Il Papa su Netanyahu: ignora i diritti umani. Parole non nuove, suffragate da Onu e inchieste dei media. Ma gli Usa proteggono Israele
Le parole del Papa le ha riferite Abolhassan Navab, rettore dell’Università delle Religioni e delle Denominazioni dell’Iran, che ha incontrato Francesco, riferendo il colloquio con lui all’agenzia iraniana Irna. Netanyahu, secondo il Santo Padre, non rispetterebbe i diritti umani a Gaza. Un’affermazione molto dura, ma che, spiega Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Roma Sapienza, fa il paio con altre dello stesso Pontefice, suffragate comunque da dossier dell’ONU e inchieste giornalistiche. Il Papa aveva anche suggerito di verificare se nella Striscia si possa parlare di genocidio. Di fatto, però, resta l’estrema violenza distruttiva degli attacchi dell’IDF che fanno parlare da più parti di crimini di guerra, tanto che dalla giustizia internazionale potrebbero arrivare altri mandati di arresto contro le autorità di Israele.
Secondo un’agenzia iraniana, non smentita, il Papa, in un incontro con un accademico di Teheran, avrebbe detto che Netanyahu non rispetta le leggi internazionali e i diritti umani. È na posizione che ha basi solide?
Il Papa ha già più volte stigmatizzato le condotte di Israele a Gaza, qualificate come violazioni palesi del diritto umanitario. L’ultima volta, se ben ricordo, qualche giorno prima di Natale. Vi sono certamente basi solide per tale posizione. Pressoché tutti gli osservatori indipendenti, inclusi i Tribunali internazionali, ritengono che le condotte israeliane vadano qualificate come gravi e sistematiche violazioni del diritto umanitario. Persino gli Stati Uniti, che sostengono strenuamente Israele anche con forniture di armi, hanno criticato Israele per le condotte inaccettabili contro la popolazione civile di Gaza. Vari rapporti delle Nazioni Unite indicano che Israele utilizza l’affamamento della popolazione come metodo di guerra. Un recente dossier del New York Times del 26 dicembre dice che l’esercito israeliano ha drasticamente ridotto lo standard di protezione umanitaria, autorizzando azioni militari che comportino uccisione dei civili su larga scala.
Sono giudizi che si basano sulla constatazione di azioni militari particolarmente violente?
Tutto ciò fa seguito alla distruzione sistematica di ospedali, scuole, luoghi di culto, infrastrutture civili. Tali condotte sono qualificabili come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Siamo, quindi, ben al di là di un conflitto armato convenzionale, nell’ambito del quale possono anche esserci danni collaterali alle popolazioni che vivono nel territorio dove il conflitto si svolge. Sembra che per Israele tutto il territorio di Gaza sia un unico obiettivo militare. Ritengo che ormai si possa parlare di una guerra fra uno Stato, Israele, e l’intera popolazione di Gaza.
Il Papa aveva chiesto anche che si indagasse sulla possibilità di considerare come genocidio l’azione israeliana a Gaza. Come sono cambiati i rapporti tra Vaticano e Tel Aviv?
Come ho detto, le condotte israeliane contro la popolazione civile di Gaza sono ben al di là del diritto e dell’etica internazionale. Nulla, neanche l’efferata azione di Hamas del 7 ottobre, può giustificare crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma, se mi chiede se tali condotte vadano qualificate come genocidio, la mia risposta è problematica ed è fondata su una questione tecnica. La qualificazione di genocidio richiede due elementi: la prima è la commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Ritengo che tali crimini possano essere facilmente accertati sulla base delle prove raccolte da osservatori internazionali.
Cosa occorre dimostrare d’altro?
Per la qualifica di genocidio occorre un elemento ulteriore, e cioè l’intenzione di distruggere un popolo o una parte significativa di esso. Io non ho gli elementi per affermare o negare che questa intenzione guidi l’azione di Israele. Credo che nessuno, in questo momento, li abbia. Ma penso che l’insistenza sul crimine del genocidio sia fuorviante. Nella Striscia di Gaza sono stati commessi certamente gravissimi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ciò è sufficiente per punire i colpevoli. Insomma, se pur non vi fossero elementi probativi per dimostrare l’esistenza di un genocidio, le condotte israeliane non sarebbero meno illecite. E, di questo, Israele, la sua dirigenza politica e il proprio esercito dovrebbero essere consapevoli.
La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, ha detto che dopo alcune prese di posizione del Papa sarà difficile invitarlo in sinagoga. I rapporti con la Santa Sede si sono deteriorati non solo con il governo israeliano ma anche con la comunità ebraica?
Io non ho letto le dichiarazioni della Presidente delle comunità ebraiche italiane. Ma, se avesse pronunciato queste parole, sarebbe molto grave. Ritengo che la posizione del Papa non sia incompatibile con l’ingresso in una sinagoga. Al contrario, sono le condotte israeliane a Gaza ad essere incompatibili con qualsiasi etica religiosa. Questo appoggio acritico fa male a Israele. Spero che la popolazione israeliana e i sostenitori di Israele in tutto il mondo percepiscano la gravissima situazione creata da questa guerra. I migliori amici di Israele dovrebbero capire che il mondo intero osserva queste condotte e le giudica. L’uccisione di oltre 45mila persone, la distruzione sistematica di tutte le infrastrutture civili, il trasferimento forzato della popolazione, i bambini che muoiono di freddo, tutto ciò non ha alcuna giustificazione. Chi giustifica tali crimini dovrebbe sentirsi a disagio con la propria coscienza.
La presa di posizione del Papa può influire sugli organismi internazionali che si occupano delle vicende palestinesi e mediorientali?
Gli organismi internazionali, in particolare le Nazioni Unite, sono in una posizione di stallo. L’Assemblea generale ha molte volte condannato le condotte di Israele, ma l’Assemblea non ha i mezzi per un’azione coercitiva. Il sostegno degli Stati Uniti, i soli a porre il veto al Consiglio di sicurezza, rende impossibile un’azione della comunità internazionale.
A che punto sono le iniziative giudiziarie internazionali relative a Netanyahu e alla qualificazione di genocidio dell’azione militare a Gaza? Hanno influito sulle strategie di Israele?
La Corte Internazionale di Giustizia ha fatto quel che poteva. In due ordinanze cautelari ha indicato che vi sono elementi plausibili per ritenere che Israele possa aver commesso atti genocidiari e ha ordinato a Israele di prendere misure per tutelare la popolazione civile di Gaza, in particolare consentendo l’accesso nella Striscia di cibo, acqua, elettricità, medicine e equipaggiamenti medici. Non sembra che Israele abbia dato seguito alle due ordinanze. La prosecuzione della procedura sarà lunga e complessa, anche in relazione alla difficoltà di provare l’elemento intenzionale al quale ho accennato. Nel frattempo, hanno chiesto di intervenire nel procedimento una nutrita serie di Stati, fra cui due membri dell’Unione Europea, e cioè la Spagna e l’Irlanda. La Corte Penale Internazionale, la quale ha spiccato un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant, non può aprire una procedura in contumacia. La Procura continua a investigare e potrebbe chiedere alla Corte altri mandati di arresto.
(Paolo Rossetti)
*Enzo Cannizzaro si è laureato in giurisprudenza nel 1983 all'Università di Firenze. Ha poi frequentato l'Istituto universitario europeo di Fiesole e conseguito il dottorato nel 1987. Dal 1993 professore associato, poi ordinario, di diritto internazionale nell'Università di Macerata. Ha insegnato diritto dell’Unione Europea all'Università di Firenze dal 1990 al 1998 e diritto internazionale dell'economia nella LUISS di Roma. Dal 2007 è professore ordinario di diritto dell’Unione Europea nell'Università di Roma La Sapienza. Visiting professor nel 2005 presso la University of Michigan Law School, Ann Arbor, ha tenuto un corso presso l'Academy of European Law, European University Institute, Firenze; nel 2006 ha insegnato in qualità di Professeur invité nell'Institut des Hautes Etudes Internationales della Université Panthéon - Assas (Paris II). (sito web)
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Scenari Se l’“ordine neoliberale” sembra al tramonto, non è altrettanto per vari elementi del neoliberismo che hanno una particolare resilienza ibridandosi con molti aspetti dei populismi
L’anno che arriva ci porta speranze di pace, anche se persistono guerre, rivalità commerciali, drammatici cambiamenti ambientali. Se l’“ordine neoliberale” sembra al tramonto, non altrettanto può dirsi di vari elementi del neoliberismo che mostrano una particolare resilienza ibridandosi con molti aspetti dei populismi. Si profila la ridefinizione congiunta del neoliberismo, della globalizzazione e dello stesso capitalismo, che è sempre meno animato da deterministiche «leggi di movimento».
Wolfgang Streeck rilegge il “tardo neoliberismo” concentrandosi sulle conseguenze dell’iperglobalizzazione sulla democrazia, squassata da movimenti populisti e lacerazioni sociali. L’unico rimedio potrebbero essere, secondo lui, una deglobalizzazione marcata, una deconcentrazione
del potere dalle mani di un’élite globalizzata, un ritorno allo Stato nazionale nella forma della microstatualità. Ma è davvero questa una strada alternativa? L’impiego che fa Streeck del pensiero di Keynes a sostegno della propria tesi “nazionalistica” è capzioso, poiché la ricchezza di Keynes consiste anche nella sua multiformità, tale che da essa possono essere tratte tesi divergenti, e correttezza vorrebbe che ci si attenga ai testi e agli atti più impegnativi e più impegnati, anche politicamente, come la Teoria Generale del 1936 – che tratta la contraddittorietà del capitalismo come un sistema mondiale – e il contributo dato agli accordi di Bretton Woods del 1944, anche nelle parti che non vi furono recepite, come la proposta internazionalista del Bancor per garantire la pace e gli equilibri commerciali ed economici mondiali.
Inoltre, anche coloro che hanno sottoposto a forti critiche la globalizzazione non hanno mai sostenuto una “deglobalizzazione drastica”. Dani Rodrik, che definì il “trilemma” della globalizzazione (secondo cui è impossibile la coesistenza di “iperglobalizzazione/Stato nazionale/democrazia” e per questo bisogna ridurre l’”iperglobalizzazione” in modo da rendere compatibile la democrazia e lo Stato nazionale con un maggior ruolo regolativo di quest’ultimo), chiama «globalizzazione intelligente» quella che scaturirebbe da un tale processo di contrazione.
Delle difficoltà e insieme del furore odierno del capitalismo è testimonianza il ricorrere della parola disruption nei discorsi del duo Donald Trump/Elon Musk. La volontà di “rottura” degli equilibri e delle regole attuali è sempre all’insegna del liberismo economico e dell’iniziativa individuale. Ma, mentre Trump persegue, assieme alla deregolamentazione ambientale e della finanza, un rovesciamento delle strategie globaliste in contraddizione con i principi neoliberisti e annuncia dazi e tariffe a protezione dell’economia nazionale, Musk sposa una visione dell’innovazione demolitrice delle idee sulla concorrenza e della responsabilità verso il pubblico e un’immagine della tecnologia come surrogato dell’umano.
Il connubio Trump/Musk – oltre a riproporre l’enfasi sull’identità autoctona, il suprematismo bianco, l’ossessione fallica ipermaschilista, la deumanizzazione degli avversari descritti come carogne, parassiti, fecce – incarna la scesa in campo di una nuova “oligarchia tecnologica” al fianco dei fondamentalisti evangelici, di cui Emmanuel Todd, che è un antropologo e storico hegeliano e weberiano, dice che non hanno nulla a che fare con il protestantesimo classico perché il loro boom, oltre ad aver consentito ai suoi ispiratori di fare molti soldi, ha fatto emergere una mentalità genericamente antiscientifica e un narcisismo patologico.
«Apocalittici» e «tecno-utopisti» stringono una sorta di alleanza tecno-integralista, i primi in nome della «dottrina del ‘domininionism’» che considera dovere cristiano uniformare le istituzioni laiche all’‘ordine biblico’, i secondi in nome dello spostamento della Silicon Valley – la serpe, «ebbra di denaro e di potere», cresciuta nel seno dai democratici – su una generazione di disruptor che assieme alle fortune vertiginose hanno accumulato un senso di «onnipotenza» infinito.
Todd attribuisce un decadimento democratico, culturale, industriale all’intero Occidente, non tanto minacciato da aggressori esterni quanto afflitto da una crisi endogena, determinata dalla «completa scomparsa del substrato cristiano protestante». Come il protestantesimo aveva generato la forza economica dell’Occidente – attraverso l’alfabetizzazione delle popolazioni indotte alla lettura diretta delle Sacre Scritture e allo spirito critico e rese capaci di progredire tanto a livello tecnologico che economico – la sua scomparsa genera un nichilismo distruttivo.
La “iperglobalizzazione”, gli andamenti dell’inflazione, la finanziarizzazione sono stati per il capitalismo un modo fondamentale per contrastare la stagnazione e cercare fonti alternative di profitto mediante la repressione della forza lavoro, che era stata la promotrice delle straordinarie conquiste dei “trent’anni gloriosi” del secondo dopoguerra ispirati dalla riflessione keynesiana. Ora, di fronte alle distruzioni e al sangue della guerra, il capitalismo cerca strade diverse.
Invece che accettarne la spinta in atto verso gli armamenti, si deve tentare di agire sulle “finestre di opportunità” che si sono aperte, anche grazie a un’evoluzione tecnologica che andrebbe guidata politicamente e istituzionalmente.
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Una vista del Lakhta Centre, la sede centrale del colosso energetico russo Gazprom, a San Pietroburgo foto Anatoly Maltsev/Ansa
L’Europa è entrata nella seconda guerra del gas con la Russia. All’alba di ieri nella pianura gelata di Sudzha,
al confine fra l’Ucraina e l’oblast russo di Kursk, la Gazprom russa ha chiuso le forniture attraverso l’Ucraina. La prima guerra del gas si è consumata nel 2022.
Nei mesi immediatamente seguenti all’aggressione dell’Ucraina da parte di Mosca. Allora Putin fece interrompere i flussi ponendo condizioni inaccettabili ai suoi clienti europei e in seguito fu sabotato nel Baltico anche il gasdotto Nord Stream, una sorta di cordone ombelicale dell’energia che legava Berlino a Mosca e rappresentava da anni per gli Stati uniti il vero nodo geopolitico tra l’Europa e la Russia.
PER WASHINGTON la guerra è stata l’opportunità di troncare questo legame e vendere agli europei il suo gas liquido (più costoso di quello russo), operazione che sicuramente non dispiacerà anche al presidente entrante Donald Trump che sulle vulnerabilità degli europei intende fare cassa. Tra l’altro l’aumento dei costi energetici incide sulla competitività delle industrie europee.
Basti pensare, come sottolineava qualche tempo fa Davide Tabarelli, presidente di Nomisma-Energia, che l’Italia qualche mese fa pagava il gas 40 euro al megawattora, gli Usa 7. Un divario destinato ora ad ampliarsi.
L’elemento che cambia i dati generali sulle importazioni di gas dalla Russia(e non solo) rispetto al passato è la crisi europea e italiana. Nel 2021, prima dell’inizio della guerra, l’Italia, per esempio, importava 29 miliardi di metri cubi di gas da Mosca su una domanda di 76. Lo scorso anno, invece, ne abbiamo consumati 63 e importati appena 3 dalla Russia: la domanda si è ridotta in modo pesante a causa del processo massiccio di de-industrializzazione che sta colpendo soprattutto Italia e Germania.
LA VICENDA del Nord Stream 1 e 2 ha è stata una svolta epocale nei rapporti tra Mosca e gli europei. Merita un flashback per capire come la pensano a Washington. Un’inchiesta della magistratura tedesca aveva indicato un gruppo di ucraini come responsabili del sabotaggio nel settembre 2022 del gasdotto Nord Stream. Secondo una ricostruzione del Wall Street Journal il presidente ucraino Zelensky era al corrente del piano ma aveva ritirato il suo consenso per pressioni della Cia.
La verità forse era meno fantasiosa e stava sotto gli occhi di tutti. All’indomani del sabotaggio, in un’audizione al senato americano il sottosegretario Victoria Nuland aveva affermato: «Penso che l’amministrazione Biden sia molto soddisfatta di sapere che il Nord Stream 2 sia ora un pezzo di metallo in fondo al mare».
La prima guerra del gas ebbe come risultato un aumento in Europa da un prezzo minimo di 20 euro a megawattora a oltre 300 euro durante il primo anno di combattimenti in Ucraina. L’Italia, come vari altri Paesi, rischiò di restare a corto della materia prima e normalizzò la situazione solo grazie a nuovi rigassificatori mobili di gas liquido, in gran parte dal Qatar, e a un nuovo accordo per ampliare le forniture con l’Algeria.
QUESTA VOLTA i prezzi europei del gas hanno toccato i 50 euro al megawattora, spinti anche dalle temperature in ribasso. Ma quali sono i possibili effetti dello stop del gas? L’Europa dipende ancora al 19% dall’energia russa. Alcuni stati europei, in particolare Slovacchia e Austria, accusano una dipendenza dalla forniture di Mosca che è rispettivamente al 70% e 60 per cento. Non è un caso che il primo ministro slovacco Robert Fico abbia dichiarato che «l’interruzione del transito del gas attraverso l’Ucraina avrà un impatto drastico su tutti noi nell’Ue, non solo sulla Federazione Russa».
E c’è subito chi sta peggio di tutti. La regione separatista moldava della Transnistria ha interrotto la fornitura di riscaldamento e acqua calda alle famiglie dopo che la Russia ha bloccato il flusso di gas attraverso l’Ucraina.
Ma c’è chi la vede in modo nettamente diverso da Fico e dall’ungherese Orbán, che con le loro recenti visite al Cremlino hanno entrambi cercato di acquistare il gas direttamente dai russi. Zelensky, rinunciando a 800 milioni di dollari di royalties, si è rifiutato di rinnovare l’accordo quinquennale per il transito di gas russo, perché dice che non intende facilitare ulteriormente nuove entrate del bilancio di Mosca che poi servono a finanziare la distruzione dell’Ucraina.
Secondo il centro studi Crea di Helsinki, grazie al gasdotto in Ucraina, Gazprom continuava a fatturare in Europa circa 350 milioni di euro alla settimana (più altri 200 milioni con il gas liquefatto). Da quanto incassa da Gazprom il governo di Mosca spende circa quattro rubli ogni dieci nello sforzo di guerra.
COME HA REAGITO l’Europa allo stop del gas russo dall’ucraina? Secondo la Commissione europea «l’impatto sulla sicurezza dell’approvvigionamento sarà limitato» indicando le rotte alternative di approvvigionamento per portare i volumi necessari in Europa attraverso quattro principali percorsi di diversificazione, con volumi provenienti principalmente dai terminali di gas liquefatto in Germania, Grecia, Italia, Polonia e forse anche dalla Turchia (il cui principale fornitore di gas è comunque la Russia).
L’Europa e l’Italia non rischiano di restare senza materia prima, ma è quasi scontata una nuova stangata sulle bollette di luce e gas. La seconda guerra del gas, le perdite umane e civili, la crisi politica ed economica nel cuore dell’Europa, ci dicono soprattutto una cosa: la tregua, qui come in Medio Oriente, sta diventando urgente.
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Le piazze italiane di Capodanno non saranno popolate soltanto da musiche e danze. Due vecchie conoscenze si aggireranno tra le persone in festa: «Sicurezza» e «Decoro». Chiamate da una direttiva del ministro Piantedosi, destinata a tutti i prefetti, per garantire il libero e pieno godimento «di determinate aree pubbliche, caratterizzate dal persistente afflusso di un notevole numero di persone».
L’idea è chiara: «Aree verdi, parchi e zone pedonali ben illuminate e curate creano un ambiente sicuro, come pure l’installazione di impianti di videosorveglianza». Necessaria «una sempre maggiore presenza delle forze dell’ordine in tutti i luoghi nevralgici e ad alta frequentazione per il benessere della popolazione». Accanto a queste misure, per le feste natalizie, si concentra l’attenzione sui dispositivi per eccellenza: i «daspo urbani», ossia l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso.
Disposizioni – prosegue la direttiva – «interessate da modifiche di segno ampliativo, contenute anche nel disegno di legge in materia di sicurezza pubblica all’esame del parlamento, che reca un’ulteriore estensione del divieto di accesso a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva».
Nella confusione del Capodanno, tra un fuoco d’artificio, un brindisi e, soprattutto, la distrazione delle persone, i prefetti sono chiamati a consolidare l’idea di sicurezza in corso di sperimentazione (a Milano dopo Firenze e Bologna): rendere invisibili, ricacciandoli in periferia, i soggetti presunti pericolosi; limitare la libertà di movimento sulla base di presupposti generici senza ricorrere al giudice; trasformare la sicurezza in pura incolumità e «ordinato vivere».
Si potrebbe dire – lo si sente ripetere anche sinistra – che in fondo si va incontro ai bisogni reali delle persone, soprattutto delle più deboli. Che almeno i poveri cristi trascorrano feste tranquille. Siamo sicuri che, mettendo da parte la riserva di legge e l’intervento del giudice, a essere allontanati siano proprio i soggetti pericolosi? Chi e come li individua? Le garanzie non sono formalismi, ma risposte precise a queste domande.
Stanotte, presi dall’allegria un po’ etilica della fine dell’anno, potremmo non guardare in faccia coloro che saranno allontanati, non capire chi sono e dove vengono mandati. C’è da scommettere, tuttavia, che quando nel corso dell’anno riprenderemo lucidità, potremmo vedere i loro volti: saranno i più poveri, le vittime della crescita diseguale della città; e verranno rispediti in quelle periferie da dove vengono. I centri luccicanti saranno protetti.
Quanto ci metteremo a elaborare una diversa idea di sicurezza, anche dei luoghi simbolo? Senza toccare qui i temi dello spazio urbano quale teatro del conflitto sociale, questa stretta di Capodanno mette in luce l’ennesima rinuncia a un’idea sicurezza vera, “autogestita” dalle persone che riescono a mischiarsi tra loro. Vengono in mente le parole di Renato Nicolini su Massenzio, durante le proiezioni dell’Estate Romana, come il manifesto di un’idea diversa della città: «Accanto a me, a destra un gruppo di ragazzi si passavano uno spinello e, a sinistra, una di quelle tipiche famiglie romane che si pensa non esistano più, arrivata con plaid, nonni, ragazzini, pentole di pasta, sfilatini con la frittata e fiaschi di vino. I due gruppi convivevano tranquillamente, senza troppa curiosità».
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Gli ayatollah Da Evin sono passati tutti, prima gli oppositori della monarchia, poi quelli della repubblica islamica, a volte in drammatici scambi di ruolo tra detenuti e carcerieri. Ecco come funzionano le […]
Iraniani camminano davanti a un dipinto murale del leader Khamenei a Teheran foto Abedin Taherkenareh/Ansa
Da Evin sono passati tutti, prima gli oppositori della monarchia, poi quelli della repubblica islamica, a volte in drammatici scambi di ruolo tra detenuti e carcerieri.
Ecco come funzionano le prigioni di Teheran nel racconto dell’oppositore e giornalista Ahmad Zeidabadi, che c’è stato più volte: «I prigionieri ritenuti più interessanti vengono legati e incappucciati e trasferiti al Sepah 59, un carcere dei pasdaran di cui si conosce soltanto il nome in codice. Lì puoi restare bendato per settimane mentre ascolti nelle altre stanze le voci e le grida di quelli che vengono interrogati e torturati. A Evin invece si sta in trenta in celle di 24 metri quadrati e si dorme per terra. Poi c’è la separazione: al braccio 269 vanno i comuni, al 240 ci sono le celle di isolamento e punizione, al 209 una sezione dei servizi segreti dove i carcerati devono tenere sempre gli occhi bendati, al 325 la sezione speciale per i religiosi, i mullah, e una per intellettuali e giornalisti».
L’arresto di Cecilia Sala è un segnale di un nervosismo crescente di un regime che manda segnali fuori ma anche dentro a un Paese colpito dalle batoste mediorientali e dove all’interno sono in vigore le regole di guerra e una censura sempre più stretta. Che colpisce anche gli stranieri.
Secondo un recente rapporto dell’Istituto francese per le relazioni internazionali (Ifri) firmato dallo studioso Clement Therme, che esamina in particolare «il caso degli europei detenuti a Teheran», l’arresto arbitrario di cittadini stranieri o con doppia nazionalità ha origini lontane in Iran – dal 4 novembre 1979 quando nell’ambasciata Usa furono presi dagli studenti dozzine di diplomatici – ed è riconducibile alla cosiddetta diplomazia degli ostaggi che in passato ha permesso alla repubblica islamica, in un contesto di sanzioni internazionali, di usare i prigionieri come leva per ottenere favori o la liberazione di iraniani detenuti all’estero (oggi si parla di un cittadino iraniano-svizzero arrestato il 16 dicembre a Malpensa su mandato di cattura americano). Questa pratica tuttavia, secondo l’Ifri, si sta ritorcendo contro lo stesso Iran, destinato a rimanere «diplomaticamente inaffidabile».
L’Iran oggi si tiene in piedi grazie alle sue risorse energetiche e ai rapporti privilegiati con Russia e Cina, due membri del consiglio di sicurezza Onu che ne caldeggiano l’ingresso ufficiale nei Brics dove Teheran ha partecipato per la prima volta in ottobre al vertice di Kazan. Ma è in Medio Oriente che l’Iran sta assistendo allo sgretolamento dell’asse della resistenza contro Usa e Israele e della Mezzaluna sciita: i suoi alleati Houthi yemeniti e Hezbollah libanesi sono nel mirino dello stato ebraico che, dopo avere sbriciolato Hamas, con 45mila morti civili a Gaza, ne sta frantumando le capacità offensive e difensive, in Siria Bashar Assad è crollato e ora a Damasco è al potere Al Jolani, capo di milizie sunnite jihadiste, sostenute dalla Turchia, da sempre ostili agli sciiti. Anche in Iraq, dove il governo e le milizie sciite predominano, l’influenza iraniana deve in qualche modo segnare il passo. Lo stesso Trump, pronto a entrare alla Casa Bianca, ha confermato che vuole mantenere su Teheran un politica di «massina pressione», la stessa che nel gennaio 2020 lo portò a far assassinare il generale Qassem Soleimani. Il più importante stratega degli ayatollah.
Israele, esibendo un apparato militare e di intelligence nettamente superiore a chiunque nella regione, quest’anno ha fatto fuori tutta la dirigenza di Hezbollah (compreso il capo Nasrallah), ha ucciso il capo di Hamas Haniyeh a Teheran, ha fatto fuori all’ambasciata iraniana di Damasco i generali dei pasdaran e dopo la caduta di Assad, occupando tutto il Golan, sta tagliando ogni linea di rifornimento a Hezbollah, che si è visto anche distruggere i terminali marittimi sulla costa siriana.
È evidente che la repubblica islamica non solo è sotto tiro ma sta lottando per la sopravvivenza. Lo si capisce bene da un discorso tenuto qualche giorno fa dall’ammiraglio britannico Tony Radkin al Royal United Service Institute di Londra. Secondo l’ammiraglio «Israele nei bombardamenti del 26 ottobre ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree iraniane e la sua capacità di costruire missili balistici per almeno un anno». Gli F-35 israeliani hanno lanciato i loro missili volando a una distanza di almeno 120 chilometri dai bersagli, quindi fuori da ogni possibilità di intercettazione.
«Il vantaggio militare e di intelligence israeliano – ha concluso Radkin – è fuori dalla portata di ogni avversario locale». E se ne sono accorti anche russi e cinesi perché questa guerra in Medio Oriente diretta all’Iran e ai suoi alleati va molto oltre i confini della regione.
Ecco perché oggi i timori assalgono i vertici iraniani ma domani si possono proiettare su una scala ben più ampia e terrificante. Che il nuovo anno porti consiglio e alla liberazione di Cecilia Sala dal portone d’acciaio di Evin.
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La nave ong Open Arms foto Ansa
Anche troppo semplice esaminare l’esito della vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’ex ministro degli interni Matteo Salvini e che si è conclusa con il «fatto non sussiste», pronunciato dal Tribunale di Palermo.
Semplice, perché è un chiaro esempio della difficile interconnessione di tre aspetti: la rilevanza penale di fatti, accadimenti e comportamenti; la loro dimensione etico-sociale con la relativa responsabilità, diversa da quella penale ma anche più sostanziale per chi ha una funzione pubblica; lo spazio proprio dell’agire politico, mai delegabile ad altri ambiti d’intervento.
Tutti e tre questi aspetti sono interrogati da quel pronunciamento. Si può procedere per gradi: innanzitutto partendo dal significato della dichiarata insussistenza del fatto. Pur tenendo, ovviamente, saldo il principio della doverosa accettazione delle sentenze, va, infatti, chiarito che non esiste identità o sovrapposizione tra il fatto così come configurato nell’attribuzione di una fattispecie penale e il fatto in sé. Al tribunale spetta affermare la sussistenza o meno del fatto come penalmente configurato e non certo il giudizio sull’effettività storicamente determinata di ciò che è avvenuto. Il fatto in sé nel caso della vicenda della nave Open Arms è che la nave è stata trattenuta per diciotto giorni senza indicazione del place of safety (in acronimo Pos) cioè porto sicuro; che questo deve essere, anche in base alla sua previsione sul piano logico, un luogo dove potesse ritenersi conclusa l’operazione di salvataggio; che l’indicazione di rivolgersi ad autorità di altri Paesi è una rinuncia all’esercizio della propria responsabilità rispetto a navi che hanno a bordo persone raccolte in mare, che hanno sofferto la vicenda di una difficile navigazione. Molto spesso persone con già proprie fragilità e tutte con la fragilità intrinseca alla vicenda stessa del cercare un «altrove» diverso per l’impossibilità di continuare a vivere nel proprio alveo.
QUESTO È IL FATTO. Confermato da rapporti, prese di posizione, testimonianze di persone salite a bordo e perfino dalla consapevolezza stessa delle autorità italiane che peraltro hanno provveduto a far scendere, dopo un buon lasso di tempo, le persone più vulnerabili per malattia o per età, proprio a seguito dello stallo che si era venuto a determinare. Che la situazione fosse insostenibile è del resto testimoniato anche dall’esito di quei giorni, dopo la visita a bordo del procuratore di Agrigento che ha ordinato lo sbarco immediato.
Il fatto penalmente configurato è invece che tale situazione si inserisca nelle previsioni penali del sequestro di persona e del rifiuto d’atti di ufficio. Questo «fatto« per il Tribunale di Palermo non sussiste – e leggeremo le motivazioni che hanno portato a tale decisione – mentre certamente sussiste il fatto in sé così come si è determinato in quei giorni di agosto. Del resto, la non sussistenza del fatto penalmente configurato si è giocata attorno alla connotazione dell’agire dell’allora ministro dell’interno quale atto amministrativo, da cui far discendere la responsabilità della non concessione del porto a una nave carica di naufraghi, o quale atto politico che rinvia alla responsabilità collettiva dell’esecutivo sulla base di decisioni non direttamente sindacabili sul piano penale.
RESTANO DI SFONDO alcune considerazioni circa la distorsione interpretativa di obblighi internazionali allora operate dai responsabili del fermo rifiuto. Obblighi che vanno dalla valutazione di «non inoffensività» (da notare la doppia negazione) rispetto a una nave che aveva prestato soccorso in adempimento di norme del diritto del mare, alla sottovalutazione della possibile violazione dell’inderogabile divieto di trattamenti inumani o degradanti (e tali si andavano configurando) nonché alla pretesa di considerare «sicuro» il luogo di permanenza sulla nave ove peraltro era impossibile esercitare il diritto alla ricerca di protezione internazionale, non essendo state ancora identificate le persone soccorse.
Sarà interessante leggere come questi aspetti – segnalati allora anche direttamente al Presidente del Consiglio da me, quale Garante nazionale – siano stati considerati dal Tribunale nella delineazione della conclusiva verità processuale. Perché quest’ultima è l’esito naturale di un processo e non va mai confusa con una verità sostanziale e le due verità non vanno confuse. La verità di una sentenza, infatti, è un enunciato che però vuole esprimere un elemento fattuale: quindi, si fonda sul rapporto tra un atto sostanzialmente linguistico e un atto extra-linguistico, oggetto del giudizio. L’unica modalità per esprimerlo è di tipo inferenziale, deduttivo, ricavandolo cioè da prove e testimonianze connesse in una rete, appunto, di successive deduzioni. Questa linea di inferenza logica connette, tuttavia, qualcosa che è avvenuto nel passato – e come tale densa della situazione contingente, della sua emotività, del suo vissuto – ad affermazioni nel presente che, pur volendo astrarsi da suggestioni contingenti restano svincolate da ciò che il fatto esprimeva. Questo non limita certamente l’importanza fondamentale della verità giuridica che l’enunciato della sentenza afferma, ma lo rende distante dalla verità sostanziale di ciò che fu e apre lo spazio per altre valutazioni più collegate alla materialità dell’evento. Si apre lo spazio della valutazione etica di chi ha agito in quel contesto.
LA DIMENSIONE dell’etica sociale che dovrebbe guidare le azioni e i comportamenti di chi ha responsabilità pubblica interroga allora la funzione della politica, nella sua dimensione evolutiva del sentire comune e non, come avviene attualmente, nell’inseguimento preventivo del consenso, così consolidandolo. La politica non è riassumibile nella dualità, troppo spesso ricordata, che Rino Formica formulò a suo tempo, né nella gestione entro i margini di un presunto «possibile» inteso come limite dell’azione. Risiede invece nella capacità di praticare terreni non di immediato consenso né sottoponibili preventivamente al consenso stesso bensì basati su valori e diritti fondanti una data comunità – e riassunti nel nostro Paese nella Carta costituzionale – estendendoli alla massima applicazione possibile.
SOLO COSÌ la politica è maieutica e assolve alla sua funzione costruttiva di futuro. Molte delle riforme che hanno caratterizzato un passato non troppo lontano anche del nostro Paese hanno avuto questa connotazione: penso alla riforma sanitaria, alla riforma dell’attenzione psichiatrica, all’abolizione delle classi differenziali, alla stessa riforma penitenziaria. Nessuna sarebbe stata adottata soltanto sulla spinta di un presumibile consenso; sono state invece tappe per la costruzione di un consenso più avanzato. Così hanno avuto la dimensione di affermazione di etica sociale.
Per questo non soltanto quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico-sociale, ma anche sul piano politico – proprio quel terreno che la sua difesa in processo ha considerato come elemento risolvente sul piano giudiziario – perché fortemente regressiva e divisiva.
La giustizia assolve, ma la coscienza collettiva non subalterna esprime la sua condanna. Non penale: al contrario, indicativa di quanto questi atteggiamenti e queste azioni siano da contrastare e sconfiggere sul piano della capacità di contrasto politico, senza alcuna delega a quello giudiziario, che ha altre priorità, altre dinamiche e giunge ad altre conclusioni.
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