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Opinioni Il diritto internazionale soffre di un paradosso: che vige solo in virtù della forza che regola. Non basta l’occhio nichilista della geopolitica, metafisica geografica della volontà di potenza. Ecco oggi il mondo girato a destra: la giustizia appiattita sulla forza, vince la politica che viola i vincoli del diritto, diventando criminale e si rovescia nell’opposto, la guerra

Oltre l’indicibile. Preghiera ai lumi del solstizio d’inverno – Ikon

No. Morire di freddo a tre settimane di vita, a Natale, in Palestina: non si può! Una bimba, il quarto bebé in pochi giorni. Non si può continuare a chiamare “terroristi” i giornalisti per poterne sterminare cinque in un colpo solo, come ieri. Questa è violenza assoluta, legibus soluta. È inconcepibile che un responsabile di questo sterminio se ne vanti.

Calpestando la terra sacra alle sue vittime, nel nome del dio dei suoi eserciti. Dove ha origine allora la separazione tra forza, violenza e giustizia?

Pascal era conciso. «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto». Conciso nelle ragioni del cuore: lo sconforto etico, ma anche lo sconcerto filosofico-giuridico. Questo detto famoso esprime una versione del paradosso del diritto, che vige (ha vigore, efficacia) solo in virtù della forza che regola (o dovrebbe: è nato per vincolarla, limitarla, civilizzarla). Niente quanto il diritto internazionale soffre oggi di questo paradosso, che può essere guardato con l’occhio nichilista della dottrina geopolitica, questa metafisica geografica della volontà di potenza, che ha trovato oggi un alleato nel «copresidente Elon Musk» (The Washington Post).

MA LO STESSO PARADOSSO può e dovrebbe essere guardato, invece, con l’occhio del pacifismo giuridico da cui è nato il moderno diritto internazionale. Che per eccellenza esemplifica un altro concetto, espresso con un aforisma di pascaliano nitore: il diritto è la prosecuzione della filosofia con altri mezzi (copyright Ileana Alesso, Presidente di Fronte Verso Network, un’associazione dedita a tradurre in una lingua comprensibile a tutti le leggi e le sentenze, progetto che più socratico non si potrebbe: vedi il libro che Alesso ha scritto con Gianni Clocchiati, prefatto da Gherardo Colombo: Con parole semplici. Leggi, etica e cittadinanza: la comunicazione responsabile, Melampo). Tornando al paradosso: questa altezza mediana del diritto, che sta sospeso a metà fra la giustizia e la polizia, non è un’infelice contraddizione, ma un circolo, che può girare in senso virtuoso o in senso vizioso. E gira all’indietro, viziosamente, se Gorgia la vince su Socrate, la sofistica e la retorica sull’etica e la logica, se l’uomo più potente al mondo grida (nello spazio pubblico che privatamente possiede) alla Germania che solo i neonazisti potranno salvarla e all’Italia che se il suo governo calpesta i diritti umani dei migranti ha sempre ragione; se l’Unione europea approva che i sistemi missilistici forniti dai paesi occidentali possano colpire in profondità la Russia, accettando così lo scontro diretto fra Russia e Nato; se il presidente statunitense uscente approva la reintroduzione di armi micidiali già proibite, se le potenze disfano del tutto gli accordi del 1987 fra Reagan e Gorbaciov, riposizionando in Europa i missili a medio raggio; se pochissimi fra gli stati membri dell’Onu e della Convenzione sul genocidio mettono in pratica le misure immediatamente esecutive della corte di Giustizia Internazionale per fermare il genocidio a Gaza, se Israele può sputare impunemente sull’Onu e i suoi tribunali con l’appoggio dei suoi alleati, se Amnesty International e Human Rights Watch denunciano l’inferno in Palestina nella più generale indifferenza. Natalizia. Col conforto giornalistico degli aedi della violenza levatrice della storia: anime belle e costituzionalisti più o meno globali levatevi di torno.

Oggi che il mondo si sia girato a destra vuol dire questo: che il polo della giustizia si appiattisce completamente su quello della forza e vince la politica che rigetta i vincoli del diritto, anche se violandoli diventa criminale e si rovescia nel suo opposto, la guerra. Forse se i leader della sinistra mettessero finalmente a fuoco questa catastrofe, invece di chiamarsi “sinistra per Israele” o sostenere la guerra giusta, qualche cuore tornerebbe a battere per loro.

EPPURE IL CIRCOLO diventa virtuoso, se ricomincia a girare dalla parte opposta, senza che ci sia bisogno di un’altra apocalissi per arrivare alla conclusione che «la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra civiltà; e che garantire la pace mondiale deve essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo che viene molto prima della scelta fra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo» (Hans Kelsen, La pace attraverso il diritto, 1944).

Lungi dall’essere “risolvibile”, il paradosso del diritto è motore di civiltà finché l’intelligenza che abita il suo polo ideale fabbrica strumenti legali e istituzioni per regolamentare e dirigere settori sempre più vasti del polo inferiore, quello della forza, inclusa quella globale del cosiddetto sistema militare-industriale. Il pacifismo giuridico è un’invenzione di questa intelligenza, che fu da noi quella di Norberto Bobbio e dei suoi scritti postbellici raccolti ne Il problema della guerra e le vie della pace (Il Mulino), come fu quella di Altiero Spinelli, architetto istituzionale di un’unione politica europea che privasse del tutto gli stati nazionali del monopolio legittimo della forza, in linea di principio riducendo gli eserciti alla polizia di uno spazio comune sempre più ampio di sicurezza, libertà, giustizia e commercio sul continente intero, come anche Gorbaciov sognava.

MOLTO PRIMA, nella fucina profonda di un nuovo illuminismo, Edmund Husserl, cui la Grande Guerra aveva rivelato che la ragione doveva farsi diritto dell’umanità, universale e positivo vincolo all’arbitrio di qualunque potere, svolgeva nei suoi corsi di etica un’idea nuova di cultura, come consapevolezza delle delicate e complesse relazioni di interdipendenza fra tutte le vite, e dei vincoli fattuali e normativi, economici, etici, ecologici, estetici e logici, all’interno dei quali soltanto la libertà, la novità, la personalità di ognuno possono fiorire.

Ma era poi un’idea così nuova? I cristiani d’Oriente chiamarono Fotina, l’Illuminata, quella samaritana che al pozzo aveva ascoltato la lezione del maestro nazareno su quanto poco c’entrassero spirito e verità coi monti Garizim o Sion. E fu l’illuminato Capitini a risvegliare il pacifismo nell’illuminista Bobbio.

Forse si può pregare che Natale sia un simile solstizio, insieme, del cuore e della mente, nel pieno dell’inverno.

 

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Governare contro Ci sono molti motivi per cui il governo in carica avrebbe fatto bene a convocare un vertice straordinario l’antivigilia di Natale. Dal crollo della produzione industriale alla dinamica negativa dei […]

L'intervento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in occasione del comizio del centrodestra a Bologna a sostegno della candidata presidente dell'Emilia Romagna Elena Ugolini - foto Max Cavallari/Ansa Giorgia Meloni in occasione del comizio del centrodestra a Bologna a sostegno della candidata presidente dell'Emilia Romagna – Max Cavallari/Ansa

Ci sono molti motivi per cui il governo in carica avrebbe fatto bene a convocare un vertice straordinario l’antivigilia di Natale.

Dal crollo della produzione industriale alla dinamica negativa dei salari, dall’aumento della povertà assoluta al disastro della sanità pubblica al record di analfabetismo funzionale tra i paesi industrializzati, non c’è ricerca né dato di esperienza che in questa fine d’anno non stia fotografando i problemi drammatici e urgenti del nostro paese.

Ma non è di questi problemi che si sono occupati Meloni e i suoi ministri. Anteponendo ancora la propaganda al governo, sono tornati sui centri di deportazione e detenzione dei migranti in Albania.

Un crudele pasticcio che dura da mesi e che non ha prodotto nulla se non sofferenza per qualche decina di migranti, traghettati avanti e indietro dalle celle d’oltremare, e lo spreco di denaro pubblico. Il vertice di ieri dice che il governo intende perseverare nel fallimento.

La formula alla quale si affida Meloni e che è riuscita a imporre in un vertice informale a margine dell’ultimo Consiglio europeo è «soluzioni innovative». Per comprenderne il senso bisogna riferire l’innovazione all’oggetto giusto, che non è l’immigrazione ma il diritto europeo. Le soluzioni che ha in mente Meloni e che sperimenta in Albania sono fuori dal diritto europeo. Contro il quale, infatti, sono andate a cozzare nel giudizio dei tribunali italiani che hanno annullato le «innovazioni» e ordinato il rapido ritorno dei migranti dall’Albania. «Soluzioni innovative» vuol dire soluzioni illegali. Almeno al momento, perché è chiaro che la nuova maggioranza che sostiene von der Leyen così come un numero crescente di paesi europei non vedono l’ora di cambiare in peggio le regole sull’asilo e sui rimpatri.

Nel frattempo il governo italiano vuole portarsi avanti, vertice dopo vertice, decreto dopo decreto, ormai dichiaratamente provando ad aggirare i vincoli del diritto costituzionale e comunitario. E se non basta ancora, allora si «innova» nel racconto dei fatti – del resto Trump non ha insegnato che le falsità sono solo «fatti alternativi»?

«Innovativa» è la lettura che propone il governo della sentenza della Cassazione in materia di protezione internazionale. La Corte ha chiarito che spetta ai giudici, quando devono giudicare sul diniego dell’asilo, valutare l’effettivo grado di sicurezza di uno stato estero anche se il governo lo ha qualificato come «sicuro». Naturalmente la Corte ha ribadito l’ovvio, e cioè che la valutazione deve avvenire sulla base di specifiche circostanze, che la compilazione della lista dei paesi sicuri spetta all’autorità politica e che le ordinanze dei giudici, anche quando sfavorevoli al governo, non cancellano la lista.

Su questo ovvio il governo ha costruito un racconto falso per il quale i giudici di Cassazione gli avrebbero dato ragione. E persevera. Anche perché l’assoluzione di Salvini a Palermo riporta di attualità la competizione tra il leghista e la presidente del Consiglio su chi è più bravo a «difendere i confini», cioè chi è più feroce con i migranti. Una concorrenza che si gioca sulla pelle di un numero relativamente molto ridotto di uomini, donne e bambini sofferenti e in fuga e che dunque non può servire neanche in astratto ad affrontare il tema delle migrazioni.

Serve alla propaganda, serve giorno dopo giorno a indebolire la presa dei principi fondamentali e la tenuta dello stato di diritto. Perché questo accade, alla lunga, quando è il potere costituito a prendere a spallate le leggi superiori che regolano la convivenza civile. Non si chiama innovazione, si chiama eversione.

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Medio Oriente Di fronte a sé Netanyahu ha l’opportunità storica che, prima di lui, si presentò solo al “padre della patria” David Ben Gurion: ridisegnare le frontiere fisiche dello Stato di Israele; costringere il popolo palestinese a scegliere tra la diaspora o una vita da schiavi sulla propria terra; e restringere (ancora) il perimetro della «democrazia etnica» su cui dal 1948 lo Stato ebraico fonda la sua legittimazione internazionale

Gaza City, la distruzione lasciata dall'offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona di Al Shifa Ap Gaza City, la distruzione lasciata dall'offensiva aerea e terrestre israeliana nella zona dell'ospedale Al Shifa – Ap

Da quattordici mesi analisti e commentatori tentano di stare al passo del governo di Benyamin Netanyahu per carpirne gli obiettivi militari definitivi, la linea oltre la quale Tel Aviv possa dirsi soddisfatta della carneficina compiuto e rivendicata. L’entusiasmo dell’ultima settimana intorno al cessate il fuoco con Hamas si è andato via via spegnendo, identico destino di tutti gli entusiasmi precedenti.

CAPIRE se la tregua, seppur parziale, sia stavolta davvero a un passo è materia per stregoni, non per analisti.

Si è detto che l’obiettivo di Netanyahu fosse la guerra per la guerra, proseguire nell’annientamento di Gaza per non finire sotto processo e per trasformare la Striscia in un luogo invivibile. La campagna libanese prima e quella siriana oggi disegnano un’altra realtà: di fronte a sé Netanyahu ha l’opportunità storica che, prima di lui, si presentò solo al “padre della patria” David Ben Gurion.

Ridisegnare le frontiere fisiche dello Stato di Israele; costringere il popolo palestinese a scegliere tra la diaspora o una vita da schiavi sulla propria terra; e restringere (ancora) il perimetro della «democrazia etnica» su cui dal 1948 lo Stato ebraico fonda la sua legittimazione internazionale.

L’OBIETTIVO è il superamento dei confini – territoriali, morali e politici – secondo la visione messianica di un’estrema destra iper nazionalista e razzista che travalica gli argini su cui il primo sionismo aveva costruito il racconto di sé: la separazione, cifra originaria dello Stato, che ha sempre seguito linee sociali ed etniche, ora alza barriere anche dentro la popolazione privilegiata, quella bianca europea. Al nemico interno per eccellenza, il popolo palestinese, si affiancano nuovi nemici, chi diserta, chi contesta, chi promuove una stampa dissidente.

Netanyahu sta ridisegnando il Medio Oriente secondo coordinate coloniali e di potenza – con un genocidio a Gaza, una pulizia etnica in Cisgiordania e l’indebolimento strutturale dei paesi “nemici” – come ridisegna l’immagine del suo paese, facendo cadere una volta per tutte quella finzione democratica che i palestinesi denunciano da sette decenni. L’ovvia deriva autoritaria di un regime coloniale e di segregazione razziale non può che passare per la guerra infinita e per l’imposizione di un’idea di «sicurezza» che coincide con l’annientamento dell’altro.

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Al Cairo il negoziato sulla tregua prosegue, a Tel Aviv Netanyahu promette: nessun accordo fino alla distruzione di Hamas. Pioggia di fuoco sull’ospedale Kamal Adwan di Gaza, Israele ordina ai medici di andarsene. Papa Francesco: «Non è guerra, è crudeltà»

L'intrattabile Al centro dei negoziati il destino del valico di Rafah. Bombe e artiglieria, a Gaza attacco senza precedenti contro l’ospedale Kamal Adwan. I missili yemeniti arrivano a Tel Aviv: 20 feriti

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante un sopralluogo sul monte Hermon, nel Golan occupato, con il ministro della difesa Israel Katz Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante un sopralluogo sul monte Hermon, nel Golan occupato, con il ministro della difesa Israel Katz – Ansa

Una delegazione israeliana è giunta ieri al Cairo per riprendere la discussione su un possibile accordo di cessate il fuoco a Gaza, con scambio di ostaggi e prigionieri politici palestinesi.

Al centro dei negoziati, secondo i media qatarioti, la gestione dei confini e il controllo del valico di Rafah. Hamas e i gruppi palestinesi della Jihad Islamica e del Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno dichiarato di essere vicini a un accordo, sempre che Israele «non aggiunga nuove condizioni».

SI TRATTEREBBE, in ogni caso, di una tregua temporanea e non della fine della guerra. Lo ha dichiarato apertamente il premier Netanyahu in un’intervista rilasciata venerdì al Wall Street Journal: «Non accetterò di porre fine alla guerra prima di aver rimosso Hamas». Mentre il gruppo islamico spiegava in un comunicato di aver discusso con le altre fazioni palestinesi del governo del dopoguerra, il primo ministro israeliano dichiarava che non c’è spazio per Hamas nella Striscia: «Non li lasceremo al potere a Gaza, a trenta miglia da Tel Aviv. Non succederà».

Nell’intervista traspare tutta la fiducia del governo di Tel Aviv sull’impegno del nuovo presidente Usa Donald Trump per garantire il proseguimento della guerra: «I rinforzi sono in arrivo», ha dichiarato, riferendosi all’invio di armi. Da utilizzare sui diversi fronti, anche in Libano se Hezbollah dovesse «voler continuare» il confronto.

Al momento i pericoli maggiori in termini di perdite militari per Israele sono a Gaza, mentre gli Houthi stanno mettendo a dura prova la sicurezza della popolazione civile: nella mattinata di ieri un missile balistico partito dallo Yemen ha colpito l’area di Tel Aviv. I sistemi di difesa non sono riusciti a intercettarlo e circa venti persone sono rimaste ferite. Dall’inizio della guerra gli Houthi hanno lanciato più di 200 missili e 170 droni.

Funerali ieri al al-Ahli Baptist Hospital, Gaza City
Funerali all’ospedale battista al-Ahli di Gaza, foto Mahmoud Sleem /Getty Images

Intanto, diverse fonti riportano notizie di un’ulteriore escalation delle operazioni israeliane nel nord di Gaza, soprattutto nell’area

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Egregio Ministro, Le scrivo di nuovo dalla desolazione della “trincea”: quella in cui ogni giorno, con le studentesse e gli studenti, combattiamo l’eterna guerra contro la semplificazione e la superficialità. Oggi, però, le scrivo per ringraziarla delle Linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica che ci ha inviato all’inizio dell’anno scolastico. Da oggi abbiamo un punto fermo nel nostro lavoro di docenti ed educatori: ci dirigeremo nella direzione esattamente opposta a quanto ci indica.

L’educazione civica, secondo lei deve «incoraggiare lo spirito di imprenditorialità, nella consapevolezza dell’importanza della proprietà privata». In modo quasi ossessivo nel documento traccia l’idea di una sorta di “educazione alla proprietà ”. Ma cosa dovremmo farci di questo slogan vuoto? Stiamo oltrepassando finanche il senso del ridicolo, andando oltre la teoria delle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, internet).

Ai nostri studenti, signor Ministro, l’articolo 42 della Costituzione lo leggiamo e lo spieghiamo: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge […] allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere [..] espropriata per motivi di interesse generale “. Dice proprio questo la Costituzione! Però non si ispira a Pol Pot ma alla dottrina sociale della Chiesa, al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti.

Nelle Linee guida Lei continua, poi, con l’affermazione di sapore thatcheriano, ma in realtà generica e vuota quanto la prima, per cui dovremmo insegnare che «la società è in funzione dell’individuo (e non viceversa)». Vede Ministro, se le dovesse capitare di sfogliare la Costituzione italiana scoprirebbe che il termine “individuo” semplicemente non compare. E questo perché la rinuncia a questo concetto (l’angusto “io” paleo-liberale chiuso nella rivendicazione egoistica dei propri diritti) faceva parte del patto tra i social- comunisti e i cattolici democratici, che lo sostituiscono con la nozione di “persona” che indica «il singolo nelle formazioni sociali» in cui solo si può realizzare.

La questione della patria, che lei intende come appartenenza identitaria e suggerisce di mettere al centro dell’educazione civica, merita da sola una prossima lettera. Mi consenta però di farle notare che, se sfogliasse la Costituzione, scoprirebbe che il termine “patria” compare solo una volta (perché Mussolini lo aveva profanato e disonorato) e per di più non ha niente a che fare con “i sacri confini nazionali” da difendere o l’italianità quale identità da salvaguardare contro la minaccia della sostituzione etnica.

La patria è il patrimonio dei padri e delle madri costituenti, vale a dire le istituzioni democratiche non separabili dai valori costituzionali: l’eguaglianza, la libertà, la pace, la giustizia, il diritto di asilo per lo straniero «che non ha garantite le libertà democratiche» . I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco dei migranti, ma coloro che ogni giorno testimoniano il rifiuto della discriminazione . Cosi come patrioti non erano i fascisti che hanno svenduto la patria a Hitler e l’hanno profanata costringendo milioni di italiani ad offendere altre patrie, ma i membri dei GAP (che non erano i “gruppi di azione proletaria” come ebbe a dire, per dileggio, Berlusconi), ma i “gruppi di azione patriottica (appunto), che operavano nella Brigate Garibaldi dei patrioti comunisti italiani, protagonisti della Resistenza quale secondo Risorgimento.

Ci consenta di formare i nostri studenti ispirandoci a chi di patria si intendeva: non a Julius Evola o Giorgio Almirante, ma a Giuseppe Mazzini che ha ripetuto per tutta la vita che la patria non è un suolo da difendere avidamente ma una «dimora di libertà e uguaglianza» aperta a tutti: «Non vi è patria dove l’eguaglianza dei diritti è violata dall’esistenza di caste, privilegi, ineguaglianze. In nome del vostro amore di patria, combattete senza tregua l’esistenza di ogni privilegio, di ogni diseguaglianza sul suolo che vi ha dato vita. (Dei doveri dell’uomo). Mazzini non contrapponeva la patria all’umanità, ma la considerava il mezzo più efficace per tutelare la dignità di ogni essere umano: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono verso l’ Umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. […] In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte per il diritto, per il giusto, per il vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. (Dei doveri dell’uomo)

E ci consenta, da educatori democratici, di trascurare le sue Linee guida, per illuminare le coscienze dei giovani con le parole di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Egregio Ministro, dal momento che la costruzione di una cittadinanza consapevole avviene anche attraverso l’esercizio della memoria storica e civile, Lei ci ha inviato a una circolare con cui ha bandito un concorso per le scuole con lo scopo di celebrare la «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Il titolo del concorso: «1945: la guerra è finita!»
Incredibile! Il 25 aprile 1945 che, prima dell’era Valditara, era semplicemente e banalmente la «liberazione dal nazifascismo» ora diventa un momento della «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Cosa dovrebbero ricordare le giovani generazioni nella sua bizzarra idea di memoria civile? Ecco il suo testo: «il popolo che ha subito sulla propria pelle gli orrori di quel tremendo conflitto, dai bombardamenti degli alleati alle rappresaglie nazifasciste [equiparati !] fino agli ordigni bellici inesplosi che, nei decenni a venire, hanno continuato a produrre invalidità e mutilazioni». E tutto per andare «al di là della tradizionale lettura vincitori-vinti», opposizione che attentamente sostituisce quella di antifascisti/liberatori e fascisti.

Si tratta dunque, secondo lei, di ricordare una guerra tra tante, quasi un ineluttabile evento naturale in cui tutti sono cattivi (i liberatori, gli aguzzini e i partigiani) e dunque tutti ugualmente assolti nel tribunale della neostoria.

Del resto, Ministro, devo darle atto di una certa garbata compostezza sulla memoria del 25 aprile. La sua sottosegretaria (la nostra sottosegretaria all’Istruzione) Paola Frassinetti la Festa della Liberazione l’ha festeggiata al campo 10 del Cimitero maggiore di Milano per onorare i volontari italiani delle SS. E’ immortalata in un video in mezzo a un drappello di camerati che sfidano, tra insulti e minacce, alcuni manifestanti antifascisti. Frassinetti si lascia andare alla rabbia ed esclama “ma vai aff…”. Sempre a proposito di Linee guida per l’educazione civica… Da sottosegretaria del suo Ministero Paola Frassinetti, il 28 ottobre del 2024, anniversario della marcia su Roma, ha celebrato il “fascismo immenso e rosso”.

Capisce, signor Ministro, perché ci sentiamo soli nella trincea? E perché le ho detto che è “passato al nemico” (il nemico è la parzialità, la manipolazione, la contrapposizione faziosa). Ma noi siamo combattenti testardi. Non avendo capi politici da lusingare, la nostra coscienza e la Costituzione antifascista sono le nostre uniche e inderogabili “linee guida” da seguire nel formare cittadine e cittadini liberi e consapevoli.
Egregio Ministro, spero che queste parole non mi costino quella decurtazione dello stipendio che ha inflitto a un mio collega per aver pronunciato delle parole che Lei non ha gradito.

Sarebbe non solo grave ma anche di cattivo gusto anche perché di recente insieme ad altri ministri lei lo stipendio ha cercato di aumentarselo.

P. S.
Le sue Linee guida stanno conseguendo i primi risultati. Qualche giorno fa uno studente che aveva studiato la divisione dei poteri di Montesquieu ha osservato che se un ministro fa una manifestazione sotto un tribunale per difendere un altro ministro sotto processo viola la separazione dei poteri. Aggiungendo che un ministro non è un semplice cittadino ma un membro dell’esecutivo, cioè di un potere dello stato. Gli ho risposto che ha ragione e gli ho dato un ottimo voto in educazione civica.
Con cordialità
Giancarlo Burghi

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