Li definiscono con la sigla “WCNSF” e sono i 19mila bambini delle 6mila madri uccise. Save the Children in campo per dare loro un futuro
10.000 donne palestinesi uccise a Gaza, di cui circa 6.000 madri che lasciano 19.000 bambini orfani. I dati sono di UN Women, l’ente delle Nazioni Unite attivo nella difesa dell’uguaglianza di genere, si riferiscono ai primi sei mesi di guerra e sono stati pubblicati nell’ultimo rapporto sulla guerra nella Striscia. Dati che ci informano anche che “un bambino viene ferito o muore ogni 10 minuti” e che “più di un milione di donne e ragazze a Gaza non hanno quasi cibo, né accesso ad acqua potabile, latrine, servizi igienici o assorbenti, con malattie che crescono in condizioni di vita disumane”.
Silvia Gison, esperta di diritto umanitario e advocacy di Save the Children spiega in quale situazione vengono a trovarsi i bambini alle quali sono state uccisi le madri: “Vuole dire non avere nessuno a cui riferirsi per riuscire ad accedere alle cure, per ristabilire la proprio rete e cercare di avere un senso di normalità all'interno della striscia di Gaza”. Il problema è così ingente e tanto elevato il numero di bambini senza stato di riferimento che per questo conflitto “gli operatori umanitari hanno creato una sigla WCNSF, ossia bambini feriti, senza familiari sopravvissuti”.
Quanto ci si chiede è anche quale sarà poi il destino di questi minori, quale futuro li attenda, e a questo proposito Gison ricorda che, come Save the Children, “la prospettiva è di cercare di lavorare il più possibile per raggiungere un cessate del fuoco illimitato e duraturo e per garantire l’accesso umanitario in modo tale che possano ricevere le cure e il supporto di cui hanno bisogno da parte della comunità internazionale, perché effettivamente avrebbe la possibilità di portare supporto, quando poi questo conflitto sarà finalmente finito.
Le prospettive però non sono positive ma, in ogni caso, “il tentativo sarà
La campagna della destra parte nel peggiore dei modi. Vannacci propone «classi separate per i disabili» e spara a zero. Alla kermesse di Fdi manager pubblici esibiscono la maglia del partito e il capogruppo Foti si scaglia contro gli studenti. Oggi Meloni in campo. È solo l’inizio
La premier oggi annuncia che correrà da capolista alle europee Ma la scena è per il generale candidato dalla Lega di Salvini
Matteo Savini e Giorgia Meloni - LaPresse
Al secondo giorno da candidato della Lega alle europee, Roberto Vannacci ne spara una delle sue e scatena un putiferio. Anche a destra, e anche nel partito che in cui sarà candidato.
PARLANDO con La Stampa, il generale della Folgore si produce in una sorta di climax delle politiche discriminatorie, riprendendo uno dei suoi classici: esiste una normalità da proteggere e restaurare contro la presunta dittatura delle minoranze, pronte ad assaltare lo stile di vita del maschio bianco italico. «L’italiano ha la pelle bianca, lo dice la statistica», comincia Vannacci. Poi passa agli omosessuali: «Chi ostenta da esibizionista deve accettare le critiche». E l’aborto? «Non è un diritto», assicura il graduato. Fin qui siamo ai giudizi espressi nei suoi libri, manuali del senso comune reazionario. Come quando, nel corso di una presentazione nel bolognese, sembra attingere all’ottuso armamentario delle burocrazia militare per ricostruire in questo modo le botte ai giovani delle scorse settimane: «Gli studenti si pongono nella condizione di essere manganellati». Infine, l’ineffabile Vannacci ribadisce il suo giudizio su Mussolini («Uno statista») e afferma che le scuole debbano differenziare gli studenti «in base alle loro capacità». «Credo che classi con ‘caratteristiche separate’ aiuterebbero i ragazzi con grandi potenzialità a esprimersi al massimo, e anche quelli con più difficoltà verrebbero aiutati in modo peculiare», teorizza il candidato catapultato (e imposto a larga parte del suo partito) da Matteo Salvini in tutte le circoscrizioni al voto di giugno.
LO SMENTISCONO tutti, non solo le opposizioni e le associazioni che si occupano di disabilità. A partire dal ministro dell’istruzione (in quota Lega, non esattamente un liberal) Giuseppe Valditara, che si affretta a rivendicare «le politiche concrete a favore dell’inclusione degli studenti con disabilità» portate avanti dal suo partito e dal governo. Per il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana Francesco Savino, le parole di Vannacci «ci riportano ai periodi più bui della nostra storia. Mi permetto di dire, con Papa Francesco, che l’inclusione è segno di civiltà». Paolo Barelli capogruppo a Montecitorio di Forza Italia non potrebbe essere più esplicito quando parla di «elucubrazioni da Capitan Fracassa di cui non si sentiva il bisogno».
GIANCARLO GIORGETTI ci tiene a precisare che Vannacci non è leghista. Da via Bellerio trapela la ridefinizione salviniana: «È un candidato indipendente
Commenta (0 Commenti)La protesta degli atenei per la Palestina diventa sempre più globale: negli Stati uniti cresce insieme a repressione e arresti; a Parigi occupa l’università più prestigiosa, Sciences Po. A Berlino sgomberate le tende davanti al parlamento, mentre Gaza aspetta l’attacco su Rafah
STATI UNITI. Reportage da Ucla e Usc, dove la polizia smantella l’accampamento solidale e arresta oltre 90 persone. Cancellata la cerimonia di laurea
L’accampamento per la Palestina nell’Università della California - Ap/Jae C. Hong
«Abbiamo cinque richieste», spiega Marie, studentessa del coordinamento Uc Divest che da l’altro ieri occupa il campus di Ucla. «Disinvestimento da aziende complici nel genocidio, come la Blackrock, interruzione delle collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane, trasparenza sugli investimenti dell’università e che questa prenda una posizione a favore del cessate il fuoco. Infine respingiamo ogni repressione poliziesca sui campus». Parliamo nell’ultimo villaggio in solidarietà con la Palestina, quello sorto alla University of California di Los Angeles dove da giovedì un migliaio di studenti si sono appropriati dello spiazzo antistante Royce Hall, l’edificio neoromanico simbolo dell’ateneo.
Ucla è l’ultimo campus ad essersi aggiunto alla protesta che sta dilagando nelle università americane e coalizzando contro la guerra e la strage infinita di Gaza, un ampio movimento per la pace e contro la logica dell’oppressione.
Negli ultimi giorni la protesta si è allargata ad una cinquantina di atenei in oltre venti stati. In almeno 15 di questi la polizia ha effettuato arresti che sono complessivamente ormai oltre 550, in nessun caso ad oggi sono state formalizzate accuse contro i fermati, profilando l’uso delle forze dell’ordine come semplice strumento repressivo.
LE PROTESTE, pacifiche anche quando rumorose, sono degenerate solo dove c’è stato l’intervento della polizia, come ad Austin, dove sono state utilizzate cariche a cavallo, gas urticanti e proiettili di gomma. O alla Usc dove l’accampamento in solidarietà coi palestinesi è stato smantellato dai reparti antisommossa della polizia di Los Angeles e gli arresti sono stati più di novanta. Motivazione: gli studenti avrebbero «messo in pericolo gli agenti».
Il campus della University of Southern California è ora sigillato dall’esterno con guardie ad ogni cancello che filtrano esclusivamente gli studenti con documenti. Founders Park dove erano state erette le tende è deserto e transennato. In ultimo, l’università, piuttosto che rischiare ulteriori espressioni di dissenso, ha deciso di annullare del tutto l’annuale cerimonia di laurea, che proprio nel parco si sarebbe dovuta tenere il 10 maggio.
LA USC, si noti, ospita istituti di grande prestigio accademico ed autoproclamata cultura liberale come il Center for Advanced Genocide Research (dedicato allo studio delle «origini, dinamiche e dimensioni della resistenza al genocidio») o la scuola di giornalismo Annenberg che produce ricerca sulla
Commenta (0 Commenti)IRRESISTIBILI. Dall’inizio alla fine, la liberazione palestinese attraversa generazioni e lotte: ecologismi, femminismi, pacifismo. Alla partenza contestata la Brigata ebraica, all’arrivo a piazza Duomo qualche tensione
Un momento del corteo del 25 aprile a Milano - Gabriele Puglisi
Lia è appoggiata a un paracarro all’ingresso di piazza Duomo a Milano. Guarda sfilare il corteo, lunghissimo, e applaude a ogni bandiera palestinese. Al collo ha un fazzoletto dell’Anpi e una kefiah. «L’ho comprata anni fa a Hebron – dice – ma fino a oggi l’ho tenuta nel cassetto. Di solito venivo solo col vessillo dell’Anpi, ma questa volta l’ho voluta portare». La questione palestinese ha invaso la festa della Liberazione.
LA NUOVA MILANO
In piazza Duomo, già alle 13, le bandiere della Palestina occupano le prime file davanti al palco. In realtà, sono ovunque. Non c’è spezzone della manifestazione, di gran lunga la più partecipata degli ultimi anni, in cui il massacro in corso a Gaza non sia presente. Non poteva che essere così. Se i valori della Resistenza, come dice anche Primo Minelli, presidente del comitato permanente antifascista che organizza il corteo, «sono carne viva e cemento unitario della società italiana» quello che sta succedendo nel qui e ora nel mondo doveva essere centrale. Così è stato. «Stop Gaza genocide», c’è scritto su un cartello in mano a un giovane ragazzo, avrà vent’anni al massimo.
Lia applaude. «Quello è milanese», sottolinea. Certo, milanese di seconda generazione, come moltissimi partecipanti alla manifestazione. Ieri Milano c’è stata, e la cosa non stupisce. Milano c’è sempre il 25 aprile, perché la festa della Liberazione è nel dna di qualsiasi milanese che non sia fascista.
Ma ieri c’era anche una nuova Milano, quella delle seconde generazioni, che si è presa una fetta di corteo e l’ha fatto proprio. Chi in città ci vive, li conosce: sono i ragazzi e le ragazze (soprattutto le ragazze) delle periferie milanesi, quelle in cui sono costretti dalla gentrificazione. Indossano la kefiah, ascoltano la trap. E, dall’8 ottobre a oggi, hanno imparato a farsi vedere. Hanno riempito i cortei pro Palestina ogni sabato da mesi a questa parte e ieri erano in piazza per festeggiare una Liberazione che sentono lontana e per rivendicare la fine di un massacro che invece sentono vicino, troppo vicino.
QUELLI DEL 25 APRILE
Accanto a loro, c’era anche la solita Milano del 25 aprile, quella che sempre c’è stata e sempre ci sarà. Ma con una motivazione in più. Perché se al passaggio della Brigata ebraica a urlare «Israele assassino» c’era anche chi abita ogni giorno le vie della città un motivo c’è: la fine del massacro a Gaza è
25 APRILE, UNA DATA ESIGENTE. «Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, […]
25 Aprile 1994 - Dall'archivio del Manifesto
«Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, il corteo sarà pienissimo.
Ce lo dicono le tante adesioni, collettive e individuali, l’impegno degli organizzatori, la sensazione di aver intercettato e dato voce a un desiderio diffuso. Persino cresciuto nelle ultime settimane, al crescere delle motivazioni per fare di questa Liberazione una liberazione speciale.
Al centro del nostro 25 aprile c’è l’urgente mobilitazione contro le destre estreme in Italia e in Europa, che ormai mettono in discussione o cancellano principi e diritti che parevano acquisiti. E c’è l’opposizione popolare alla guerra, ormai trattata come un punto di programma dalle massime istituzioni Ue.
Cessate il fuoco e no al riarmo sono le parole d’ordine per l’unica opzione che ci resta: la pace.
In piena coerenza con l’eredità della Resistenza, combattuta anche per scacciare la guerra dal destino dell’Europa, quella di oggi sarà anche la grande manifestazione pacifista che aspettavamo da tempo. Per una soluzione negoziale del conflitto in Ucraina a più di due anni dall’aggressione russa. E per chiedere all’Unione e agli stati europei di agire per fermare la carneficina di Israele a Gaza. Smettendola con l’avallare – di fatto – l’azione di Netanyhau, capace di annientare l’istintiva solidarietà che il 7 ottobre aveva portato a Israele, seppellendola sotto una montagna di macerie e cadaveri palestinesi.
Poi c’è il governo Meloni che quotidianamente porta argomenti e attualità all’antifascismo. Disprezzo dei migranti, accanimento contro i poveri e gli ultimi, manganellate agli studenti, riduzione degli spazi di pluralismo, attacco ai diritti delle donne.
La lista è lunga e disegna un modello di governo e un sistema di potere che non è certo una riedizione del fascismo ma che ha nel cuore una troppo simile pulsione autoritaria.
Pensare che questa «matrice» possa essere cancellata con
Leggi tutto: La festa che non è una passeggiata - di Andrea Fabozzi
Commenta (0 Commenti)Dopo la Columbia retate alla Nyu, ma ormai le proteste per la Palestina sono decine: cortei a Yale, Mit e Tufts, tende a Berkeley, occupazioni in California. E cariche a Torino. A Gaza ora l’Onu vuole indagini sulle fosse comuni
CAMPUS LARGO. Dopo le retate alla Columbia si agitano Nyu, Yale, Mit... Proteste da Berkeley al Cal Polytechnic, richiesta la Guardia Nazionale
La protesta per la Palestina alla Columbia University - foto di Andrea Renault/Star Max
Gli arresti a centinaia non fermano le manifestazioni per la Palestina nelle università Usa, anzi sembrano provocarne l’allargamento a sempre nuovi campus. Una tendenza che non dà cenno di rientrare.
Non è più solo la Columbia University ad avere manifestazioni e sit in permanenti. A New York anche la progressista New School e la prestigiosa Nyu sono mobilitate, e così sta accadendo a Yale, al Mit di Boston, alla Tufts, alla University of North Carolina. Sulla costa ovest ci sono accampamenti di protesta all’Università della California, a Berkeley. Studenti si sono barricati all’interno della California Polytechnic State University. Per il Seattle Times, centinaia di studenti stanno organizzando una manifestazione nella regione di Puget Sound (Washington) a cui parteciperanno due dozzine di scuole superiori e college.
LA RISPOSTA DEGLI ATENEI non si discosta da quella della rettrice della Columbia, Minouche Shafik: chiamare la polizia e cercare di tenere a casa gli studenti con la didattica da remoto. La New York University ha chiamato la polizia per disperdere la folla che continuava ad aumentare, e quando da parte degli studenti sono state lanciare alcune bottiglie si sono verificati momenti di tensione ma niente arresti. A Yale invece decine di studenti sono stati arrestati con l’accusa di trespassing (sconfinamento), e Harvard ha deciso di sospendere il Comitato per la solidarietà con la Palestina. Se la risposta dei rettori non cambia, altrettanto accade con le reazioni degli studenti: «Come ebrea, come studentessa di Yale, come americana, sono convinta di non volere che gli omicidi continuino a verificarsi in mio nome e con i miei soldi – dice la 22enne Miriam Levine – E quindi continuerò a protestare».
PARTE DEL PROBLEMA è che i rettori di queste prestigiose e costose università private non possono permettersi di perdere i grandi donatori e quindi cercano di soffocare le proteste in nome della sicurezza. «Parlano della minaccia antisemita – dice Rachel Schwartzes, studentessa del Cuny, l’università della città di New York – ma più della metà degli studenti che protesta è ebrea. Il problema è che
Leggi tutto: Arrestarli non basta, la Palestina accende le università degli Usa - di Marina Catucci
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