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VATICANO. Francesco ricorda «gli orfani ucraini e russi» e Daria Dugina, per l’ira dell’ambasciatore ucraino

Il papa contro tutti: «Delinquente chi guadagna con la guerra» Papa Francesco - LaPresse

«Coloro che guadagnano con la guerra e con il commercio delle armi sono dei delinquenti che ammazzano l’umanità». Severo monito, ieri, di papa Francesco contro la guerra ma anche contro chi la alimenta e con essa fa soldi, dai produttori di armi alle banche che sostengono il commercio di armamenti.

L’appello arriva a sei mesi dall’attacco all’Ucraina da parte della Russia (24 febbraio), come ricorda lo stesso pontefice, invocando «la pace per l’amato popolo ucraino che patisce l’orrore della guerra» e chiedendo «passi concreti per scongiurare il rischio di un disastro nucleare a Zaporizhzhia».

La condanna della guerra è totale. «Tanti innocenti stanno pagando la pazzia di tutte le parti, perché la guerra è una pazzia», ha detto il papa, rievocando la Pacem in Terris di Giovanni XXIII. E tutti ne sono vittima: «Penso ai bambini, tanti morti, tanti rifugiati, tanti feriti, tanti bambini ucraini e russi che sono diventati orfani e l’orfanità non ha nazionalità». Fra le vittime «innocenti» ricordate da Bergoglio, anche Daria Dugina, la figlia dell’ultranazionalista Alexander Dugin, uccisa con un’autobomba pochi giorni fa. «Penso a quella povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca».

Parole, quelle del papa, che hanno scatenato le ire di Kiev. L’ambasciatore ucraino presso la Santa sede, Andrii Yurash, ha giudicato «deludente» il discorso di Francesco. «Non si possono mettere insieme aggrediti e aggressori, vittime e carnefici, stupratori e stuprati. Come è possibile citare l’ideologa dell’imperialismo russo come vittima innocente? È stata uccisa dai russi come vittima sacrificale e ora è uno scudo di guerra», ha twittato Yurash. Il quale però, il giorno prima, all’Adnkronos, aveva detto parole diverse, ringraziando il papa per la sue preghiere per l’Ucraina e ribadendo l’attesa per una sua visita a Kiev: «Aspettiamo che il papa annunci la data».

Evidentemente è bastato che Bergoglio ricordasse anche le vittime russe per far modificare i toni dell’ambasciatore, come peraltro già accaduto in passato: basti pensare alle critiche verso la Santa sede per la decisione di far portare la croce, durante la Via crucis del venerdì santo al Colosseo, a due donne, una ucraina e una russa.

Intanto salta il colloquio fra papa Francesco e il patriarca ortodosso russo Kirill, che avrebbe dovuto svolgersi a margine del meeting mondiale dei leader religiosi in Kazakhstan (14-15 settembre). Il Patriarcato di Mosca ieri sera ha fatto sapere, tramite l’agenzia Ria Novosti, che Kirill non andrà in Kazakhstan e «di conseguenza» non incontrerà il pontefice.

«Il colloquio non può svolgersi a margine del meeting, ma deve diventare un evento indipendente per il suo significato speciale, deve essere preparato con la massima cura, il suo ordine del giorno deve essere concordato, il documento che ne risulta deve essere pensato in anticipo», ha spiegato il metropolita Antonij di Volokolamsk, “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca.

 

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PREVISIONI. La stima sulla base degli ultimi tre sondaggi: alla coalizione di Meloni mancherebbero un pugno di seggi alla camera e al senato per avere la maggioranza sufficiente a cambiare la Costituzione in solitudine. Nullo il contributo di Di Maio al Pd

Un mese al voto, centrodestra vicino ai due terzi Manifesti elettorali del Pd - LaPresse

Trenta giorni al voto. I sondaggi cominciano a mostrare una certa stabilità. Sarà possibile pubblicarli ancora per due settimane, poi scatterà il divieto.
Almeno per i quattro partiti principali le oscillazioni vanno diminuendo. Vediamo gli ultimi tre sondaggi, senza dimenticare che tutti dichiarano un margine di errore di più o meno il 3%. Sono sondaggi diffusi negli ultimi tre giorni ed effettuati la scorsa settimana da Termometro politico, Tecné e BiDi media.

Fratelli d’Italia è stimato al 24, 2% (media di 24,3; 24 e 24,3). Il Partito democratico appena sotto al 23,7% (23,5; 24,2 e 23,5). La Lega Salvini premier al 13,6% (14,3; 13,6 e 12,9). Il Movimento 5 Stelle al 10,4% (11,1; 10 e 10,2). Più variabile Forza Italia, stimata in media all’8,5% (7,3; 7 e 11,4 secondo Tecnè che ha effettuto il sondaggio per le tv Mediaset).
Questo significa che al centrodestra viene assegnata una percentuale complessiva del 47,6%. Al totale abbiamo aggiunto anche l’1,3% della lista-contenitore dei centristi di centrodestra, Noi moderati che malgrado gli sforzi di Lupi, Toti, Brugnaro e Cesa al momento è valutata molto male. Appena sopra però l’1% che è la soglia minima con il Rosatellum per portare un contributo alla coalizione, anche se non si supera lo sbarramento del 3% che dà l’accesso ai seggi.

Per avere una stima complessiva del centrosinistra, invece, al Pd bisogna aggiungere innanzitutto la lista bicicletta di Sinistra Italiana e Europa Verde. Per due sondaggi su tre è destinata a superare la soglia di sbarramento, in media si attesterebbe al 3,4%. Di Maio è dato anche sotto l’1% quindi va tenuto conto solo delle previsioni di +Europa, che tutti e tre i sondaggi danno sotto la soglia del 3%; in media al 2,3%. Dunque il «secondo polo» sarebbe al 29,4%, circa venti punti percentuali sotto il primo. Il «terzo polo», a questo punto senza apparente possibilità di errore, si avvia a essere il Movimento 5 Stelle, parecchio staccato, con circa un terzo della percentuale della coalizione Pd, Sinistra-Verdi e +Europa. A Calenda e Renzi, malgrado le autodefinizioni, spetta al massimo il ruolo di «quarto polo». I sondaggi sono abbastanza d’accordo sul peso di Azione-Italia viva, che in media raggiunge il 4,9% (4,9; 5,2 e 4,8).

Il sistema elettorale non consente di fare previsioni sull’assegnazione dei seggi solo sulla base delle percentuali stimate per le liste. Principalmente a causa del fatto che circa un terzo dei seggi (147 per la camera e 74 per il senato) saranno assegnati con il sistema uninominale in cui passa solo il più votato. Le stime risalenti a qualche settimana fa – e dunque basate su sondaggi vecchi – dell’istituto Cattaneo dicevano che il centrodestra non dovrebbe comunque scendere sotto i 120 seggi uninominali alla camera e 60 al senato. Aggiungendo a questi quelli che è più prevedibile attribuire nella parte proporzionale, 140 alla camera e 65 al senato considerando il premio implicito che deriva dalla soglia di sbarramento, i seggi del centrodestra a un mese dal voto sono stimabili sui 260 alla camera e 125 al senato. Che significa un pelo sotto il quorum dei due terzi, sufficiente per modificare la Costituzione senza passare dalla conferma del referendum (mancano però appena 7 seggi alla camera e 12 al senato).

Da segnalare un partito che i sondaggi danno al margine della soglia di sbarramento, Italexit di Paragone (che ha imbarcato esponenti No vax e CasaPound), in media è già al 2,5. Mentre Unione popolare, stimata solo da due sondaggi su tre, è data in un caso all’1,5% e in un altro allo 0,9%. Ma la campagna elettorale è appena iniziata.

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GAS E PROFITTI. Bonelli, Evi e Fratoianni in procura per chiedere un'inchiesta sui ritardi nei pagamenti rispetto alla tassa sul 25%. «Uno scandalo che non paghino»

Verdi e Si: esposto per frode su extraprofitti Nicola Fratoianni, Eleonora Evi e Angelo Bonelli alla presentazione della lista Verdi-Sinistra italiana - Foto LaPresse

L’Alleanza Verdi e Sinistra italiana ha presentato un esposto alla Procura di Roma per aprire un’indagine per evasione fiscale e frode fiscale.

«Da ormai sette mesi stiamo denunciando lo scandalo degli extraprofitti: da settembre a giugno, in Italia, i colossi energetici hanno realizzato 50 miliardari di euro di profitti extra sulla pelle delle imprese e delle famiglie italiane. La sola Eni, nei primi sei mesi del 2022, ha realizzato un +670% di utile. E di fronte a questo, alla data prevista del 30 giugno, le compagnie hanno versato solo un miliardo di euro della tassa, già misera, del 25% imposta dal governo».

Così i co-portavoce nazionali di Europa Verde, Angelo Bonelli ed Eleonora Evi, e il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.

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CRISI UCRAINA. La penisola annessa dai russi nel 2014. Erdogan: «Restituirla è diritto internazionale». Dopo i droni-bomba (uno anche ieri), il vertice che l’anno scorso fu snobbato. Connessi tutti i big

Europa e Nato, tutti al summit di Zelensky per la Crimea Piazza dell’Indipendenza a Kiev, ieri, nella giornata della Bandiera nazionale - Ap/The Yomiuri Shimbun

Il mondo risponde ancora una volta alla chiamata di Zelensky. Il summit internazionale «Piattaforma per la Crimea», giunto alla sua seconda edizione, quest’anno ha visto la partecipazione di 60 leader mondiali schierati compattamente a favore del ritorno della penisola sotto la piena giurisdizione di Kiev.

Il tutto tra le preoccupazioni ucraine per eventuali attacchi nel giorno in cui ricorrono i 30 anni dalla proclamazione dell’indipendenza dall’Urss.

IL FORMAT è stato lanciato nel 2021 dallo stesso Zelensky in un momento in cui la sua popolarità era ben lontana dalle vette odierne. La guerra a bassa intensità nel Donbass continuava da 7 anni e ormai l’annessione de facto della Crimea sembrava incontrovertibile.

Nonostante le proteste del Parlamento europeo e della maggioranza degli stati dell’Onu che avevano anche stabilito (e rinnovato) sanzioni contro Mosca.

Dal canto suo il Cremlino ha sempre considerato la Crimea come un territorio russo assegnato all’Ucraina soltanto per motivi amministrativi durante l’Urss (1954).

Insieme a Donbass, Kharkiv e Odessa, la penisola del Mar Nero è sempre stato uno dei territori più legati alla lingua e alla cultura russa dell’Ucraina post-1991. Nel 2014, dopo lo scoppio delle proteste della cosiddetta «Euromaidan» e la cacciata del presidente filorusso Janukovych, le forze russe nella base della Marina di Sebastopoli, nell’ambito di un accordo di cooperazione tra Russia e Ucraina, occuparono la penisola.

SUCCESSIVAMENTE fu indetto un referendum (con i militari a presenziare il voto) al quale partecipò, secondo le stime russe, l’84% dei 2 milioni di residenti della penisola. Il 95% dei votanti si espresse per l’indipendenza, conscio del fatto che il neonato (e autoproclamato) parlamento della Crimea aveva già votato una risoluzione che, in caso di vittoria, chiedeva l’ingresso nella Federazione Russa.

Nel marzo del 2014 la Duma (il parlamento di Mosca) approvò un ddl per l’adesione della penisola alla Russia. Quattro anni dopo, nel 2018, fu inaugurato il ponte di Kerch, che collega la Crimea all’oblast di Krasnodar, in territorio continentale russo.

Quest’anno però è andata diversamente, l’invasione russa dell’Ucraina ha risvegliato la comunità internazionale che non solo ha tele-presenziato in massa alla conferenza (Von der Leyen, Macron, Scholz, Draghi, il segretario della Nato Stoltenberg, persino Boris Johnson, mentre il polacco Duda è andato di persona a Kiev), ma si è espressa con parole dure e inequivocabili sul destino della regione.

SULLO SFONDO gli attacchi ucraini alle strutture militari e logistiche russe delle ultime due settimane e le minacce più o meno velate dei funzionari di Kiev al ponte di Kerch. Persino ieri, mentre l’incontro era in corso, un drone ucraino ha tentato una sortita verso la base della marina russa di Sebastopoli. Stando alle fonti russe, il velivolo sarebbe stato abbattuto.

Tra le varie dichiarazioni spicca quella del presidente turco Erdogan, alleato di entrambi i belligeranti, per il quale «la restituzione della Crimea all’Ucraina è essenzialmente un requisito del diritto internazionale».

Per i turchi la Crimea rappresenta anche la patria dei Tatari, minoranza musulmana che, secondo alcuni report, dal 2014 in poi avrebbe subito discriminazioni, come ha ricordato anche il premier italiano Draghi: «Siamo preoccupati per il peggioramento dei diritti umani nella penisola e per le ingiustizie verso la comunità tatara».Ma per Putin, lo status della Crimea «non è in discussione».

A proposito di diritti negati, oggi potrebbe tenersi la prima udienza del processo ai militari ucraini fatti prigionieri dopo la caduta dell’impianto «Azovstal» a Mariupol. Gli ucraini accusano da settimane russi e separatisti di voler allestire una messa in scena. Hanno iniziato a circolare immagini di gabbie in costruzione alla filarmonica di Mariupol dove verranno trattenuti i processati.

 

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MILIZIE UCRAINE. Il Kyiv Independent ne aveva celebrato la nascita. Ora un'inchiesta la svela.Voluta da Zelensky, la branca affidata ai servizi è diventata pericolosa. Traffico d’armi tra le accuse

Abusi, razzie, minacce: la Legione straniera di Kiev 

I primi giorni di marzo la stazione di Leopoli era l’immagine stessa della tragedia prodotta dalla guerra appena scoppiata in Ucraina.
Tra la marea umana infreddolita e affamata spiccavano piccoli gruppi di ragazzi appena arrivati, in uniforme militare o con un grosso zaino mimetico sulle spalle e l’aria spaesata ma apparentemente soddisfatta. Erano i combattenti internazionali venuti in Ucraina per arruolarsi nella «Legione internazionale» che Zelensky aveva creato con decreto presidenziale il 27 febbraio. Tra loro molti inglesi e americani, identificabili dagli strap con le proprie bandiere nazionali senza colori tranne il verde chiaro e il verde scuro.
IL PRESIDENTE ucraino ha più volte ringraziato pubblicamente i legionari dichiarando, a metà marzo, che circa 20 mila combattenti stranieri avevano risposto alla chiamata. I media ucraini si sono fatti portavoce dell’iniziativa, soprattutto le testate in lingua inglese come il Kyiv Independent che aveva addirittura ospitato sul proprio sito il link per arruolarsi.
Il 17 agosto, tuttavia, la stessa testata ha pubblicato una lunga inchiesta nella quale si evidenzia che la «Legione internazionale» (o, almeno, una sua parte) in realtà è un coacervo di problemi, incompetenza e comportamenti criminali. Accuse non rivolte ai volontari internazionali, bensì ai comandanti ucraini.
MISSIONI SUICIDE, abusi, minacce, azioni illegali come razzie e furti, contrabbando di armi, peculato e abusi verbali sui membri femminili della legione. Queste e molte altre sono le accuse, segnalate in un rapporto di 78 pagine compilato da oltre una dozzina di legionari, sia ex-combattenti sia attualmente in servizio, e in diverse interviste.
Secondo quanto hanno spiegato i soldati, la «Legione internazionale» è composta da due branche: una gestita dall’esercito ucraino e l’altra dalla Direzione per l’intelligence del ministero della Difesa, nota con l’acronimo ucraino «Gur». L’intero rapporto e i soldati che l’hanno scritto afferiscono alla branca della legione gestita dal Gur. Nel momento di massima affluenza di volontari, stando sempre alle dichiarazioni dei soldati, tale branca contava circa 500 unità, ovvero un terzo dell’intero personale operativo della «Legione internazionale». Quindi circa 1500 uomini. Siamo infinitamente lontani dai 20 mila sbandierati a inizio marzo.
I LEGIONARI GUR hanno spiegato che i loro comandanti dipendono direttamente dal capo del Gur, Kyrylo Budanov, che Zelensky ha anche nominato a capo del comitato dell’intelligence presso l’ufficio presidenziale a fine luglio. Ufficialmente, il reparto Gur della legione è comandato dal maggiore Vadym Popyk. Tuttavia, il potere sarebbe di fatto amministrato da tre figure: «il maggiore Taras Vashuk (chiamato dai soldati ‘giovane Taras’), un ufficiale dei servizi segreti tra i 20 e i 30 anni che è il braccio destro di Popyk; lo zio di Vashuk (chiamato ‘vecchio Taras’), anch’egli ufficiale dei servizi segreti; e il 60enne Sasha Kuchynsky». Questi tre personaggi decidono la strategia e le modalità delle missioni e si coordinano con i servizi. Kuchynsky, inoltre, è anche responsabile della logistica e dei rifornimenti.
I VOLONTARI accusano il trio di diversi comportamenti riprovevoli. Dei due Taras si biasima soprattutto la tendenza a inviare i soldati in missioni suicide. Molto significativo è il racconto di un soldato americano, di stanza per un periodo nella zona di Mykolayiv, che spiega come per l’incompetenza del ‘vecchio Taras’ almeno 8 legionari siano morti nella stessa postazione ormai scoperta dai russi e che uno di loro è stato catturato. Si tratta di Andrew Hill, che ora dovrà affrontare un processo (ed eventualmente la pena capitale) nella repubblica separatista del Donetsk con l’accusa di essere un mercenario.
IL PEGGIORE DEL TRIO sarebbe Sasha Kuchynsky, secondo la testata ucraina un criminale polacco il cui vero nome è Piotr Kapuscinski, fuggito in Ucraina per evitare il carcere in patria a causa dei suoi legami con una delle più importanti organizzazioni criminali del paese.
Non è chiaro come Kapuscinski sia arrivato ai vertici della branca Gur della legione ma si sa che si fregia del grado di colonnello pur non essendo neanche ufficiale. Kapuscinski avrebbe più volte ordinato ai volontari di razziare negozi e centri commerciali con la scusa che l’ordine venisse dal quartier generale di Kiev. Inoltre, i soldati lo accusano anche di aver trattenuto per sé armamenti destinati alla truppa e di aver tentato poi di rivenderli ai soldati per cifre altissime o di averli fatti sparire. La chiamano la «tassa di Sasha». Alcuni legionari raccontano di essere stati minacciati direttamente da Kapuscinski con una pistola al volto nel momento in cui si sono rifiutati di eseguire ordini considerati illegali.
IL KYIV INDEPENDENT riporta che per circa quattro mesi «i combattenti stranieri hanno bussato alle porte delle alte cariche chiedendo aiuto; il rapporto è stato presentato al parlamento e le testimonianze scritte sono state inviate all’ufficio di Zelensky. Alyona Verbytska, commissario del presidente per i diritti dei soldati, ha confermato di aver ricevuto le denunce dei legionari e di averle trasmesse alle forze dell’ordine.
Tuttavia, non solo il presidente che aveva chiamato i legionari a combattere per l’Ucraina non ha risposto, ma secondo i legionari le autorità sarebbero riluttanti ad aprire un’indagine ufficiale.

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1931-2022. Addio alla grande costituzionalista. La sua lettura avanzata della Carta ha fatto da guida a generazioni. Ma era capace di spiazzare

Lorenza Carlassare, la libertà e la forza del pensiero critico

Il libro con le sue memorie di giurista non lo abbiamo fatto più, ma il titolo l’avevamo scelto: «Io dissento». Lo stesso di un curioso volume illustrato, uscito negli Stati uniti, che racconta la vita di Ruth Bader Ginsburg, la coraggiosa giudice della corte suprema Usa con la quale aveva più di un tratto in comune. Lorenza Carlassare però non aveva trovato un presidente della Repubblica disposto a nominarla giudice della Corte costituzionale. Cosa di cui si dispiaceva il giusto, considerandolo il riconoscimento della sua totale indipendenza: «Sono rimasta libera».

Alla libertà non ha mai rinunciato, anche quando le sue scelte spiazzavano la comunità di costituzionalisti della quale è stata per decenni un punto di riferimento. Ricordiamo un episodio per esserne stati testimoni. Una sera del giugno 2013 ricevette nella casa di Roma una telefonata di Franceschini che le chiedeva di far parte della commissione di saggi incaricati di studiare proposte di riforma. Il presidente del Consiglio era Enrico Letta, il ministro delle riforme Quagliariello, la maggioranza già quella larghissima centrodestra-centro-Pd. Eravamo certi che avrebbe rifiutato, invece accettò. «Da anni dico che limitate modifiche alla Costituzione sono necessarie e utili – ci spiegò – adesso mi si offre una possibilità di far pesare le mie opinioni. Dire di no non è sempre la scelta più nobile». Andò a finire che si dimise dalla commissione dopo un mese, appena il parlamento – gli interessi di Berlusconi pesavano ancora molto – gliene offrì la scusa. Anche quella volta aveva dimostrato quanto fosse ridicola l’accusa di conservatorismo che ciclicamente pioveva su di lei e sui costituzionalisti che difendono la Carta. Spiazzante fu anche la sua scelta di dire di sì, pur tra molti dubbi, al taglio dei parlamentari nel referendum di due anni fa. A convincerla il fatto che quella riforma avrebbe reso inevitabile una nuova legge elettorale. Speranza, abbiamo visto, vana. Eppure ulteriore testimonianza di come Carlassare non abbia mai perso di vista il problema della rappresentanza.

Citava Vezio Crisafulli – che considerava «la figura dominante nella mia vita di studiosa» senza dimenticare Carlo Esposito e Livio Paladin – per il quale «lo Stato può dirsi veramente rappresentativo in quanto esso sia organizzato in modo da dar vita ad un collegamento stabile ed efficiente tra lo Stato medesimo e la collettività popolare». La necessità di cambiare le leggi elettorali che da trent’anni sacrificano la rappresentatività a una presunta governabilità era per Carlassare un urgente obbligo costituzionale. A chi meccanicamente invocava «stabilità» rispondeva, sempre lontana dai conformismi e attenta alla sostanza dei problemi, che «nessuna stabilità sarà mai possibile fino a quando le fratture sociali resteranno così profonde. È un bene: non si possono ingessare le fratture prima di ricomporle. Le ingiustizie così acute della nostra società sono crepe sulle quali nessun governo per quanto numericamente forte deve sentirsi stabile».

Lorenza Carlassare
Io, in fondo, amo istintivamente lo stato di diritto e il costituzionalismo perché detesto il potere

La mancata rappresentanza parlamentare degli interessi delle minoranze non era questione formale. Carlassare citava episodi per i quali era arrabbiatissima. Quando vide Mario Monti andare a fare visita a Marchionne nel momento in cui l’amministratore della Fca stava facendo terra bruciata attorno al sindacato conflittuale, la Fiom, protestò: «Nessuno in parlamento che si sia alzato per criticarlo. Chiaro, per colpa della legge maggioritaria non c’è un solo rappresentante della sinistra schierato in difesa dei lavoratori».

Più che l’essere stata la prima donna titolare di cattedra di diritto costituzionale (nel 1978) le interessava ricordare che era rimasta troppo a lungo la sola. Ha insegnato per brevi periodi a Messina e Verona, poi a lungo a Ferrara e a Padova. Le piaceva ritornare con la memoria soprattutto al periodo di Scienze politiche a Padova, anni Settanta, ai seminari nei quali cadeva il muro tra docente e studenti. Ma è stato agli ex allievi di Ferrara che ha consegnato, quasi quindici anni fa una specie di testamento. Bellissimo: «Io, in fondo, detesto il potere. Amo istintivamente lo stato di diritto e il costituzionalismo perché se è vero che il potere è necessario è comunque importante ostacolarlo e limitarlo».

Lorenza Carlassare nella vita ha sofferto, è stata vedova due volte, ma è rimasta una donna allegra e straordinariamente simpatica. La sera in cui aspettavamo il risultato del referendum contro la riforma Renzi, 2016, avevamo un appuntamento telefonico. Quando arrivò la certezza della vittoria del No la cercai senza riuscire all’inizio a trovarla. Ebbi paura che fosse troppo tardi, Lorenza aveva allora 85 anni. Ma poi richiamò. Era in casa di amici a festeggiare.

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