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UNA NUOVA RUBRICA MULTIMEDIALE. Il viaggio del manifesto verso la Casa Bianca. Con reportage, video, podcast e newsletter vi raccontiamo l'anno zero degli Stati Uniti, verso le elezioni presidenziali di novembre. Con i nostri corrispondenti Marina Catucci e Luca Celada. Tutti i contenuti nel link in fondo all'articolo

Il podcast sulle elezioni presidenziali americane

https://ilmanifesto.it/il-podcast-sulle-elezioni-presidenziali-americane

 

ELEZIONI WIN-WIN. Niente colpi di testa, lo status quo è salvo. E per Pechino è un esito dal gusto agrodolce

Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali foto Ap Supporter del Partito progressista democratico celebrano la vittoria di Lai Ching-te alle presidenziali - Ap

Una scelta estrema e radicale. Di primo acchito, senza conoscere bene la realtà interna di Taiwan e le dinamiche delle relazioni intrastretto con la Cina continentale, verrebbe da definire così l’esito delle elezioni presidenziali e legislative svoltesi ieri sull’isola.

Il primo voto con potenziali implicazioni globali di questo 2024 denso di appuntamenti alle urne. Se si scava più a fondo, però, si capisce che non è così. È vero che la vittoria di Lai Ching-te consegna al Partito progressista democratico (DPP) un terzo mandato presidenziale consecutivo per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere, cioè dal 1996. Ma è altrettanto vero che rispetto alle presidenziali del 2020 lo stesso partito ha perso circa due milioni e seicentomila voti. Una cifra imponente, considerando che gli aventi diritto sono poco più di 19,5 milioni. Dagli oltre otto milioni totalizzati quattro anni fa si è passati ai cinque milioni e mezzo di ieri. È vero che allora alla presidente uscente Tsai Ing-wen fu di fatto steso il tappeto rosso sotto i piedi: la repressione delle proteste di Hong Kong e il sostanziale prepensionamento dell’applicazione meno restrittiva del modello «un paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica ribaltò i rapporti di forza con il Guomindang (Gmd), l’opposizione dialogante con Pechino, spostando completamente la campagna elettorale sul tema identitario.

Fu la prova che più il Partito comunista cinese mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Era successo anche nel 1996 quando, nonostante le ripetute esercitazioni e i lanci di missili durante quella che è passata alla storia come la «terza crisi dello Stretto», vinse un candidato osteggiato da Pechino: Lee Teng-hui.

Non deve sorprendere eccessivamente, dunque, se bollarlo come un «secessionista radicale» come hanno fatto a più riprese le autorità continentali non sia bastato per sbarrare la strada del palazzo presidenziale a Lai. Anzi, consapevole che un’eccessiva aggressività durante la campagna elettorale avrebbe potuto rivelarsi controproducente, nella seconda parte del 2023 la Repubblica popolare ha adottato un profilo relativamente basso. Soprattutto sul fronte militare, preferendo invece un approccio da bastone e carota su quello commerciale. Prima, a due settimane dal voto, la rimozione di una serie di agevolazioni tariffarie sulle importazioni di prodotti taiwanesi. Poi, solo pochi giorni prima delle urne, la pubblicazione di un piano di integrazione economico e culturale tra Taiwan e Fujian, la provincia che si affaccia sullo Stretto. Con una serie di agevolazioni per i taiwanesi nell’aprire attività o risiedere sul “continente”, con accesso garantito anche al sistema di assistenza sociale.

Per Lai è stato così più difficile spostare il voto sul tema identitario come in precedenza era agevolmente riuscito a Tsai. Come la retorica da “guerra e pace” proposta a intermittenza da Pechino e dal Gmd ha delle lacune, anche quella identitaria del Dpp inizia a mostrare segni di stanchezza. Basti guardare al risultato delle legislative, dove il Dpp perde la maggioranza in modo piuttosto fragoroso.
Si scopre allora che forse il voto dei taiwanesi è stato più pragmatico di quanto sembrasse a prima vista. Non sono pochi coloro che ieri ai seggi parlavano di una necessità di bilanciamento dei poteri tra ramo esecutivo e ramo legislativo. Un modo anche per allontanare ulteriormente eventuali colpi di testa in grado di mettere a repentaglio lo status quo, il vero faro dei taiwanesi visto che quasi il 90% di loro lo indica come (non) soluzione preferita ai rapporti con Pechino.

A sembrare estrema e radicale potrebbe essere anche la prima presa di posizione ufficiale cinese dopo il voto.
«Taiwan è la Taiwan della Cina», si legge nel comunicato dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino. E ancora: «La madrepatria sarà inevitabilmente riunificata».

Eppure, c’è un’altra frase significativa: «I risultati delle elezioni a Taiwan mostrano che stavolta il Partito progressista democratico non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola». Un modo per sottolineare una piccola vittoria, ma anche (probabilmente e auspicabilmente) per evitare reazioni scomposte al voto

 

Aria di bonus per l’acquisto di veicoli a impatto zero. Samuele Lodi, Fiom: “Noi siamo d’accordo con gli aiuti di Stato, ma che siano mirati ad aumentare la produzione in Italia”

C’è davvero poca elettricità nell’aria del mercato italiano delle auto elettriche. Le vendite non decollano, la loro quota sul totale resta ferma al 4,2%. Per questo da tempo c’è grande attesa per gli incentivi che il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si prepara a varare. Per adesso però le prime bozze in circolazione – fanno notare gli analisti più accorti – potrebbero avere l’unico effetto di deprimere ancor più il mercato, cosicché anche chi era deciso a inaugurare il 2024 con l’acquisto di una full electric aspetterà di vedere il colore della fumata e poter toccare con mano gli aiuti di Stato.

Questo è solo uno degli aspetti da tener presente se si parla di auto elettriche. “In Italia – ci spiega Samuele Lodi, segretario nazionale della Fiom Cgil – se ne producono appena 75mila. Parliamo della 500 che esce dalle linee di Mirafiori. E non sono destinate solo al mercato italiano. Considerando che anche nel 2024, al netto degli annunci su Melfi e Cassino, la situazione resterà cristallizzata, capite bene il paradosso di fronte al quale ci troviamo”. Insomma, per tradurre: “Noi siamo d’accordo con gli incentivi, ma che siano mirati ad aumentare la produzione in Italia”. Altrimenti rischiamo di essere gli unici al mondo ad aiutare i cittadini ad acquistare auto prodotte all’estero. In un quadro già unico nel quale i nostri stabilimenti faticano e sono tutti di Stellantis.

“In Italia – sottolinea il dirigente dei metalmeccanici Cgil – si produce poco più del 20% delle auto immatricolate, in Germania la quota è del 119%. Per capirci, in Italia di cento auto vendute se ne producono 20, in Germania 119. Il tema è proprio questo: non possiamo pensare di creare un sistema di incentivi a beneficio delle vendite di auto prodotte all’estero. Bisogna aumentare la produzione di Stellantis”.

Il quadro è desolante, visto oggi. “Stellantis deve portare la produzione a un milione di automobili e 300mila veicoli commerciali. I numeri che sosteniamo noi della Fiom sono quelli che permetterebbero di saturare la forza lavoro dei vari stabilimenti nel medio termine. Al momento ci sono solo due fabbriche in cui non si impiegano ammortizzatori sociali: Atessa in provincia di Chieti e Termoli in provincia di Campobasso. Dalla prossima settimana non dovrebbero più fare cassa integrazione, dopo quasi 15 anni, anche a Pomigliano. Una bella notizia se non fosse che in tutti gli altri stabilimenti si continua con gli ammortizzatori. A Cassino almeno fino a marzo, a Torino si prosegue con la cassa, a Melfi con il contratto di solidarietà e con 1300 dipendenti che quotidianamente devono andare in trasferta a Pomigliano, 4 ore di pullman andata e ritorno tutti i giorni oltre alle 8 ore di lavoro”.

LE CIFRE DELLE VENDITE

Intanto il 2023 si chiude con 1.566.448 immatricolazioni di auto, il 18,96% in più del 2022. Un dato apparentemente positivo, ma come evidenzia il Centro Studi Promotor in realtà si registra "un calo del 18,3% sul 2019, cioè sull'anno precedente la pandemia e tutti gli altri eventi negativi che l'hanno accompagnata. In valore assoluto, rispetto al 2019, nel quadriennio 2020-2023 sono state immatricolate 1.944.794 auto in meno".

Nel 2023 Stellantis ha venduto in Italia 591.156 auto, il 10,5% in più dell'anno precedente, con una quota di mercato pari al 33,5% contro il 36,3%, ma a dicembre le immatricolazioni sono state 36.833, in calo del 4,6% rispetto all'analogo periodo del 2022. Il gruppo anche nel 2023 ha mantenuto la leadership del mercato italiano e tra i veicoli elettrificati ha registrato una quota del 25,1% (vetture più veicoli commerciali leggeri), "confermando il ruolo guida nella transizione energetica nazionale". Tesla in un anno triplica i volumi, i cinesi di Mg moltiplicano per quattro le vendite e sfiorano il 2% di quota di mercato.

GLI INCENTIVI ALLO STUDIO DEL GOVERNO PER IL FULL ELECTRIC

Gli incentivi allo studio del governo nel caso delle vetture "full electric" partono da 6.000 euro e arrivano a 13.750, se si rottama una Euro2 e si ha un Isee sotto i 30 mila euro, mentre l'aiuto per l'acquisto di un veicolo ibrido va da 4 a 10 mila euro, e quello per un'auto a basse emissioni dai 1.500 ai 3.000 euro. Ancora non si tratta di numeri ufficiali, ma di ipotesi contenute nella bozza di lavoro per il rinnovo degli incentivi auto sui quali il governo punta a utilizzare risorse per 930 milioni, sommando 570 milioni di nuovi fondi per l'automotive e quanto rimane non speso dei vecchi incentivi. L'intervento riguarda anche veicoli commerciali, taxi e noleggi a lungo termine. Per il leasing sono previsti 50 milioni.

IL TAVOLO DEL PRIMO FEBBRAIO PROSSIMO

Nel merito del provvedimento si entrerà con il tavolo automotive convocato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per giovedì primo febbraio 2024. Nel corso dell'incontro, presieduto dal ministro Adolfo Urso e con i principali rappresentanti delle imprese del settore, oltre alle organizzazioni della filiera, "verrà illustrato il nuovo piano degli incentivi per il settore automotive di prossima attivazione". La bozza di incentivi auto indica tra gli obiettivi da raggiungere: cambiare il parco auto circolante in Italia, che è uno dei più vecchi d'Europa (oltre 11 milioni di vetture Euro 3 o inferiori); sostenere e supportare le famiglie meno abbienti (extra bonus del 25% per Isee 30 mila euro); rimodulare gli strumenti incentivanti per stimolare l'acquisto di auto effettivamente prodotte in Italia.

“Il tavolo al Mimit – spiega Samuele Lodi – è importante per lanciare un segnale che attragga altri produttori. Siamo l’unico paese che ha un settore dell’automotive sviluppato, ma tutti gli stabilimenti sul territorio appartengono alla stessa casa. Servono politiche che attraggano anche le produzioni estere”. Più in generale, rivendica il dirigente Fiom, “è giusto parlare di incentivi e risorse pubbliche, ma questi strumenti devono essere legati al fatto che Stellantis si assuma delle responsabilità, investa nel nostro paese, garantisca occupazione in tutti gli stabilimenti. E questo finora non è avvenuto, Stellantis non si è espressa. Qui vengono chiesti impegni a tutti, regioni e governi, ma gli impegni se li deve assumere anche Stellantis”.

Anche per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica e la consapevolezza dei lavoratori, la Fiom ha lanciato, già a partire da queste settimane, una campagna di assemblee in tutti gli stabilimenti di Stellantis “al fine di valutare e decidere insieme i prossimi passi da fare”. Obiettivo, far ripartire la macchina. Prima di tutto quella produttiva.

In leggero anticipo rispetto a quanto previsto, nella prima mattinata di mercoledì 3 gennaio 2024 è approdata a Ravenna la nave ong Geo Barents di Medici senza Frontiere con 336 migranti a bordo, tra cui decine di minori e una donna incinta.

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Come previsto dal protocollo messo a punto in occasione dei precedenti sbarchi e nel corso di diverse riunioni operative coordinate dalla Prefettura negli ultimi giorni, per i profughi sono iniziate le procedure di identificazione e sanitarie (molti di loro hanno la scabbia), prima dello smistamento nei vari centri secondo il piano governativo. Sul posto anche il sindaco di Ravenna Michele De Pascale: “Restare umani ed essere organizzati sono le due vere chiavi per affrontare un fenomeno epocale che invece a livello nazionale viene affrontato con disumanità e, come ormai è evidente a tutti, con assoluta disorganizzazione”

INVITATA TUTTA LA SINISTRA. L’ex sindaco non si candiderà alle europee. Semmai ci riproverà alle comunali

Mimmo Lucano - LaPresse Mimmo Lucano - LaPresse

Il progetto è ambizioso. Provare a ricomporre i mille pezzi sparsi della sinistra dispersa. Ricucire le tante anime che in questi anni non si parlano e quando lo fanno litigano tra loro. Mimmo Lucano ha scelto cosa farà da grande. Ha in mente di costruire una sua area politica. Se si farà partito oppure movimento fluido ancora non è chiaro.

Una cosa è certa. Ha convocato tutti coloro i quali in Italia sono stati sempre al suo fianco. Palazzo Pinnarò, nel centro del borgo jonico, è pronto ad ospitare i tanti pezzi del mosaico della sinistra. Il 20 dicembre è la data cerchiata. Lucano ci crede. Non si candiderà alle europee. Semmai dovesse farlo sarà per le comunali di Riace, da sindaco dopo lo stop del 2018 per il vincolo del terzo mandato. L’ex primo cittadino riacese ha invitato tutta la sinistra all’happening. Unione popolare e la lista pacifista di Santoro hanno detto che parteciperanno. Anche Sinistra Italiana manderà un esponente della segreteria nazionale malgrado ritenga velleitaria al momento una riunificazione della sinistra. L’appello «Riace per l’Italia» sta girando in questi giorni nei tavoli delle segreterie. Dopo la quasi assoluzione dell’11 ottobre, Lucano ha riunito a metà novembre i suoi fedelissimi per interrogarsi sul suo futuro. La festa del 29 ottobre per ringraziare chi è stato sempre al suo fianco, anche durante l’odissea giudiziaria, si era rivelata un successo politico e di partecipazione. Duemila persone da tutta Italia stipate nelle piazze del “villaggio globale” di Riace. E anche una presenza significativa della sinistra politica, da Potere al Popolo e Unione popolare fino al Pd (Elly Schlein aveva inviato in terra di Calabria Marta Bonafoni).

Nell’incontro con il suo inner circle la scelta è dunque ricaduta sull’idea di costruire un’area politica che si ispiri al “modello Riace”. Perchè «l’esperienza riacese – si legge nel documento – non è solo un esperimento compiuto di società multietnica che ha creato benessere; è anche un ambulatorio che fornisce servizi sanitari pubblici e gratuiti a tutti, un turismo responsabile e non invasivo, un artigianato che crea lavoro, un rivoluzionario modello di gestione dei rifiuti, un innovativo sistema idrico che valorizza e privilegia esclusivamente l’acqua pubblica. Questa è stata Riace in questi anni». Partire dunque dalla Calabria per attraversare tutte le contraddizioni di un Paese ormai disumanizzato che erige muri, costruisce campi di internamento per migranti in Albania, tesse rapporti e mercimoni con le bande libiche e le autocrazie del Maghreb. Con la vana illusione di poter bloccare le migrazioni dando fiumi di denaro a paesi terzi per gestire i flussi di disperati, anche se questo si traduce in violenze, torture e, alla fine, in tragedie come quella, immane, di Steccato di Cutro.

Il “popolo di Riace” prova cosi a cimentarsi nell’agone politico dando il suo contributo per la riorganizzazione del campo della sinistra. Partendo dalle esperienze sociali, associative, di movimento. Il progetto a cui guarda questo nuovo soggetto in fieri è quello spagnolo con l’esperienza di Sumar, il rassemblement che ha mescolato in un unico contenitore comunisti, altermondialisti, verdi, movimenti. E che ha dimostrato che unire le sinistre non solo è doveroso, ma anche possibile, persino vincente. Lucano sta girando l’Italia in questi giorni, dalla Sicilia a Torino passando per Roma, con due iniziative, nel quartiere Quadraro e al centro sociale Spin Time. L’idea è quella di creare dei nodi territoriali regionali facendo leva sulla rete di solidarietà creatasi nei mesi febbrili del processo. Appuntamento, dunque, a Riace alla vigilia di natale. Vedremo quale sarà il regalo per la sinistra sotto l’albero.

USA-ISRAELE. Quando dice a Netanyahu che lo Stato ebraico è impopolare in realtà dovrebbe allargare il tiro. È la politica americana nella regione che è impopolare

Il finto “strappo” di Joe Biden Joe Biden e Benjamin Netanyahu - Ap

Ogni volta i leader occidentali ci cascano o, da ipocriti, fanno finta di credere alla buonafede degli Stati Uniti in Medio Oriente. Biden, che si presenta apertamente come amico e protettore di Israele, ha dichiarato che lo Stato ebraico rischia di perdere il sostegno internazionale a causa di quelli che ha definito «bombardamenti indiscriminati» a Gaza.

Questo accadeva nella stessa giornata in cui l’Assemblea generale Onu votava a larghissima maggioranza una risoluzione per un cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza. L’Italia, con altri Paesi europei, si è astenuta certificando ormai che sulle questioni decisive siamo come Nanni Moretti in “Ecce Bombo”: mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? La risoluzione non avrà alcun effetto, non ha carattere vincolante.

In questi casi è il Consiglio di sicurezza a decidere e Washington ha già posto il veto su una risoluzione simile l’8 dicembre. E lo farà ancora, è una certezza, tanto è vero che il rappresentante israeliano all’Onu ha denunciato l’ipocrisia della votazione, definendo «inutile» il testo.

Gli Usa non hanno mai votato una condanna di Israele, non hanno mai messo un sanzione allo Stato ebraico e quanto agli insediamenti illegali dei coloni Washington si limita sempre ad ammonizioni verbali che cadono nel vuoto, senza conseguenze. I governi israeliani lo sanno perfettamente. È una commedia diplomatica che si replica da decenni e maschera una tragedia. Con un risultato evidente: dagli accordi Oslo del 1993 a oggi Israele ha portato i coloni in Cisgiordania da 100mila a 800mila e se si dovesse proclamare uno stato palestinese sarebbe ridotto al 22% di quello previsto dal piano di partizione dell’Onu del 1947.

L’atteggiamento americano è una presa in giro totale che si chiama doppio standard. Nel 1990 gli Stati uniti fecero votare al Consiglio di sicurezza sanzioni immediate per l’occupazione irachena del Kuwait. L’occupazione israeliana della Cisgiordania dura da mezzo secolo senza che nessuno abbia mai alzato un dito. Se questo lo chiamiamo diritto internazionale lo è sicuramente per gli Usa e l’Occidente ma non per il resto del mondo. In realtà esiste un legge per i ricchi e una per i poveri. Il premier Netanyahu lo sa benissimo, infatti ha subito replicato che per lui gli accordi di Oslo – da cui nacque un primo embrione di autogoverno palestinese – non esistono. Biden ci ha poi informati che Netanyahu non vuole una soluzione «due popoli, due stati».

Che strano, non ce ne eravamo accorti. E per difendere quello che dice, senza troppa convinzione, aggiunge che «Netanyahu deve cambiare il suo governo, il più conservatore nella storia di Israele». Ma questo avverrà soltanto quando Gaza sarà rasa al suolo da un pezzo e attuata la pulizia etnica. Il presidente non si è accontentato di criticare i bombardamenti ma ha anche manifestato pubblicamente le sue divergenze con i leader israeliani. Biden ha scelto di fare una specie di “strappo”.

Pur sostenendo la guerra contro Hamas, infatti, ha espresso il suo totale disaccordo con Netanyahu su ciò che sarà necessario dopo la guerra, visto che il premier rifiuta la soluzione Usa e occidentale di affidare Gaza all’amministrazione dell’Anp di Abu Mazen (per altro come se fosse una soluzione facile e praticabile). In realtà quello di Biden non è un vero e proprio “strappo” verso Israele. Quando dice a Netanyahu che lo Stato ebraico è impopolare in realtà dovrebbe allargare il tiro. È la politica americana nella regione che è impopolare: l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, il Kurdistan, sono la dimostrazione agli occhi dei popoli mediorientali di quali disastri abbia provocato Washington in questi decenni.

In più, almeno finora, non c’è stata mai stata la volontà pratica di cambiare le cose ma di perpetuare il doppio standard. Come scriveva ieri Michele Giorgio sul manifesto, gli Usa continuano fornire a Israele i cannoni per far fuori i palestinesi. Israele riceve ogni anno circa 4 miliardi di dollari in aiuti militari: dalla fondazione dello Stato ebraico sono affluiti da Washington 130 miliardi di dollari di armi. Il bilancio delle forze armate israeliane supera quello di Egitto, Giordania, Libano e Iran messi insieme. Senza contare che Israele con dozzine di testate nucleari è l’unico Paese della regione con un enorme potenziale atomico. La Casa Bianca ha delineato un pacchetto sicurezza dopo il 7 ottobre per altri 14 miliardi di dollari, condiviso – diversamente da quello per l’Ucraina – anche dai repubblicani ma contestato da Bernie Sanders per l’assenza di condizioni a Israele.

Biden con le sue dichiarazioni si comporta come se Netanyahu non fosse quel che è: una creatura della politica estera americana. Che poi adesso gli Usa se ne vogliano sbarazzare è un altro conto. Il presidente Usa forse preferirebbe trattare con un uomo di centro come Benny Gantz, avversario di Netanyahu e attuale componente del gabinetto di guerra e in attesa del suo momento.

Ma intanto nel sostegno americano a Israele non cambia nulla. E oggi arriva a Tel Aviv il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan, che alla vigilia del 7 ottobre aveva dichiarato che «negli ultimi vent’anni il Medio Oriente non era mai stato così tranquillo come oggi». Andiamo bene…