IL SINDACO DI MILANO, SALA: «È ECONOMICAMENTE INSOSTENIBILE PER UN PAESE GIÀ INDEBITATO». Per rassicurare le cancellerie estere nel testo c’è il «posizionamento dell'Italia a pieno titolo dalla parte dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e dell’Occidente»
Tavolo tecnico del centrodestra, ieri, per mettere a punto il programma. Gli sherpa della coalizione (FdI, Lega, Fi, Coraggio Italia, Udc, Noi per l’Italia e Italia al centro) hanno trovato la quadra sul testo finale che dovrà avere il via libera dei leader. Il documento si chiama Italia domani e fa il verso a quello scelto dal governo Draghi per il portale sul Pnrr. Tra i capitoli due novità: la riforma della giustizia e la svolta ecologica, definita «una priorità». Al primo punto, per rassicurare le cancellerie, c’è il «posizionamento dell’Italia a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e dell’Occidente», seguono le riforme istituzionali e strutturali a partire da presidenzialismo e autonomia differenziata.
Quindi la giustizia: interventi in linea con la riforma del processo penale come «lo stop ai processi mediatici nel rispetto del diritto all’informazione e il diritto alla buona fama»; la riforma dell’ordinamento giudiziario con «la separazione delle carriere e riforma del Csm», la riduzione dei tempi e la semplificazione delle procedure in sede civile e tributaria. Sull’ambiente si punta a rassicurare Bruxelles con l’impegno a «rispettare gli impegni internazionali assunti dal Paese per contrastare i cambiamenti climatici» e a usare «fino in fondo le risorse del Pnrr per l’ambiente, oltre 70 miliardi, per far decollare la transizione ecologica» e per accompagnare «l’industria pesante nella riconversione e nella creazione di nuovi posti di lavoro green». E ancora, in omaggio all’ultima svolta verde di Berlusconi, «la piantumazione intensiva di alberi» e l’educazione ambientale nelle scuole.
No a qualsiasi forma di patrimoniale e, sull’immigrazione, richiamo ai decreti Sicurezza e a un generico blocco degli sbarchi senza citare quello navale che piace a FdI. Capitolo tassa piatta, dove Salvini e Berlusconi si fanno concorrenza. Per evitare conflitti è stata scelta una formulazione senza percentuali: «Estensione della flat tax per le partite Iva fino a 100mila euro di fatturato, flat tax su incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti con la prospettiva di ulteriore ampliamento per famiglie e imprese».
Salvini, intanto, continua la sua propaganda, tra i bersagli i migranti: dopo Lampedusa promette un nuovo viaggio a Ventimiglia per «domare il caos risultato dall’aver cancellato i decreti Sicurezza». Il leader della Lega vuole tassare gli extraprofitti dei gruppi energetici ma, d’altro canto, sogna la pace fiscale, la rottamazione delle cartelle («Serve il saldo e stralcio, lo stato incassa e libera 15 milioni di italiani dalla busta verde») e la flat tax al 15% anche per i dipendenti. Oltre, naturalmente, al nucleare che promette di rendere realtà in 7 anni.
Berlusconi, che è il campione delle promesse, si spende con altrettanta vigoria. La tassa piatta di Fi era al 23% poi è arrivata la concorrenza della Lega rendendo necessario una controfferta: «Con la crescita avremo l’abbassamento delle tasse anche sotto il 20%. La flat tax è il punto più importante del programma». E poi: «Aboliremo l’Irap e non consentiremo mai nessuna patrimoniale né sulla casa né sui risparmi, né sulle successioni e le donazioni». Ma, per carità, non ci sono solo i ricchi: «Contratti di apprendistato e praticantato almeno a mille euro e la completa detassazione e decontribuzione per le aziende che assumono a tempo indeterminato un ragazzo al primo impiego». Fuori dal coro il centrista di destra Toti: «Chi dice che taglierà le tasse, spieghi agli italiani dove prenderà i soldi per farlo Altrimenti sono solo promesse vuote».
Dal sindaco di Milano, Beppe Sala, una bocciatura senza appello della tassa piatta: «È economicamente insostenibile per un Paese già enormemente indebitato. Non credete a queste balle». Scatenato Carlo Calenda: «Ho fatto due conti, il centrodestra ha promesso 200 miliardi di euro. Berlusconi sta al quinto miracolo italiano, nemmeno nostro Signore».
Ancora aperto il cantiere sulle liste ma Salvini sfoggia sicurezza: «Le candidature sono sostanzialmente definite, regione per regione. Mancano i nomi e ci arriviamo a cavallo di ferragosto». Più complicata la partita sui collegi uninominali perché va definita con i gruppi centristi. In casa Forza Italia, invece, c’è da decidere il futuro del fondatore: «Nel mio partito mi hanno assalito, mi hanno detto che è importante che mi candidi» confessa il Cavaliere che sogna un nuovo giro di valzer dopo l’estromissione dal Senato per la condanna.
Mentre Salvini e Berlusconi si rincorrono, Meloni è sulla linea della prudenza per evitare incidenti visto che è saldamente in testa: FdI primo partito dello schieramento con la conseguente opa della leader su Palazzo Chigi. L’ultimo sondaggio Swg la mette sul podio del gradimento con il 32%. Il centrodestra, in base ai dati diffusi dall’Istituto Cattaneo, sfiorerebbe i due terzi degli eletti del prossimo Parlamento.
Commenta (0 Commenti)ENERGIA. E Salvini rilancia l’energia nucleare. Europa Verde: «Energia dannosa e costosa»
La centrale termoelettrica Enel Torrevaldaliga a Civitavecchia - Ap
Nel giorno in cui il regolamento dell’Unione Europea per la riduzione dei consumi di gas è entrato in vigore, anche in Italia si prospetta un aumento della produzione di carbone presentato come provvisorio. Sono sette le centrali a carbone pronte a ripartire per supplire al divieto di importazione del carbone russo in Europa.
SEI CENTRALI sono operative, cinque sono gestite da Enel. Due sono in Sardegna: una a Fiumesanto, amministrata da Ep, a Sassari-Porto Torres, una a Portoscuso, nella zona industriale di Portovesme, gestita da Enel. Enel gestisce le centrali di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, nel Lazio, la «Andrea Palladio» di Fusina, in Veneto, e la «Federico II» di Brindisi. Una si trova in Friuli Venezia Giulia, a Monfalcone, in provincia di Gorizia, gestita da A2a. L’unica dismessa, la «Eugenio Montale», si trova in Liguria, a La Spezia. L’impianto era stato spento lo scorso dicembre ma temporaneamente riattivato nello stesso mese per affrontare il «caro bollette».
NELLO STESSO PERIODO è stata riattivata anche la centrale di Monfalcone, per la quale erano stati avviati i lavori di riconversione. Le centrali dovrebbero essere fermate o riconvertite entro il 2025, salvo ulteriori emergenze.
IL RITORNO AL CARBONE è uno degli effetti della guerra russa in Ucraina, con il moltiplicarsi delle sanzioni anche energetiche da parte dell’Unione Europea contro la Russia, il governo Draghi ha puntato in questi mesi sulla riduzione della dipendenza dal gas russo. Il piano della «diversificazione energetica», al momento, dovrebbe avere assicurato all’Italia forniture aggiuntive per circa 7,5 bcm acquistati in gran parte dall’Algeria. A questi volumi si aggiungono 1,5 bcm che arrivano via Tap dall’Azerbaijan. Altri metri cubi di gas dovrebbero arrivare nella forma di gas naturale liquido (Gnl) ai tre rigassificatori italiani. Dovrebbero entrare in funzione le due nuove Frsu (rigassificatori galleggianti) a Ravenna e Piombino. Stefano Venier, amministratore delegato di Snam, ha definito «fondamentale» avere la prima attiva nel porto di Piombino entro il primo semestre 2023, «perché ci consentirebbe di ricevere durante l’estate due miliardi di metri cubi di Gnl da destinare allo stoccaggio. Nella città toscana tutta la politica locale è contraria alla costruzione dell’impianto a pochi metri dalla costa. Si tratta dell’impianto che i centristi confindustriali alla Calenda vogliono «militarizzare».
PER IL MINISTRO della transizione energetica Roberto Cingolani il piano porterà a uno stoccaggio vicino al 90% per il prossimo inverno. Così si dovrebbe riuscire ad avere un’esenzione dal del 15%, soglia facoltativa richiesta dal piano Repower Eu. L’Italia dovrebbe risparmiare solo il 7% dei consumi e ciò escluderebbe comunque l’ipotesi di razionamento. «Le nuove forniture di gas richiederanno tempo per andare progressivamente a regimeNel breve termine (2022 e 2023) – ha detto Cingolani – la riduzione dell’offerta dalla Russia è compensata dalle nuove forniture algerine e non c’è necessità di misure di contenimento drastico della domanda da parte del settore industriale».
LA QUESTIONE ENERGETICA, legata alla guerra russa in Ucraina, è una questione politica in vista del voto del 25 settembre. Ieri Matteo Salvini (Lega) ha riproposto il piano delle destre sul nucleare bocciato dal referendum dell’8 novembre 1987. A suo avviso servirebbero «sette anni» per costruire una centrale. Europa Verde, dati alla mano, ha dimostrato che «il nucleare è un’energia il cui prezzo al MWh è addirittura maggiore di quello derivante dalla grande speculazione del gas – dicono – La centrale francese di Flamanville è costata 18 miliardi dai 3,7 previsti. La sua costruzione è iniziata nel 2007 e finirà nel 2023».
Commenta (0 Commenti)GLI SFASCISTI. L’istituto Cattaneo: per Meloni & Co. 61,3% dei seggi alla Camera e 64% al senato. Le cifre impietose della simulazione: alla camera 26,8% alla coalizione del Pd, 6,8% al M5S, 4% a Iv e Azione dati per unificati anche se l’accordo al momento non è chiuso. Al senato 25,5% alla coalizione di Letta, 6% a Conte, 3,5% a Iv+Azione. Con queste percentuali la destra sfiorerebbe il traguardo dei 2/3 del parlamento
Matteo Renzi (Iv) e Carlo Calenda (Azione) - Aleandro Biagianti
Mancano ancora pochissime giorni all’ora X, la presentazione dei simboli (14 agosto), la formalizzazione delle liste (21 agosto), dopo la quale rien ne va plus. Ma a questo punto è difficile immaginare qualcosa che possa cambiare il quadro descritto ieri dall’Istituto Cattaneo in una proiezione che profetizza la vittoria della destra per ko. Cifre impietose: 61,3% dei seggi alla destra alla Camera, 26,8% alla coalizione del Pd, 6,8% al M5S, 4% a Iv e Azione dati per unificati anche se l’accordo al momento non è affatto chiuso. Quadro molto simile al Senato: 64% all’armata di sorella Giorgia, 25,5% a quella di Letta, 6% a Conte, 3,5% alla coppia centrista. È vero che con queste percentuali la destra mancherebbe il traguardo dei 2/3 del Parlamento ma è anche vero che lo mancherebbe per un soffio e che la proiezione sui collegi uninominali è decisamente ottimistica, dal punto di vista del Pd. Più di quella degli stessi partiti interessati.
LA SOLA SORPRESA in grado di ribaltare i pronostici sarebbe un ritorno di fiamma Pd-M5S nel quale qualcuno ancora attivamente spera ma che pare in realtà impossibile. Le caselle ancora in sospeso riguardano soprattutto la coppia Calenda-Renzi. Stando ai sondaggi quel matrimonio s’ha da fare, felici o meno che siano gli sposi. Insieme i due “galli nel pollaio” hanno la quasi certezza di passare la soglia di sbarramento, da soli proprio no. Sulla testa di Calenda pende poi la mannaia della raccolta delle firme. Lui si dice certo che basti il simbolo con il quale è stato eletto parlamentare europeo e le fonti di Azione segnalavano ieri il parere positivo di Sabino Cassese. Ma la verità è che Calenda non ha alcuna certezza e la tesi viene tirata in ballo soprattutto per trattare con Renzi a partire da una posizione più forte, in soldoni senza la pistola carica delle firme vacanti puntata alla tempia.
Per ora la trattativa segna il passo. «Ci stiamo lavorando», annuncia laconico Calenda, poi per una volta diserta interviste e telecamere, segno evidente che le difficoltà non sono state superate. I due si sono sentiti per telefono lunedì. Si vedranno a breve, forse oggi, più probabilmente domani o dopodomani. La logica imporrebbe di dare per certa la lista comune ma i fatti hanno già provato in abbondanza che, fuori dal recinto del centrodestra, la logica razionale non è moneta corrente.
A DESTRA INVECE lo è e da quelle parti, infatti, il rebus dei centristi si avvia a composizione nonostante le microformazioni in questione si amino poco. Sono quattro: l’Udc di Cesa, Coraggio Italia di Brugnaro, Noi con l’Italia di Lupi, Italia al Centro di Toti, che fino all’ultimo è rimasto incerto sull’adesione al cartello di destra e che, se nascesse il “terzo polo”, sarebbe il più tentato dal salto della quaglia dopo le elezioni. In nome della necessità di passare la soglia i 4 avevano già deciso di accorparsi a due a due. Ora sono passati a un gruppo unico, logo e nome ancora da definire ma numero di seggi da spartirsi invece già definito: 16 e non sono pochi. I simboli dei tre partiti maggiori sono invece definiti: uguali a quelli del 2018 i simboli di FdI e Lega, illuminato da un’ulteriore mano di bianco quello di Arcore nel quale campeggia la formula «Berlusconi presidente» anche se Silvio giura di non aver deciso se candidarsi o meno. Certo racconta di essere assediato da postulanti che insistono perché sia in campo e lui stesso è già lanciato in campagna elettorale. Ci sono pochissimi dubbi su come risolverà il rovello e anzi l’amletico dubbio ricorda da vicino l’“indecisione” che Berlusconi adoperò con maestria nel 1994 per far montare la suspence e lanciare così la sua candidatura col massimo della visibilità.
Ieri il centrodestra si è riunito, ufficialmente per definire il programma. Non che i programmi nella realtà della politica contino più che tanto. In compenso indicano con una certa chiarezza il modello di governo che la varie parti hanno in mente. Giorgia Meloni e Salvini gareggiano in truculenza nelle loro dichiarazioni contro gli immigrati. Lo stesso Salvini e Berlusconi giocano al ribasso sulla Flat Tax: il Cavaliere al 23%, Salvini addirittura al 15%. Questo sarà il programma e il segno del governo della destra. Ma la vera svolta nella destra è un’altra. Giorgia Meloni si è decisa a dire chiaramente che la premier sarà lei. Gli alleati concordano. Sempre che prenda un voto in più degli altri ma stando ai sondaggi interni potrebbe arrivare a quasi il doppio degli alleati messi insieme. Quella partita ormai è chiusa.
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Militari ucraini con missili anti-carro statunitensi nell’aeroporto di Boryspil - Ap/Efrem Lukatsky
Garrick Harmon è uno degli uomini più importanti nelle gerarchie militari americane. Comanda il centro di assistenza alla sicurezza, l’organismo che gestisce gli aiuti bellici degli Stati uniti ai paesi stranieri.
Dalla sua opinione dipende, insomma, il sostegno all’esercito ucraino, ormai vicino ai 25 miliardi di dollari. I movimenti di Harmon dovrebbero essere coperti dal più stretto riserbo. Eppure a Kiev hanno rivelato che il generale si trova «da alcuni giorni» nel paese, dopo nuove e preoccupanti rivelazioni sul flusso di armi che attraversa il paese.
Secondo un’inchiesta del network americano Cbs soltanto il 30-40% delle forniture finirebbe nel Donbass, lungo la linea su cui il fronte si è attestato. Il resto, nella migliore delle ipotesi, sarebbe fermo nei centri di smistamento allestiti in Europa, oppure nei depositi nella parte ovest dell’Ucraina.
CHE GLI STATI UNITI abbiano deciso di mandare sul campo Harmon in persona è una pessima notizia per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Negli ultimi mesi lo scetticismo degli alleati sul controllo delle risorse che permettono al suo esercito di rimanere in piedi è gradualmente cresciuto.
Ad aprile l’Europol ha messo in guardia sul pericolo che le armi trasferite all’Ucraina possano essere rivendute a organizzazioni criminali. A metà luglio alcuni governi della Nato hanno chiesto di introdurre un sistema di tracciamento. Le rassicurazioni avanzate di volta in volta dal ministro della Difesa, Oleksander Reznikov, e dal suo collega degli Esteri, Dmytro Kuleba, non sembrano avere sortito l’effetto sperato.
L’arrivo di Harmon rappresenta, così, il più grande ed evidente segnale della CasabBianca a Zelensky. In privato, ha scritto la scorsa settimana l’editorialista del New York Times Thomas Friedman, i funzionari americani sono molto più preoccupati per la leadership ucraina di quanto facciano intendere: «C’è profonda sfiducia nei confronti di Zelensky».
Il sostegno concesso all’Ucraina ha ben pochi precedenti. Ai 23 miliardi di dollari in aiuti militari ricevuti da Washington occorre aggiungere i quattro della Gran Bretagna, i due della Polonia e il miliardo e mezzo della Germania.
OLTRE AL PACCHETTO straordinario da undici miliardi di euro che l’Unione europea ha approvato per garantire al paese stabilità finanziaria. I dubbi dell’amministrazione americana sembrano sostanzialmente due. Il primo riguarda la tenuta dell’Ucraina di fronte alla crisi: quanto a lungo può reggere il sistema Zelensky? Il mese scorso il capo dei servizi segreti, Ivan Bakanov, e la numero uno della procura generale, Irina Venediktova, sono stati esclusi dai loro posti con decreti presidenziali. Zelensky ha sostenuto l’ipotesi del tradimento, citando l’enorme numero di casi aperti contro funzionari dello stato dall’inizio della guerra.
Pare sempre più credibile, però, che la decisione abbia a che fare con il poderoso traffico di armi e denaro verso l’Ucraina. La seconda questione è ancora più profonda: quant’è vicino Zelensky al punto di vista americano sul futuro dell’Ucraina? Le tensioni con Washington sono cominciate ben prima del conflitto.
Tra il 2019 e il 2020 le autorità americane hanno aperto diversi filoni di inchiesta sugli affari del miliardario Ihor Kolomoyskiy, che di Zelensky è considerato il padrino politico. L’anno scorso il Dipartimento di stato ha inserito lui e i suoi familiari in black list.
ALTRI SCAMBI non esattamente amichevoli sono avvenuti alla vigilia dell’invasione. Gli Stati uniti sostenevano che i russi con la loro imminente offensiva avrebbero ridotto l’esercito ucraino a pochi nuclei di resistenza. Zelensky ha smentito a lungo la possibilità di una invasione su larga scala e ha accusato apertamente gli americani di «alzare la tensione».
Il caso Harmon è l’ultimo episodio di una relazione difficile. Da Kiev, come detto, hanno fatto sapere che il generale è in Ucraina da «alcuni giorni». Il suo viaggio avrebbe preceduto, quindi, di poche ore l’inchiesta della Cbs. Le proteste del governo contro quel reportage sono state forti e il network ha deciso di rimuoverlo dal suo sito alla luce di «nuovi elementi».
Ora, ha scritto Kuleba sul suo profilo Twitter, «servirebbe un’inchiesta internazionale per stabilire chi lo ha permesso e perché». I movimenti americani sono un avvertimento anche ai russi.
Prima di assumere l’incarico che ricopre oggi, Harmon ha costruito le difese della Nato nei paesi Baltici, ha avuto rapporti con la Georgia, e ha servito come attaché militare all’ambasciata a Mosca. È, insomma, una figura chiave nel confronto con il Cremlino.
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DE MAGISTRI OGGI A ROMA. Banchetti in tante città per una delle poche formazioni costrette alla raccolta
Luigi De Magistris (Unione popolare) - Ansa
Parte ufficialmente oggi, ma già ieri si sono aperti i primi banchetti in diverse città (Napoli, Bologna, Roma, Padova, Pescara, Ancona), la raccolta di firme per la presentazione delle liste di Unione popolare. La formazione che vede insieme Rifondazione comunista e Potere al popolo e che ha indicato nell’ex sindaco di Napoli ed ex candidato alle regionali in Calabria Luigi De Magistris il «capo politico» è tra la poche costrette a presentare le sottoscrizioni in appoggio alle candidature.
Niente affatto poche, almeno 750 (la metà delle 1.500 previste dalla legge perché si tratta di elezioni anticipate) in ognuna delle 49 circoscrizioni elettorali della camera e 26 del senato. In totale quasi 60mila firme corredate dai certificati elettorali dei sottoscrittori e validate dagli autenticatori abilitati (funzionari pubblici, notai, avvocati, molti dei quali sono in ferie in questo periodo).
Unione popolare può contare sulla presenza organizzata di Rifondazione comunista sul territorio e sulla rete della case del popolo di Potere al popolo al Mezzogiorno, ma non sarà una sfida semplice anche perché il tempo a disposizione non è molto. Le liste di candidati con le firme di appoggio andranno infatti consegnate nelle Corti di appello tra il 20 e il 21 agosto.
Questa mattina De Magistris lancerà la corsa da Roma, dallo spazio antistante la camera dei deputati. Unione popolare ha programmato infatti il debutto della campagna di raccolta e la presentazione di alcuni candidati a piazza Montecitorio alle 11.30.
«Di fronte ai saltimbanchi della politica – ha detto ieri De Magistris – che pensano solo alle poltrone e ci costringono a raccogliere le firme, abbiamo messo in campo una squadra di persone credibili e oneste. Il nostro è un progetto inclusivo e ampio, fatto di associazioni, movimenti, comitati, collettivi e partiti. Abbiamo bisogno dei cittadini e delle cittadine per riprenderci la democrazia».
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GLI SFASCISTI. Il nuovo obiettivo degli attacchi è Emma Bonino: «Negoziava dalla parte di Enrico Letta». Calenda: «Il Nazareno ha fatto prima un patto con noi e poi con chi alla fine è comunista. Sapevano che avrei rotto ma pensavano che non lo avrei fatto per le firme»
Il giorno dopo un botto che avrà conseguenze devastanti (la rottura del patto tra dem, Azione e +Europa), Enrico Letta e Carlo Calenda si rimpallano l’accusa di averlo provocato. Laconico il segretario del Pd, quello che è oggi più nei guai di tutti: «Chi vota per lui vota per Giorgia Meloni». Fluviale il centrista, che bombarda a colpi di tweet e interviste e non risparmia neppure l’ex compagna di lista, Emma Bonino: «Il Pd ha fatto prima un patto con noi e poi con chi alla fine della fiera in fondo è comunista. Letta e Bonino sapevano che avrei rotto ma pensavano che non lo avrei fatto per le firme e Bonino ha sempre negoziato dalla parte del Pd». E in serata in televisione rincara: «Ho 50 messaggi che dimostrano che Letta era consapevole che avrei rotto se avesse firmato un patto anche con Fratoianni e Bonelli». Stracci che volano, continueranno a volare e non può che essere così.
IN REALTÀ, NELLA SOSTANZA il leader del Pd si è attenuto fedelmente all’accordo stretto una settimana fa con Azione e +Europa. Il problema sono state le forme, che in una campagna elettorale pesano. Calenda aveva chiesto che l’intesa «tecnica» con Europa Verde fosse quasi nascosta, contrabbandata come mero espediente. Senza telecamere, strette di mano pubbliche, conferenze stampa. Senza patti neppure «in difesa della Costituzione». In caso contrario temeva che si sarebbe preclusa ogni possibilità di raccogliere voti nell’elettorato di destra. Ma Sinistra italiana e Verdi non potevano accettare la parte dell’ospite sgradito e mal tollerato, del quale ci si vergogna. L’accordo era impossibile e infatti non ha retto neppure 24 ore.
LA DEFLAGRAZIONE crea problemi a tutte le parti in causa, salvo Ev che festeggia e ne ha tutti i motivi perché, con Calenda e compagnia centrista al fianco, superare la soglia del 3% sarebbe stato difficilissimo mentre l’abbandono di Carlo riapre almeno quella possibilità. Per Letta, invece, il conto è terrificante. Senza Calenda la battaglia nei collegi uninominali è praticamente impossibile. Per il campo strettissimo di Letta conquistare anche solo 15 seggi uninominali alla Camera sarebbe oggi un successo quasi insperato. Salvo miracoli, e ce ne vorrebbe uno grosso, nel prossimo Parlamento la superiorità della destra sarà schiacciante, comunque sproporzionata ai rapporti di forza reali nel Paese. Con una penuria simile anche garantire seggi davvero blindati agli alleati, come Luigi Di Maio che caduto il veto di Calenda resterà nella lista col suo nome, o come Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, anche loro liberi ora dai veti, sarà un’impresa. Dovranno sudarseli.
PER CALENDA il problema sono quelle firme sulle quali, secondo la sua versione, contavano Letta e Bonino per ridurlo a miti consigli. +Europa resterà con il Pd lasciando così scoperto il centrista. Per correre da solo dovrebbe trovare 36mila firme entro il 21 di questo mese, impresa proibitiva in pieno agosto. Ma il leader di Azione è convinto di aver aggirato l’ostacolo grazie alla sua elezione al parlamento europeo, proprio oggi gli sarebbe arrivata la conferma che nel suo caso le firme non sono necessarie. Oppure si può sempre cercare qualcuno detentore di un simbolo, come ad esempio il socialista Nencini con il quale qualche contatto ci sarebbe già stato. Oppure può dare vita a una lista comune con Matteo Renzi, al quale l’idea piacerebbe assai perché gli permetterebbe di risolvere il problema dell’ostilità personale che, a torto o a ragione, si appunta su di lui. Una scelta ancora non è stata fatta ma i due leader, molto simili politicamente ma difficilmente compatibili per la comune tendenza al comando solitario, dovranno sciogliere il nodo rapidamente: in base alla comunicazione del Viminale, i simboli vanno presentati entro il 14 agosto.
SIA CHE I DUE arrivino alle urne come partiti divisi e coalizzati, sia che invece si compattino in una lista unica, il 25 settembre scioglierà l’enigma del leggendario centro dimostrando se esiste davvero, su quale forza può contare, con quali possibilità di allargarsi calamitando dopo le elezioni aree del centrodestra, a partire dalla formazione di Giovanni Toti, che è stata la più esitante e dubbiosa nell’aderire alla coalizione di centrodestra. Ma quale che sia il risultato del centro, non cambierà di molto la geografia di un prossimo Parlamento nel quale Giorgia Meloni, che i sondaggi interni alla destra accreditano del 30% contro il 10% della Lega e il 7% di Fi, detterà legge.
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