbaglia ed è solo ideologia. Sono inutili tifoserie». Con l’effetto collaterale di mettere nero su bianco un imbarazzo reale.
La premier non si fa sfuggire l’occasione per ribadire che va bene difendere la famiglia, ma a condizione che sia quella tradizionale, un tema su cui il Vaticano è più allineato. «Vogliamo che non sia più scandaloso dire che siamo tutti nati da un uomo e una donna, che non sia un tabù dire che la natalità non è in vendita, che l’utero non si affitta e i figli non sono prodotti da banco che puoi scegliere e poi magari restituire».
Ma sa anche lei che dipinge un’Italia immaginaria. «Mostra di essere in piena contraddizione» le risponde da Torino Alessandro Zan (Pd) riferendosi all’impossibilità di registrare le famiglie omogenitoriali con figli. «Parlano di famiglia ma poi discriminano le famiglie».
Commenta (0 Commenti)GUERRA UCRAINA. Oggi il presidente ucraino potrebbe far visita a Bergoglio. Ma sul negoziato la Russia tace. Visita lampo a Roma, incontri previsti anche con la premier Meloni e il presidente Mattarella
Papa Francesco in Vaticano con una bandiera ucraina arrivata da Bucha - Ap/Alessandra Tarantino
Zelensky è atteso oggi a Roma per una visita lampo durante la quale vedrà il presidente della Repubblica Mattarella e molto probabilmente anche papa Francesco e la premier Meloni.
I dettagli non sono ancora noti, manca anche qualche conferma ufficiale, ma tutti gli indizi indicano che il presidente ucraino si recherà prima in Vaticano per essere ricevuto dal pontefice, poi al Quirinale e infine a palazzo Chigi.
DEI TRE APPUNTAMENTI quello con il papa è il più importante, anche alla luce delle indiscrezioni delle scorse settimane sulla missione diplomatica condotta dalla Santa sede: annunciata da Bergoglio nel volo che il 30 aprile lo riportava a Roma da Budapest, subito smentita da Kiev prima e da Mosca poi, infine confermata dal cardinale segretario di Stato Parolin, che ancora mercoledì scorso, a margine di un convegno alla Pontificia università lateranense su don Milani, ribadiva che «ci sono novità riservate» e che quindi la missione «andrà avanti».
Rispetto all’incontro di oggi, da Mosca minimizzano: non è legato alla «missione di pace» di cui ha parlato il pontefice nei giorni scorsi – scrive l’agenzia ufficiale russa Tass, citando «una fonte vaticana» –, Zelensky avrebbe fatto richiesta «solo alcuni giorni fa» di essere ricevuto da Bergoglio durante la sua visita a Roma e la richiesta è stata accolta.
L’agenda di papa Francesco per oggi è stata lasciata libera da impegni, proprio per consentire di accogliere in Vaticano il presidente ucraino in qualsiasi momento della giornata.
SI TRATTEREBBE del secondo faccia a faccia tra i due, dopo
Leggi tutto: Aspettando Zelenksy (e Mosca). Il papa lavora alla pace vaticana - di Luca Kocci
Commenta (0 Commenti)SINDACATI AL MINISTERO. Cgil e Uil: le priorità al Sud sono altre. Il leader leghista ha mostrato il suo «cantiere-Italia»
L'incontro fra il ministro Salvini e i sindacati - Foto Twitter Cgil
Non fosse per la solita gaffe sull’annuncio della creazione di un dipartimento sul caro-affitti che invece esiste già, ieri per Matteo Salvini è stata una giornata positiva. Porta a casa il consenso della Cisl rispetto al suo operato come ministro delle Infrastrutture.
Il tutto è avvenuto durante l’incontro al ministero con i sindacati. Oltre a Cgil, Cisl e Uil, era presente l’ormai gettonatissima e salviniana Ugl che ha ben poca rappresentanza ma viene sempre convocata e sostiene il governo talmente tanto da essere premiata con la prossima nomina del suo segretario generale Paolo Capone a presidente dell’Inail.
L’ordine del giorno della convocazione era vastissimo ma Salvini lo ha interpretato a modo suo: ha mostrato ai sindacalisti il «Cantiere-Italia», un libro dei sogni per sedicenti «50 miliardi di lavori pubblici nel 2023, sommando – spiega il titolare del Mite vicepresidente del consiglio – gli interventi in corso e quelli che partiranno quest’anno, tra ferrovie e strade, insomma, una mole incredibile».
Il piatto forte è naturalmente il ponte sullo stretto di Messina per il quale Salvini annuncia trionfante che «tutta l’Italia e l’Europa attendono da 50 anni e, se tutto va bene, sarà transitabile nel 2032». Il costo stimato è di 13,5 miliardi, tutti ancora da trovare perché il Def approvato poche settimane non ne prevede «copertura».
Una dimenticanza che porta il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri a regalare a Salvini «un ponte in miniatura: se non riesce sullo Stretto può costruire questo. Provenie dalla Cina… me ne sono accorto dopo», confessa.
Il confronto è stato «positivo», dicono Cisl, Uil e Ugl. Parla di «un incontro informativo cpn troppa carne al fuoco» la Cgil con la vicesegretaria generale Gianna Fracassi, che sul Ponte resta critica: «Non è un priorità in questo momento. Ora è necessario dare risposta alla mobilità delle persone, rafforzando la viabilità stradale e ferroviaria, e allo sviluppo industriale».
Linea simile da Bombardieri: «Siamo a favore degli investimenti ma c’è un problema di infrastrutture che portano al Ponte e abbiamo chiesto garanzie su altre opere, a partire dall’Alta velocità ferroviaria che ora si ferma a Eboli, e dalla statale 106 dove mancano i tratti Crotone-Sibari e Catanzaro-Reggio Calabria».
Invece la Cisl col segretario confederale Andrea Cuccello, presente al posto di Gigi Sbarra, assente per Covid, si dice convinta che «possa costituire un volano straordinario per tutto il sistema infrastrutturale del Sud» ed è contenta che si sia parlato della «difficoltà a reperire personale per cantieri».
Non manca il tema del Codice degli appalti con il «no» ribadito dai sindacati al subappalto a cascata, ma sempre con il distinguo della (Filca) Cisl che non partecipò alla manifestazione di Fillea Cgil e Feneal Uil.
Sabato Cgil, Cisl e Uil saranno di nuovo in piazza insieme a Milano (il 20 la terza manifestazione a Napoli) per la mobilitazione unitaria. Sperando che la Cisl non parli di ponte di Messina.
Commenta (0 Commenti)GOVERNO. Meloni lo invoca per cambiare la Costituzione, anche da sola. Ma ha i numeri solo grazie al premio di maggioranza e non ha mai proposto l'elezione diretta del presidente del Consiglio
Come in un maggio di tanti anni fa a Milano un altro prima di lei disse «Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca», intendendo la corona, Giorgia Meloni ripete che il popolo le ha dato il mandato di riformare la Costituzione e guai a chi glielo tocca. Cercherà, dice, un’intesa con le opposizioni (o con una opposizione), ma se non la trova farà da sola, dice, «per non venire meno agli impegni con i cittadini».
Proporsi di modificare la Costituzione radicalmente, cambiando addirittura forma di governo, si può anche fare, per quanto sia discutibile che uno stravolgimento profondo dell’assetto istituzionale sia compatibile con lo strumento dell’articolo 138, pensato per puntuali «revisioni». Però per cambiare bisognerebbe conoscere da dove si parte. E per la Costituzione che abbiamo i cittadini elettori non hanno dato né a Meloni né al centrodestra alcun mandato a riscrivere le regole comuni del gioco. Perché a settembre 2022 hanno votato per eleggere deputati e senatori, a loro volta incaricati di esprimere la fiducia al governo. E non è compito del governo riscrivere la Costituzione, neppure se dice di volerlo fare – ma questo è ovvio – non per se stesso ma per chi verrà dopo di lui.
L’opposizione avrebbe potuto ricordarlo con più forza. Invece aderendo al rito delle convocazioni della premier – a prescindere dalle affinità o divergenze nel merito – a rinunciato a smontarle il teatrino e in qualche modo l’ha legittimata nella sua pretesa di dare le carte.
Ma a proposito di mandato popolare, è proprio vero che Meloni può – e quasi deve, a sentir lei – procedere verso l’elezione diretta del presidente del Consiglio perché i cittadini l’hanno votata per questo? In realtà no. Dopo il giro di consultazioni di martedì, in effetti, la formula con meno contrarietà nelle opposizioni risulta essere il premierato. Nel senso che un gruppo di opposizione – o mezzo gruppo, visto che Calenda è assai meno deciso di Renzi – si è sfilato dal resto dichiarandosi favorevole a quello che loro chiamano «il sindaco di Italia». Meloni quindi ha spiegato che si orienterà verso una formula di quel genere per essere più inclusiva. Questo però vuol dire appunto mediare e quindi rinunciare alla sacralità del mandato elettorale. O l’una o l’altra.
In nessuno dei programmi dei quattro partiti di maggioranza è presente, neanche con un vago richiamo, un’ipotesi di scuola, un periodo ipotetico, la formula dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. C’è per tutti – Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e anche Noi moderati – solo la soluzione del presidenzialismo, semi o integrale. Meloni dice: sì, però in quei programmi è indicato il problema al quale si vuole rimediare, l’instabilità. Per questo va bene anche l’elezione diretta del capo del governo. Ammesso che sia efficace, però, se il punto è trovare rimedio al problema le soluzioni possono essere anche altre, molte delle quali indicate dai partiti di opposizione negli incontri di martedì. In ogni caso Meloni si richiama alla purezza del mandato popolare per marciare spedita, anche da sola, però subito annuncia che intende non seguirlo.
Si può pesare, questo presunto mandato popolare? Si può, perché le elezioni del settembre 2022 hanno consegnato due risultati diversi, uno in termini di voto popolare e uno in termini di seggi parlamentari. La legge elettorale e le divisioni degli avversari hanno regalato al centrodestra il più grande premio di maggioranza che ci sia mai stato da quando le leggi maggioritarie sono arrivate in Italia. Meloni governa grazie al fatto che sono con lei quasi il 60% dei deputati e il 57% dei senatori, ma nel voto popolare le destre tutte insieme non sono arrivate al 44%. Dunque il suo è un mandato popolare di minoranza. Un non mandato. Se ha la forza per cambiare la Costituzione con la maggioranza assoluta (che è sufficiente, anche se poi si può chiedere il referendum), e se riesce a mettersi d’accordo, questo governo ce l’ha non come conseguenza del voto proporzionale ma per la distorsione maggioritaria che è presente nella legge elettorale.
Non è un calcolo solo teorico, ha risvolti assai pratici. Perché se si decidesse di far nascere una commissione bicamerale per le riforme – secondo uno dei tanti modelli, tutti diversi, sperimentati in passato -, questa andrebbe composta sulla base del voto popolare, quindi del proporzionale. E non sulla base della consistenza dei gruppi, drogata dal premio di maggioranza. Piccolo particolare: in una commissione che rispettasse il criterio proporzionale, le destra non avrebbero la maggioranza. Ma, appunto, il 44% dei (40 o 60 stando ai precedenti) componenti. Troppo azzardato? È possibile anche una mediazione, quella prevista dallo schema della commissione per le riforme proposta ai temi del governo Letta, che andò vicinissima a essere approvata. Una via di mezzo: la bicamerale sarebbe composta tenendo conto sia del voto alle liste che della dimensione dei gruppi. La destra avrebbe così la maggioranza, ma non sarebbe schiacciante.
Commenta (0 Commenti)ROMA. Oggi alle 16 mobilitazione in Campidoglio
Il Museo dell'altro e dell'altrove - Giansandro Merli
A una settimana dal corteo in difesa di Metropoliz e Museo dell’altro e dell’altrove (Maam), minacciati di sgombero, una nuova mobilitazione sul tema casa andrà in scena oggi nella capitale. Alle 16 movimento per il diritto all’abitare, Spin Time, Asia-Usb e Nonna Roma convocano un’assemblea davanti al Campidoglio per discutere del Piano casa che sta per approdare in giunta. La singolarità dell’appuntamento è che non si tratta di una protesta contro la misura che definirà la strategia dell’amministrazione guidata da Roberto Gualtieri (Pd). Al contrario: la richiesta è approvarla subito.
«Aspettiamo questo Piano casa con ansia, insieme a migliaia di uomini e donne che in città sono minacciati da uno sfratto, per morosità o finita locazione, da uno sgombero o semplicemente non riescono ad accedere a un alloggio per affitti troppo alti o mutui in costante rialzo», scrivono i promotori. Il Piano casa è frutto di un lavoro di confronto lungo un anno e mezzo tra l’amministrazione capitolina, in particolare l’assessorato a Patrimonio e politiche abitative di Tobia Zevi, le organizzazioni che si battono per il diritto alla casa e gli altri soggetti coinvolti sul tema. Definisce un approccio organico alla questione, insieme a un cronoprogramma di interventi e allo stanziamento di fondi. «Questa amministrazione ha investito tanto sulle politiche abitative, raccolte nel Piano casa e già operative dal nostro arrivo: 220 milioni per comprare nuovi alloggi popolari, quasi 500 assegnazioni, due palazzi sgomberati pacificamente e nemmeno una nuova grande occupazione. Vogliamo ripristinare la legalità senza lasciare nessuno per strada, dando prova di umanità e buon governo», afferma Zevi.
Quattro le linee di azione: reperimento di nuovi alloggi; rafforzamento dei programmi di recupero e autorecupero; revisione delle misure di welfare sulla casa; individuazione di nuovi strumenti di monitoraggio e governance. Rispetto al primo punto sono già stati acquistati 199 immobili Inps di cui 120 a scopo abitativo, con una spesa di circa 15 milioni di euro. L’obiettivo è far scorrere le graduatorie di chi ha diritto a una casa popolare. A oggi sono 13mila i richiedenti. L’amministrazione vuole rispondere entro il suo mandato almeno ai 3mila con punteggi più alti, che dunque versano in maggiori difficoltà. Previsto anche un rafforzamento degli strumenti di welfare «a scopo preventivo più che riparativo»: cioè sostenere economicamente chi ha problemi prima che incorra il rischio sfratto.
«Il Piano non deve subire stravolgimenti. È frutto di un dibattito onesto. Dopo il passaggio in Giunta andrà in Consiglio: è importante si approvi rapidamente, non si può arrivare a fine anno. È quello di cui Roma ha bisogno. Le criticità possono essere legate alla sua attuazione, al momento delle delibere attuative», afferma Emiliano Guarneri, segretario generale di Sunia-Cgil Roma. Secondo Angelo Fascetti, di Asia-Usb, «per la prima volta Roma affronta seriamente la questione abitativa. È un importante punto di partenza. Avevamo chiesto di stanziare 1 miliardo, complessivamente saranno 500 milioni: si tratta comunque di fondi importanti. Ma bisogna fare presto perché ci sono tantissime persone in situazioni di estrema precarietà. L’unico punto dolente è la mancanza di interventi diretti per scongiurare le migliaia di sfratti che incombono sulla città».
Il documento affronta anche la vicenda delle occupazioni di Spin Time e Metropoliz/Maam. «In considerazione della loro specificità sotto il piano abitativo, aggregativo e culturale, nel corso del 2023 sarà valutata la fattibilità dei progetti di recupero», si legge. Tradotto: il Comune proverà ad acquisirli. «È un altro segnale positivo – afferma Paolo Di Vetta, del movimento per il diritto all’abitare che nel 2009 ha occupato l’area dove si trovano Metropoliz e Maam – I tempi sono stretti: pende una minaccia di sgombero. Se l’amministrazione non si muove rapidamente si rischiano problemi. Ma siamo fiduciosi»
Commenta (0 Commenti)Nel clima cupo che annuncia una nuova guerra, sanguinosa e distruttiva, tanti a Gaza ieri hanno versato lacrime vere per la morte di un uomo stimato da tutti, morto lunedì notte assieme alla moglie Mervat e al figlio maggiore Yusef nel bombardamento israeliano della loro casa nel centro di Gaza city. Non si tratta di uno dei comandanti del Jihad islami – Jihad al Ghanam, Khalil al Bahtini, Tareq Ezzedin – presi di mira e uccisi nella prima fase dell’operazione israeliana «Scudo e Freccia». Bensì un medico stimato, un dentista, Jamal Khaswan, 52 anni, palestinese in possesso di un passaporto russo ottenuto durante gli studi di medicina fatti nella ex Urss. Khaswan, che lascia altri due figli orfani, ha avuto il «torto» di abitare con la sua famiglia nell’appartamento sottostante a quello di Tariq Ezzedin, le cui sorelle, Dania e Iman, di 19 e 14 anni sono state trovare senza vita sotto le macerie. Senza dimenticare i quattro bambini, sui 15 palestinesi uccisi fino a ieri sera, che hanno pagato a caro prezzo il fatto di essere figli o parenti dei bersagli dell’attacco israeliano. Nel corso del bombardamento contro la casa di Al Bahtini, è morta anche la figlia di cinque anni, Hajar, rimasta uccisa insieme alla cugina Laila. Nell’attacco a Tareq Ezzedin, sono rimasti uccisi i suoi figli di nove e i dieci anni, Ali e Mayar el Din. Nell’attacco contro Ghannam è stata uccisa la moglie Wafa. Tra i feriti ci sono tre bambini e sette donne.
Questo bilancio salirà nei prossimi giorni. L’attacco a sorpresa su Gaza conduce inevitabilmente a un conflitto più ampio, non solo con il Jihad Islami ma anche con Hamas e le altre fazioni armate palestinesi. Si teme anche con Hezbollah in Libano. Ieri sera tutti si attendevano la risposta delle fazioni armate palestinesi che sono rimaste riunite per ore nella «war room» di Gaza. I media israeliani sostenevano che il governo Netanyahu vorrebbe tenere fuori dal conflitto Hamas, la principale forza militare a Gaza. Ma di fronte a un attacco tanto ampio e sanguinoso il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto immediatamente sapere che «il nemico ha fatto un errore nelle sue stime e pagherà il prezzo del suo crimine» e che «l’aggressione ha preso di mira tutto il nostro popolo e la resistenza è unita nell’affrontarla».
Il premier Netanyahu dando il via libera a «Scudo e Freccia» sapeva che avrebbe scatenato una nuova guerra. Lo provano le sue dichiarazioni. «Siamo nel bel mezzo di una campagna e siamo pronti a qualsiasi possibilità», ha affermato Netanyahu pronto a una «guerra su più fronti», anche con l’Iran. «Dal giorno in cui sono stati lanciati i razzi la scorsa settimana, ho incaricato, insieme al ministro della Difesa, di preparare un’operazione per sconfiggere i leader terroristi. Di fatto, i vertici dell’organizzazione terroristica sono stati decapitati», ha commentato Netanyahu. Lo conferma anche la decisione del governo israeliano di procedere oggi all’evacuazione di 4.500 civili dalla città di Sderot, a pochi chilometri da Gaza, in previsione della pioggia di razzi che quasi certamente si abbatterà sul sud di Israele. Nel resto di Israele, tra Tel Aviv e Bersheeva, la popolazione si prepara al conflitto aprendo i rifugi. Gli ospedali sono in stato di allerta. Potrebbe essere coinvolta anche quella che vive a nord, se Hezbollah scenderà in campo. In ogni caso l’ex premier Yair Lapid e l’ex ministro nella difesa Benny Gantz hanno dato la loro approvazione allo scontro. Lo scorso agosto Lapid diede l’ordine di attaccare Gaza e la Jihad islamica nel quadro di offensiva militare che ricorda quella cominciata lunedì notte e che fece una cinquantina di morti.
A Gaza due milioni e 300 mila civili palestinesi non hanno alcun rifugio dove poter cercare riparo da bombe e missili e nemmeno ospedali attrezzati in grado di assistere nel migliore dei modi la massa di feriti che tutti si aspettano. Dalle guerre del 2008, 2012, 2014 e 2021, Gaza è uscita devastata oltre a subire migliaia di morti e feriti. Le conseguenze saranno altrettanto catastrofiche se avrà inizio un nuovo conflitto.
Per ora l’offensiva israeliana non raccoglie gli applausi del mondo. Il coordinatore speciale dell’Onu per il Medio oriente, Tor Wennesland, ha condannato l’uccisione di civili a Gaza. «È inaccettabile», ha detto «Esorto tutte le parti interessate a esercitare la massima moderazione e a evitare un’escalation. Rimango impegnato nel tentativo di evitare un conflitto più ampio con conseguenze devastanti per tutti». La Francia ha ricordato «gli obblighi di protezione dei civili e del rispetto del diritto internazionale umanitario che incombono su Israele». Pronta la replica del ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, che ha attaccato l’Europa dopo la decisione di annullare il ricevimento in occasione della «Giornata dell’Europa» prevista ieri per impedire a Ben Gvir di partecipare come rappresentante del governo israeliano