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Economia a Cernobbio. Oggi Cernobbio, ieri Jackson Hole, domani Davos. Un tempo questi informali incontri al vertice del potere internazionale riuscivano a mantenere i toni glamour tipici delle leggiadre passerelle, delle armoniche serate […]
Pupari e marionette di guerra
 

Oggi Cernobbio, ieri Jackson Hole, domani Davos. Un tempo questi informali incontri al vertice del potere internazionale riuscivano a mantenere i toni glamour tipici delle leggiadre passerelle, delle armoniche serate di gala. Tra una foto in posa e un dinner ufficiale c’era anche da concordare qualche rilevante decisione politica, beninteso. Ma il tutto avveniva in piena serenità, dietro le quinte, lontani dal fastidioso vocìo dei parlamenti.

E sempre in un clima di sintonica allegrezza. Oseremmo dire, di amore capitalistico tra potenti.

Insomma, mostrare il bel volto di un potere unito, solo invidiabile e mai attaccabile: questa era un tempo la funzione dei cosiddetti incontri informali al vertice.

Da qualche anno, tuttavia, lo scenario è profondamente mutato. I sorrisi si fanno tesi, le strette di mano appaiono insicure. La vecchia dolcezza del bel mondo in posa appare sempre più inquinata da dissidi, controversie, nuove lotte materiali tra i potenti. Che pure cambiano postura e passo: sui delicatissimi prati delle ville ospitanti oggi è il tempo dei talloni di ferro.

Accade anche a Cernobbio, che inaugura il suo celebre forum dando la ribalta a Zelenskyj e a Orbán, due esemplari perfetti della nuova, feroce epoca di lotte al vertice. Gli ospiti del meeting si vedono costretti, più o meno esplicitamente, ad allinearsi alle fazioni che questi due nuovi “mostri” di diplomazia oggi rappresentano. Da un lato ci sono gli atlantisti a oltranza, capitalisti convinti che dalla guerra si può ancora guadagnare. Dall’altro lato troviamo gli imprenditori putinisti, o più prosaicamente i proprietari che vogliono farla finita con una guerra che non li aiuta a macinare profitti.

A ben vedere, però, Zelenskyj e Orbán non rappresentano le incarnazioni più nitide della lotta al vertice di questi mesi. In realtà, esiste una linea di faglia più profonda, che disegna uno scontro ancor più decisivo tra poteri internazionali. In questo conflitto capitale troviamo per un verso i sostenitori di una “normalizzazione” delle politiche economiche, al fine di rilanciare i tassi d’interesse e le rendite finanziarie dei creditori. Sono i nostalgici del periodo glorioso che precede la grande recessione internazionale del 2008. Era l’epoca in cui i tassi d’interesse medi al netto dell’inflazione ancora veleggiavano al di sopra del tre percento. Grazie a quelle cifre, in gran parte del globo, i capitalisti finanziari mangiavano quote enormi di prodotto interno lordo. Se tornare a quella fase vorrà dire scatenare nuove crisi del debito e nuova disoccupazione, poco importa. L’essenziale è che i creditori tornino a respirare e a godersela. Il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, è la maschera perfetta di questi normalizzatori.

Dall’altro versante della grande contesa ci sono gli apologeti di un nuovo keynesismo protezionista e militare, seguaci della guerra e dell’inflazione come fattori di rinnovamento del profitto capitalista. Sono gli esponenti della nuova coscienza infelice del capitale, ormai rassegnati all’idea che nel declinante ovest del mondo sia difficile tirar su i guadagni dal lato delle rendite finanziarie e che si debba pertanto agire da un altro lato. La tesi di questi è che il tempo in cui si poteva guadagnare concedendo prestiti e girandosi i pollici è finito. Siamo ormai in piena fase imperialista, in cui la competizione tra capitali scivola inesorabilmente nello scontro militare. Bisogna quindi chiudere le frontiere dei commerci e spostare risorse pubbliche verso l’investimento nelle tecnologie belliche. E se l’effetto finale è inflazionistico e i tassi d’interesse netti tornano a scendere, ben venga. I capitalisti che fanno i prezzi avranno solo da guadagnarci. Basterà stringere ancor più il guinzaglio attorno alle rivendicazioni salariali. Il capitano ideale di questa truppa di potenti visionari è Mario Draghi.

Tra questi grandi ospiti dei vari vertici informali esiste una precisa gerarchia strutturale. Per intenderci, la contesa tra Nagheliani e Draghiani, se così si può dire, è quella che sta tirando realmente i fili della politica internazionale. Comparativamente parlando, Orban, Zelenskyj e gli altri ospiti di Cernobbio sono soltanto marionette in scena

 

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Ultimo spettacolo. Il «sistema politico mediatico» che vuole abbattere il governo ha sbagliato mira. Complottava, insieme alle toghe ultraviolette, per colpire Arianna Meloni ma, nonostante gli sforzi della first sister per restare al centro del plot, ha invece affondato Gennaro Sangiuliano

Gennaro Sangiuliano (Ansa) Gennaro Sangiuliano - Ansa

Il «sistema politico mediatico» che vuole abbattere il governo ha sbagliato mira. Complottava, insieme alle toghe ultraviolette, per colpire Arianna Meloni ma, nonostante gli sforzi della first sister per restare al centro del plot, ha invece affondato Gennaro Sangiuliano.

«Stiamo facendo la storia», ha detto l’altro giorno la premier ai Fratelli raccolti intorno alla loro leader, avvertendoli: «Non sono ammessi errori». Peccato – avrebbe potuto aggiungere – se questa grande epopea per ora è un po’ così, zoppicante, anzi fa acqua da tutte le parti, ma come si dice? Dagli errori proviamo a imparare… Niente di nuovo sotto la fiamma, invece. Il solito vittimismo, condito da un tocco di berlusconismo d’antan: a rovinare un eccellente lavoro al ministero della Cultura sono stati l’odio e il gossip.

La feroce sinistra però non ha nemmeno avuto il tempo di accorgersi di avere tanto potere, manifesto o occulto che sia. La ripartenza del governo dopo le vacanze di Giorgia Meloni è stata così precipitosamente rovinosa a causa degli errori inanellati dalla stessa premier -preoccupata di dare il via a uno di quei rimpasti che sai come comincia ma non come finisce – che gli animatori del famoso «sistema politico mediatico» ostile non hanno dovuto fare molto altro che prendere i pop-corn, come Maria Rosaria Boccia suggeriva su Instragram, e assistere a uno spettacolo pieno di colpi di scena.

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La crisi in Israele. Al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si attribuiscono, come è noto, eccelse doti di statista, di grande negoziatore e diplomatico, di fine oratore, politico navigato e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, fin dagli inizi della cosiddetta rivoluzione giudiziaria che il suo governo ha voluto attuare, l’immagine del premier ha subito danni e provocato critiche violente, dentro Israele e fuori
Un Paese ostaggio delle menzogne del primo ministro 

Al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si attribuiscono, come è noto, eccelse doti di statista, di grande negoziatore e diplomatico, di fine oratore, politico navigato e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia, fin dagli inizi della cosiddetta rivoluzione giudiziaria che il suo governo ha voluto attuare, l’immagine del premier ha subito danni e provocato critiche violente, dentro Israele e fuori.

Con il 7 ottobre, il risveglio alla realtà è stato incredibilmente traumatico e inaspettato per la maggior parte degli israeliani. E’ stato quasi logico accusare in primo luogo Netanyahu. Al tempo stesso, davanti alle immagini dei cittadini assassinati, delle case incendiate, distrutte, saccheggiate, di uomini armati che liberamente e senza freni percorrevano il sud del paese, ci si chiedeva: d’accordo, il premier è lui, ma dov’era il famoso, intelligente, morale, invincibile esercito? In effetti, lo scorso aprile il capo dei famosi e ultramoderni servizi di intelligence dell’esercito ha ammesso le proprie responsabilità rassegnando le dimissioni. Dopo meno di 24 ore dall’attacco, ecco la risposta di Israele. Altrettanto barbara: niente trattative (come consigliavano invece, e invano, alcuni sprovveduti), solo vendetta; orgogliosa vendetta. Una lezione esemplare, ripetevano tanti. Ed ecco qua: è già stato versato il sangue di 40 mila palestinesi, mentre si continua a percorrere il sentiero dell’orrore. Chi mai legge Frantz Fanon di questi tempi? Siamo convinti che la violenza sia molto educativa.

Il sentimento dominante è il dolore o l’odio?

Dopo gli accordi di Oslo del 1993, anche fra i militanti di Hamas ci fu chi evocò la possibilità di negoziare la prospettiva dei due Stati. Niente da fare: Netanyahu fu più pratico, arrivando ad accordi segreti che consentirono al Qatar e ad altri donatori di far entrare a Gaza grandi somme di denaro, non solo per tamponare la difficile situazione economica, ma anche per aiutare Hamas a consolidarsi anche militarmente. Inoltre, in tempi recenti è risultato chiaro che gran parte delle armi dell’arsenale di Gaza sono state fabbricate nella Striscia stessa utilizzando anche le munizioni inesplose e le armi rubate alle basi militari.

La maggior parte dei cittadini ha compreso che, dei 120 prigionieri tuttora nelle mani di Hamas, quasi la metà potrebbe essere ormai morta. Il premier non ha mai mostrato grande attenzione ed emozione per le vittime e le loro famiglie in lutto, attirandosi critiche crescenti. Le operazioni che in precedenza hanno condotto l’esercito israeliano a liberare alcuni dei prigionieri hanno consentito a Netanyahu di presentarsi come un salvatore. Emblematico il caso di una donna ostaggio riuscita a tornare presso la madre pochi giorni prima che quest’ultima morisse. Insieme a suo padre, che per l’emozione sembrava sciogliersi davanti al grande leader, è stata portata al Congresso statunitense, il grande palcoscenico che Netanyahu è riuscito ad assicurarsi. Presenti fra gli altri un soldato israeliano di colore autore di atti eroici nella guerra, e naturalmente la moglie del grande leader, sorridente insieme all’ex ostaggio e al padre di quest’ultima.

Quando, malgrado la sempre più intensa mobilitazione delle famiglie degli ostaggi, Netanyahu ha annunciato il carattere sacro del controllo israeliano del corridoio Filadelfia, la risposta di Hamas non è stata molto umanitaria: sei ostaggi uccisi, tre dei quali erano nella lista dei candidati al rilascio in caso di accordo. Allora la rabbia popolare è diventata indicibile. Inutilmente Netanyahu ha detto: «Non li ho uccisi io, li ha uccisi Yahya Sinwar, li ha uccisi Hamas».

La collera contro il governo è diventata così palpabile e diffusa che il premier è tornato alla sua collaudata tecnica, annunciando un discorso alla nazione. Grande attesa, anche se lo svolgimento era già noto, comprese la grande mappa della regione e la bacchetta da insegnante. Il punto principale è stato chiaro: il carattere sacro del controllo del corridoio Filadelfia e del valico di Rafah. Ma i non credenti e gli ignoranti – a causa della loro appartenenza di sinistra o di altre patologie – devono essersi sentiti un po’ confortati quando alcuni dei più seri commentatori di diverse reti televisive hanno sottolineato errori e menzogne nella presentazione a cura del premier. La rabbia popolare è esplosa perché il messaggio è stato molto semplice: nessuno spazio per le trattative.
Ah no? Tornato dai negoziati in Qatar, il direttore del Mossad ha riferito che il premier era pronto a lasciare il corridoio Filadelfia. Ma nella notte Netanyahu in persona ci ha detto che è impossibile abbandonare quel luogo sacro. Nel frattempo i brutali attivisti del partito Likud attaccano i parenti degli ostaggi e dichiarano con orgoglio nazionale che sarebbe meglio che venissero uccisi.

Forse possiamo aiutare un po’ Donald Trump impedendo uno scambio di prigionieri che aiuterebbe Joe Biden? Ma il pericolo di una guerra civile?

 
 
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Scommessa fallita. La crisi politica francese mostra i limiti di un sistema costituzionale in cui i poteri del presidente si sono ampliati senza tener conto della trasformazione nella composizione della rappresentanza parlamentare

Francia, la posta in gioco è il futuro della democrazia 

La crisi politica francese mostra i limiti di un sistema costituzionale in cui i poteri del presidente si sono ampliati senza tener conto della trasformazione nella composizione della rappresentanza parlamentare, che da tendenzialmente bipolare (secondo il classico schema destra-sinistra) si è frammentata dando vita a un multipolarismo fluido, nel quale alcuni partiti storici sono scomparsi, o hanno subito scissioni che ne hanno ridimensionato il peso, e altri sono nati, rendendo più difficile la formazione di maggioranze parlamentari coerenti e stabili.

In Francia questa mutazione del panorama politico è avvenuta all’ombra dell’ascesa dei consensi della destra estrema, che si è consolidata come forza in grado di condizionare le politiche del paese, anche se non è riuscita ancora a conquistare la guida dell’esecutivo o la Presidenza della Repubblica.

La scommessa “centrista” di Macron, che ha puntato sull’ulteriore scomposizione della sinistra in due aree, una moderata, di fatto subalterna al partito del presidente, e l’altra radicale, da marginalizzare attraverso il modello degli “opposti estremismi” è fallita. Di fronte alla prospettiva di un centro che persegue politiche economiche neoliberali, e di una destra nazionalista, la sinistra si è ricomposta dando vita a un’alleanza, il Nfp, che nelle ultime elezioni – volute da Macron senza consultarsi con nessuno – ha conquistato una posizione di maggioranza relativa. In queste circostanze, la logica della rappresentanza avrebbe condotto naturalmente all’incarico di un esponente della coalizione di maggioranza relativa, ma il Presidente ha messo in atto una strategia di dilazione puntando sulla spaccatura del Nfp. Dato che questa ipotesi non si è realizzata, Macron ha reso esplicito il suo rifiuto di dare l’incarico a un esponente della sinistra, avviando consultazioni il cui scopo è stato quello di favorire la costituzione di un’altra maggioranza relativa che sia omogenea rispetto alle politiche che nella legislatura precedente erano state portate avanti dal governo di minoranza guidato dal suo partito. Dopo alcune settimane, e lunghe consultazioni, arriva l’incarico a Michel Barnier, uomo della destra tradizionale, che non dispiace affatto a Le Pen.

La situazione di stallo politico viene superata, dunque, ma rischiando una vera e propria crisi costituzionale: due minoranze sono state in competizione per accaparrarsi il numero di parlamentari che sarebbe stato sufficiente a formare un governo, e la destra ha giocato il ruolo privilegiato di forza di interdizione che ha tutto da guadagnare da una situazione in cui è stata in grado di prevenire la formazione di un governo di sinistra e, allo stesso tempo, di condizionare gli orientamenti di un governo centrista nascente, che sarà costretto a cercare i propri consensi volta per volta nell’assemblea, o a ricorrere, come ha già fatto il precedente esecutivo, a strumenti legislativi che la costituzione autorizza, ma che sviliscono il ruolo della rappresentanza parlamentare.

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L’aspetto più grave della situazione francese, che, come si è detto, è il risultato di scelte di cui Macron porta in pieno la responsabilità, è che il Presidente ha fatto chiaramente capire di non essere disposto a riconoscere la legittimità di indirizzi politici diversi da quelli che egli ha promosso nella precedente legislatura. La natura tendenzialmente paternalista del presidenzialismo alla francese, non a caso modellata sulla figura di un leader sui generis come Charles de Gaulle, si sta evolvendo dunque in una direzione esplicitamente autoritaria. Appare chiaro, infatti, che uno spostamento del conflitto sul piano extraparlamentare – attraverso mobilitazioni che già si annunciano nei prossimi giorni – andrebbe incontro a una reazione repressiva (come è già accaduto altre volte nel corso del mandato di Macron all’Eliseo).

C’è in questa torsione autoritaria la chiara impronta di uno dei caposaldi dell’ideologia neoliberale, che consiste nel mettere la politica economica, guidata da principi di favore per il capitale, al riparo dalle interferenze che possono derivare dalla formazione di maggioranze parlamentari che potrebbero perseguire indirizzi redistributivi di politica economica. Spezzare le reni alla sinistra, anche attraverso la forza, è giustificato, in questa prospettiva, dall’obiettivo di subordinare il lavoro all’impresa, l’eguaglianza all’efficienza. Tanto peggio, se questo vuol dire restringere la libertà di scelta o di manifestazione delle opinioni. La posta in gioco in Francia, quindi, non è soltanto la formazione di una maggioranza parlamentare, ma il modo di intendere la democrazia e il suo rapporto col capitalismo. Cioè il suo futuro

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Guerra ucraìna. Dopo l’invasione ucraina della regione russa del Kursk la pressione militare russa nel Donbass non solo non si è arrestata, come voleva Kiev, ma è aumentata di intensità

Il lungo raggio di un disastro ravvicinato Una colonna militare russa nella regione di Kursk - Ap

Siamo a un mese esatto dall’operazione militare ucraina del 5-6 agosto nella regione russa di Kursk, l’azzardata e storica “invasione” della Federazione russa – il Corriere della Sera ha fatto riferimento alla prima volta dell’operazione Barbarossa del 1941 delle truppe hitleriane – stavolta per risposta che si è voluta a tutti i costi simmetrica all’invasione russa del Donbass del febbraio 2022. Ora, di fronte al terremoto politico in corso nel potere a Kiev, è legittimo interrogarsi sui risultati dell’operazione Kursk. Perché? Perché, sostenuta dalla Nato e dalla stessa Unione europea come risposta legittima e pratica attuazione del diritto ucraino a colpire con armi occidentali in profondità il territorio russo, che è stato colpito più e più volte fino a Mosca stessa, è stata via via motivata con ragioni che appaiono sempre più incredibili e controproducenti.

Dal presidente ucraino Zelensky, dai suoi consiglieri – tempi duri per i consiglieri – per non dire dell’esaltazione di molti media occidentali, è stata raccontata infatti come: necessità di avere territori da scambiare in una eventuale trattativa (35 km, 90 villaggi e il centro strategico di Sudzha occupati paragonabili a tutto il Donbass autoproclamatosi indipendente e annesso con la forza da Mosca che amministra ormai quei territori come suoi?

Poi come necessità di costruire una improbabile zona cuscinetto; e soprattutto come tentativo di rompere la pressione militare russa nel Donbass. Questa operazione, probabilmente suicida di un migliaio di militari ucraini, enfatizzata invece a più non posso come ultima declinazione del concetto di “vittoria”, come prova di forza “eguale” in una guerra che è e resta asimettrica e come vendetta – «Ora provano quello che abbiamo provato noi» – a questo punto si trova sospesa n territorio nemico, con Mosca che comincia a dare notizia di battaglie con impiego di truppe speciali arrivate dalla regione di Kaliningrad, che hanno fermato l’avanzata iniziata il 5-6 agosto.

Ma il fatto più rilevante è che la pressione russa nel Donbass non solo non si è arrestata ma è aumentata di intensità con nuove conquiste di territorio, mettendo a repentaglio nuove città a cominciare dalla strategica Pokrovsk. In buona sostanza più è aumentato il lungo raggio della guerra, più la risposta di Mosca è stata immediata, durissima e “a lungo raggio”. Come dimostra l’abbattimenro (in volo o a terra) di un prezioso F16 con il suo pilota, Oleksii ‘Moonfish’ Mes, volto della campagna di Zelensky per ottenere proprio gli F-16 dagli Usa, che ha provocato il siluramento del capo dell’aviazione; senza tacere la distruzione, proprio in questo mese, di più del 40% delle infrastrutture energetiche con relativo siluramento del capo ucraino del Dipartimento energia; e ad ultimo come dimostra la strage di militari di Poltava, una importante scuola di addestramento, vale a dire la chiave della difficile e non popolare mobilitazione ucraina.

Più si colpisce in profondità la Russia, con operazioni militari azzardate e con armi occidentali, più Putin risponde ricordando l’asimmetria della sua forza in campo e più trova “ragioni” di fronte al popolo russo per confermare la giustezza, la lungimiranza del suo operato nel febbraio 2022 quando con l’invasione dichiarò di avere prevenuto un’operazione Nato-Ucraina contro la Russia, e che ora l’azzardo di Kiev con l’invasione nel Kursk – che secondo il New York Times ha tra l’altro fatto fallire una tornata di colloqui per una tregua – rende concreta agli occhi dell’opinione pubblica, non solo russa.

Si può dire che siamo ad un fallimento di quell’azzardo. O dobbiamo aspettare che dopo i tre ministri – uno dei quali responsabili degli armamenti – e altri altissimi funzionari ai quali si è aggiunto nelle ultime ore lo stesso decisivo ministro degli esteri Kuleba, dobbiamo aspettarci anche quelle dello stesso Zelensky? Il giudizio resta sospeso per una questione dirompente: l’attuale debolezza di Kiev che rasenta la sconfitta rilancia con Zelensky la richiesta “subito” di missili a lungo raggio per colpire ancora più in profondità la Russia. Cancellerie europee e Stati uniti pur convinti di queste motivazioni hanno già dato il via libera (con poche eccezioni che comunque confermano l’avvio irresponsabile di un riarmo europeo che si arrischia a usare perfino i fondi del Pnrr) all’uso delle armi occidentali in chiave offensiva dentro il territorio russo.

Ma il salto di qualità verso il disastro sarebbe a questo punto l’arrivo di nuove sofisticate armi a lungo raggio, come i missili americani Jammer, pronti a partire, ormai promessi ma «solo in autunno inoltrato non ora» dicono fonti della Casa bianca, anche perché le nuove forniture sembrano appese anche loro alle vicende delle presidenziali Usa. Per le quali un clima concreto da Terza guerra mondiale e di un confronto nucleare con Mosca in piena tornata elettorale non sarebbe, come a dire, di buon auspicio al di là della contesa Kamala Harris-Trump; e in Europa, dove quaranta anni dopo vengono schierati nuovi missili intercontinentali a testata nucleare, saremmo nel pieno del terrore atomico.

Mentre l’Unione europea vive la stagione della sua metamorfosi nera – il tramonto con sfumature neonaziste del “Modello Germania” -, non dà segnali di esistenza una sinistra pacifista italiana e continentale che tuoni contro la guerra, che alzi la voce e scenda in piazza su questo tema perché è quello più dirompente. Siamo forse ridotti al “pensiero cauto” tutt’altro che pacifista di un mercante d’armi opportunista come Crosetto, che chiede di mettere fuori dal famigerato Patto di stabilità non la sanità o le spese sociali, ma le spese militari?

La situazione sul campo è ancora per poco di stallo e se non vogliamo che Putin vinca e che Kiev sia sconfitta basta con l’invio di armi che vuol dire più morti e più odio. C’è da costruire il lungo raggio della tregua e della pace. Basta deprimere le forze internazionali (Onu, Cina, la Chiesa, il Brasile, India, Paesi africani) che più si spendono e si sono spese per una tregua. Bisogna riavvolgere il nastro della guerra a poche ore prima dell’invasione criminale di Putin. Perché fallirono gli accordi di Minsk che pure durarono anni nell’epoca di Angela Merkel? Chi preferì la guerra il cui inizio, ancora intestino ma esplosivo, è il 2014 non il 2022? Che cosa è stato davvero Majdan? I termini di un cessate il fuoco esistono ancora tutti, per poco tempo ancora: ritiro di Mosca dai territori occupati, autodeterminazione del Donbass, Crimea russa, neutralità rispetto alla Nato. Prima che il lungo raggio del disastro si allarghi ancora di più

 

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Striscia di sangue. Incontro con gli attivisti palestinesi Ismail e Halima Abusalama, fuggiti da Gaza

«Se gli Usa non scaricano Netanyahu la tregua è impossibile»

Ismail e Halima Abusalama sono in tour in Italia per raccontare le atrocità vissute a Gaza e dintorni dal 7 ottobre fino a oggi. Moglie e marito sono riusciti a uscire da quell’inferno dopo circa quattro mesi e ora vivono in Spagna con uno dei loro figli.
«Sia di sera che di giorno, quando lanciavano le bombe, vedevamo le persone correre senza sapere dove si sarebbero rifugiate. Pensavo che fosse arrivato il giorno del giudizio», racconta così Halima quei mesi trascorsi a Gaza sotto le bombe, in quella piccola-grande città che ormai non è più casa loro.

ISMAIL E HALIMA Abusalama sono stati a Torino, il 29 agosto, presso la Bocciofila Circolo Arci Vanchiglietta Rami Secchi. Un momento prezioso organizzato in collaborazione con Non una di meno Torino, Arci Torino e Bds Torino.
Halima e Ismail sono i genitori di cinque figli. Lei ha trascorso la sua vita lavorando come infermiera e fornendo assistenza sanitaria anche alle persone detenute in carcere. Nata e cresciuta tra Gaza e Gerusalemme, Halima non poteva non interessarsi alla politica. «Mi hanno arrestato per la prima volta quando avevo 14 anni perché avevo partecipato a una manifestazione». Come trovano le donne palestinesi la forza di resistere? Halima risponde con la voce tremante: «La risposta è semplice: di fronte a un’atrocità, ingiustizia e violenza di questo genere, la forza si trova e si lotta insieme a tutta la famiglia».

ISMAIL, invece, ha dovuto trascorrere, in totale, circa 18 anni della sua vita in carcere. Oggi quest’uomo compie 72 anni e ha speso quasi un’intera vita a combattere, dentro e fuori dalle prigioni, per la libertà del suo popolo. Ismail è noto anche per la sua partecipazione all’importante sciopero della fame del 1980, mentre si trovava nella prigione del deserto di Nafha, che durò 33 giorni. Fu liberato nel 1985 in seguito a un accordo che prevedeva la scarcerazione di una serie di detenuti palestinesi presenti nei centri penitenziari israeliani. «Voi qui vedete solo una piccola parte di ciò che sta accadendo in Palestina», spiega. «Tutte le zone dichiarate sicure da Israele sin dal 7 ottobre sono state sfollate e bombardate. Le armi usate da Israele avvelenano le persone e, a lungo andare, emergeranno nuove malattie e ci saranno epidemie».

Quando si parla di tregua, cessate il fuoco e delle trattative che zoppicano da mesi, Ismail Abusalama dichiara al manifesto: «Netanyahu e gli Usa non vogliono finire la guerra. Le richieste dei palestinesi sono: fermare immediatamente la guerra, permettere alle persone di tornare a casa loro e liberare le persone arrestate in questo periodo. Loro, invece, continuano a far saltare il tavolo tirando fuori nuove richieste e opposizioni. Finché gli Usa non smetteranno di sostenere economicamente, politicamente e militarmente il governo di Netanyahu, la tregua non sarà possibile».

UN ALTRO TEMA importante è senz’altro l’indifferenza di quasi tutto il Medio Oriente riguardo a ciò che accade. «Coloro che hanno firmato l’Accordo di Abramo sono gli alleati degli Usa e, mettendo la firma, hanno deciso di farsi invadere economicamente e culturalmente da Washington e dal progetto sionista. Quindi oggi non possono reagire», sostiene Ismail Abusalama. In merito alla posizione ipocrita e opportunista di Ankara, aggiunge: «Il Presidente della Repubblica di Turchia ha definito Netanyahu un assassino e l’ha paragonato a Hitler, ma ha mantenuto i suoi ponti commerciali con Israele durante la guerra. La Turchia fa parte della Nato, quindi segue una serie di interessi internazionali. Oggi il governo turco cerca di sembrare in conflitto con Tel Aviv, ma penso che, una volta conclusa questa guerra, ripristinerà i suoi rapporti con Israele esattamente come prima».

DURANTE L’INCONTRO, sia Ismail che Halima hanno chiesto più volte al pubblico di sostenere le campagne di boicottaggio e disinvestimento in corso contro le aziende israeliane, per sensibilizzare le persone e indebolire la potenza economica di Israele.
Infine, la coppia non ha dimenticato di ricordare Vittorio Arrigoni, giovane italiano, reporter e cooperante, nonché autore del libro Gaza. Restiamo umani edito nel 2009 da ManifestoLibri. Vittorio fu ritrovato, nel 2011, ucciso in un appartamento di Sudaniyeh, nella Striscia di Gaza, in Palestina. Vittorio visse un periodo a casa di Ismail e Halima, tanto che la coppia lo ha definito «un amico di famiglia»

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