Politica e giustizia Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la […]
Resuscitare politicamente Matteo Salvini resta un’impresa difficile, ma il processo di Palermo dal quale ieri sera è emerso candido come un giglio darà il suo contributo. Ennesima prova che la correzione dei torti politici per via giudiziaria non è solo inefficace ma anche controproducente. Il nostro paese dovrebbe conoscere a memoria questa storia, nella quale però puntualmente ricasca.
Certo, non è una buona notizia per nessun cittadino dotato di elementare spirito democratico apprendere all’ora di cena che per un tribunale della Repubblica tenere forzatamente a bordo 147 persone in stato di sofferenza per 19 giorni, impedendo loro di sbarcare a terra, non è contrario alla legge. Essendo evidentemente contrario a tante altre cose più immediate, dal raziocinio al senso di umanità. Ma è notizia assai peggiore che questo infame comportamento sia meritevole, per tanti, di quel consenso politico in forza del quale si governano il nostro paese e un bel po’ del civilizzato Occidente. E questo non ce lo doveva dire, ieri sera, il tribunale di Palermo.
La giustizia penale è un fatto tecnico, la verità processuale non è quella storico politica che talvolta è migliore e talvolta peggiore. In un’aula di tribunale si può, carte e mail dell’ex presidente del Consiglio Conte alla mano, sostenere che Salvini ha fatto tutto da solo quando – per due volte – ha tenuto i migranti, molte donne e molti bambini, legati alla banchina a impazzire sotto il sole per giorni. In qualsiasi altro consesso dotato di memoria non si può invece dimenticare quanto ci tenessero i 5 Stelle, alleati di governo della Lega, a rivendicare anche loro la linea durissima contro i migranti e quanto condividessero la vile retorica della difesa dei confini.
Adesso, almeno, Salvini non potrà fare il martire, lui che su questa presunta salita al patibolo stava politicamente campando da anni, un video e un tweet dopo l’altro. Gli mancherà un argomento, ma lo sostituirà con un altro più pericoloso ancora, e cioè che d’ora in avanti sarà lecito e più semplice negare lo sbarco alle navi che soccorrono i migranti, senza bisogno di tenerle in mare a navigare verso i porti più lontani. Naturalmente non è così, proprio perché questo processo penale ha giudicato un singolo episodio amministrativo e due specifiche accuse. Ma è vano sperare in un discorso razionale, soprattutto da parte di Salvini.
Anche perché, altrimenti, questo processo dimostrerebbe innanzitutto alla maggioranza di governo, impegnata in una guerra contro la magistratura e la sua indipendenza, che quella delle toghe rosse e politicizzate è una favola. E che non c’è quel totale appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, in forza del quale sarebbe necessaria la definitiva separazione delle carriere.
Nessun tribunale richiamerà mai l’incoerenza di un ministro che rivendica le sofferenze imposte con il suo blocco a 147 persone fragili e in fuga e il contemporaneo disegno di legge sicurezza che punisce con anni di galera chi con il suo semplice corpo prova a non farsi trascinare via da un agente. Nessun giudice condannerà La Russa per aver rubato la voce a quel vecchio busto che aveva in casa per rispondere al Consiglio d’Europa che non si intromettesse nelle nostre autarchiche violazioni dello stato di diritto. Per quello c’è solo la politica, o dovrebbe esserci.
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Agitare è bene Oggi a Roma a Testaccio (ore 11) e sit-in al ministero dell'università (ore 15): ricercatori precari, studenti, docenti, associazioni e sindacati Critiche alla ministra Bernini ("Nega l'evidenza dei tagli e delle riforme"). "Ci vogliono convergenza massima, azioni significative". L'appello contro i rischi del ridimensionamento della ricerca in Italia della Rete delle 122 società scientifiche
Torino, gli studenti e i ricercatori universitari bloccano l'entrata al Campus Universitario Einaudi per protesta contro la legge di bilancio
Gli «stati di agitazione delle università» che si terranno stamattina al dipartimento di Architettura di Roma Tre al Mattatoio di Testaccio (dalle 11), e in un presidio alle 15 al ministero a Trastevere, sono il risvolto di quello che non è stato detto, o è stato detto tra le righe, ieri alla Camera dove oggi continuano gli «Stati generali dell’università» organizzati dai rettori della Crui. Nell’assemblea si parlerà infatti dei tagli aggiuntivi previsti dalla legge di bilancio in votazione stasera dalla Camera (702 milioni di euro in tre anni), del DdL Bernini che aumenterà il precariato nella ricerca, della paventata riforma peggiorativa degli attuali assetti che una commissione ministeriale sta preparando, del boom delle università telematiche.
L’«AGITAZIONE» di cui parla il bel titolo dell’iniziativa di oggi rispecchia la rapida fioritura di «assemblee precarie» sbocciate negli ultimi tempi in molti atenei: da Torino a Milano, da Roma a Napoli. Si sono formati coordinamenti interuniversitari a Palermo o a Padova. In una dinamica aperta e in evoluzione si tessono reti tra associazioni universitarie (Andu, Rete 29 aprile, Adi), dei precari della ricerca (Restrike, 90%, Arted), studenti (Udu, Link, primavera degli studenti) e sindacati (Flc Cgil, Clap).
VA EVIDENZIATA la novità, per molti versi significativa, della nuova mobilitazione. È impressionante leggere l’elenco delle 122 società scientifiche accademiche che hanno firmato un drammatico documento sui «rischi di ridimensionamento della ricerca» pubblicata a ottobre sul sito «Scienza in rete». Parliamo di una parte rappresentativa della ricerca italiana che, a partire dai suoi vertici, sta provando a varcare i confini di un mondo gerarchico. L’appello al governo contro i tagli è rimasto finora inascoltato.
NELLE ASSEMBLEE e nei sit-in che si continua a sentire una tensione anti-corporativa e una spinta verso la costruzione di «alleanze» e convergenze dentro e
Commenta (0 Commenti)«L’Ucraina non ha la forza per riconquistare i territori controllati dai russi». Per la prima volta Zelensky ammette che la via d’uscita dalla guerra non può essere militare. Ma chiede ancora armi
Giocoforza Il presidente ucraino sembra aprire al negoziato, poi ci ripensa: «Ce lo vieta la Costituzione». E chiede maggiore sostegno a Trump
«L’Ucraina non ha la forza per riconquistare i territori controllati dai russi» e potrà affidarsi solo alla «pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative». Se a dirlo è Volodymyr Zelensky in persona vuol dire davvero che siamo a un momento di svolta. Ma attenzione: «Non rinunceremo ai nostri territori – aggiunge -, è la Costituzione ucraina che ce lo vieta».
Dunque, la domanda sorge spontanea: Zelensky si rassegnerà a cambiare la Costituzione oppure sta tentando nuove vie, come quella di chiedere garanzie di sicurezza dai paesi dell’Ue per affrontare il discorso dell’integrità territoriale nel futuro prossimo? Nel caso della seconda eventualità nessuno dei leader della Nato dubita che lasciare il Donbass, forse la Crimea definitivamente e chissà che altro a Mosca voglia dire cambiare le mappe una volta per tutte. Ma il vero punto è quanto la futura amministrazione statunitense tenga all’integrità territoriale ucraina a fronte di un cessate il fuoco permanente.
IN UN’INTERVISTA INSOLITA, organizzata sotto forma di video-incontro con i lettori di Le Parisien a fare le domande, Zelensky ha interpretato una parte ben diversa da quella a cui ci ha abituato negli ultimi tre anni di conflitto con la Russia. Ha parlato di difese aeree, ovvio, della barbara violenza del nemico e della sofferenza dei suoi concittadini. Ma per la prima volta ha ammesso in modo inequivocabile che la via militare non riparerà ai torti di guerra. «Putin deve essere messo al suo posto», ma non saranno le armate ucraine a farlo, se non altro perché non ne hanno la forza materiale. E quindi il leader ucraino chiede agli alleati di farsene carico: «Non dimenticate tutto ciò che è successo: i missili, l’occupazione delle nostre terre, i morti, l’esilio di 8 milioni persone e i milioni di sfollati interni. Putin è come un boomerang: ritorna finché non ottiene ciò che vuole. E per la prima volta in 30 anni ha trovato un paese che gli ha resistito».
MA QUESTA NARRAZIONE ora eroica della guerra in corso si scontra con la dura realtà del
Commenta (0 Commenti)Striscia di sangue Si riduce la distanza tra Israele e Hamas, cessate il fuoco possibile nei prossimi giorni. La tregua, si dice, potrebbe essere legata alla normalizzazione tra Tel Aviv e Riyadh
Una casa distrutta nel campo profughi di Al Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza – Omar Ashtawy/Ansa
Non era al Cairo ieri Benyamin Netanyahu, ma sul Jabal Sheikh (Monte Hermon), nelle alture del Golan occupate, a fare il punto della situazione lungo le linee di armistizio con la Siria abbondantemente superate dalle truppe israeliane – il 603° Battaglione del Genio dell’Esercito ha raggiunto villaggi a 20 chilometri da Damasco e girano voci di unità speciali alla ricerca dei resti di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata dalla Siria nel 1965 – dopo l’8 dicembre, quando Bashar Assad è fuggito dalla Siria mentre i jihadisti occupavano Damasco. Sul Jabal Sheikh, Netanyahu ha messo le cose in chiaro, confermando ciò che era stato palese a tutti nei giorni scorsi. Israele, ha annunciato, rimarrà sulla cima del monte «finché non verrà trovato un altro accordo (con la Siria) che garantisca la sua sicurezza». L’occupazione si espande, va ben oltre i 1200 kmq del Golan che Israele occupa dal 1967.
LA NOTIZIA DELLA PARTENZA del premier israeliano per la capitale egiziana, poi smentita, ha subito fatto il giro del mondo avvalorando le indiscrezioni su un accordo imminente (mediato da Egitto e Qatar) tra Hamas e il governo Netanyahu per una tregua temporanea a Gaza e lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi. Accordo che sarebbe legato, dietro le quinte, alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia saudita. In sostanza, secondo le voci, Netanyahu si sarebbe
Leggi tutto: Bibi sul Golan: resteremo qui. A Gaza si spera nella tregua - di Michele Giorgio
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Sindrome siriana Il presidente deposto ha negato di essere fuggito dalla Siria e afferma che la Russia gli ha imposto la partenza per Mosca
Forze militari israeliane pattugliano le linee con la Siria sul Golan – Atef Safadi Epa
A poco serviranno gli ammonimenti soft della Germania a Israele a cui Berlino ha chiesto ieri di rinunciare ai suoi piani appena annunciati per raddoppiare il numero dei coloni nelle Alture del Golan siriano occupato. Il governo Netanyahu procederà incontrastato con il suo programma di colonizzazione, sfruttando ancora le opportunità che l’attuale quadro mediorientale gli sta offrendo. Non mancando allo stesso tempo di indirizzare i suoi cacciabombardieri contro altri paesi della regione per «ragioni di sicurezza». Nella notte tra domenica e lunedì, l’aviazione israeliana ha lanciato almeno 20 attacchi (70 in 48 ore) devastanti in Siria, «da far tremare la terra» hanno riferito testimoni, colpendo la zona di Tartus sulla costa siriana, oltre alle regioni di Hama e Homs. Gli obiettivi, ha detto Tel Aviv, sono stati depositi di armi, missili, munizioni, ma in Siria parlando di danni gravi anche a infrastrutture civili. Nell’ultima settimana Israele ha effettuato centinaia di attacchi azzerando le forze armate siriane.
Dopo aver occupato con le sue truppe, approfittando della caduta di Bashar Assad, la «zona cuscinetto» sulle linee di armistizio del 1973-74 con la Siria, Netanyahu e i suoi ministri hanno dato seguito al piano messo a punto dall’ex premier Naftali Bennett (ultranazionalista religioso) per portare a 50mila entro il 2025-26 (raddoppiando il numero attuale), i coloni nei 1200 kmq di territorio siriano che Israele ha occupato nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni e che si è annesso unilateralmente nel 1981. Annessione riconosciuta da Donald Trump nel 2019, un passo che l’Amministrazione Biden non ha mai messo in discussione. Poco dopo aver preso il suo incarico nel 2021, il segretario di Stato Antony Blinken dichiarò alla Cnn che il controllo del Golan rimane di «grande importanza per la sicurezza di Israele».
Netanyahu investirà subito circa 10 milioni di euro, il piano di Bennett invece ne prevede 300 nel corso di vari anni finalizzati alla costruzione di 7.300 abitazioni a Katzrin, la più importante delle colonie nel Golan, e di infrastrutture. Alle 36 colonie esistenti si aggiungeranno quelle di Asif e Matar e un insediamento che porterà il nome di Donald Trump. I 25mila drusi nel Golan che, per la maggior parte, si considerano sempre siriani e rifiutano l’occupazione israeliana, diventeranno una minoranza. Già oggi un simile numero di coloni vive sulle Alture che la Siria fino a due settimane fa ha sempre rivendicato, mentre non è chiaro l’orientamento dei nuovi padroni di Damasco.
Il jihadista «peace and love» Abu Mohammad Al Julani (Ahmed Shaara), leader di fatto del paese, ha chiesto a Israele di
Commenta (0 Commenti)Nella foto: I sostenitori del candidato dell’opposizione ed ex presidente John Dramani Mahama celebrano la sua vittoria elettorale ad Accra, in Ghana via Ap
Oggi un Lunedì Rosso dedicato alle fotografie.
Interrogano i contorni dell’identità italiana quelle in mostra a Photolux, il Festival biennale di fotografia che si è tenuto a Lucca.
Una foto che si definisce meglio ogni giorno, quella del paese pensato e voluto dal governo, si intravede in due anni di leggi e decreti analizzati sulle pagine del manifesto.
Corrono in retrospettiva fino alla Milano del 1978, le foto sul rullino ripescato dall’oblio dall’artista Paolo Ventura.
All’età di 10 anni, con la macchina fotografica del fratello, era andato ai funerali di Fausto e Iaio, imprimendo sulla pellicola un racconto di quel momento storico visto dagli occhi di un bambino.
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