Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Stati Uniti Il primo discorso sullo stato dell'Unione. Prima il comizio al Congresso, poi Gm, Ford e Stellantis fanno spostare di un mese i loro dazi

Washington, Donald Trump ieri nella seduta congiunta di Camera e Senato foto Ap/Win McNamee Washington, Donald Trump ieri nella seduta congiunta di Camera e Senato – foto Ap/Win McNamee

Il discorso fiume al Congresso ha misurato la distanza fra l’America della narrazione trumpiana e il mondo reale. Il day after ha visto la realtà ameno in parte riaffermarsi sull’allucinazione Maga delineata da Trump.

Il panegirico del presidentissimo ha delineato un mondo di antagonismi interni e globali improntati alla conflittualità, in cui l’America, imperitura nazione eletta, è destinata ad essere vincitrice, ora che ha infine trovato un condottiero capace di impugnare senza falsi timori la forza dei giusti. Da quella visione consegue anche quella di un ordine mondiale ugualmente suddiviso in deboli e potenti, con gli Stati uniti che quel potere intendono monetizzarlo.

NEL DISCORSO le tariffs («parola più bella delle lingua inglese!») sono nuovamente state esaltate come panacea per il risanamento del bilancio e risarcimento morale per i torti subiti dagli Stati uniti («fottuti» per decenni dagli altri paesi). Le gabelle sull’export sono state imposte lo stesso giorno ai due paesi partner legati a doppio filo agli Stati uniti, Messico e Canada lasciando sbigottiti economisti oltreché i diretti interessati. Il premier canadese uscente Justin Trudeau ha citato il Wall Street Journal nel definire «molto stupida» la decisione di dichiarare senza motivo una guerra commerciale al paese più amico. Quella decisione sembra esser riuscita nell’arduo compito di fare infuriare un popolo notoriamente mite. In Canada molti negozi hanno rimosso dagli scaffali prodotti statunitensi, come whiskey e vini californiani, senza aspettare l’esaurimento delle scorte.

Visti da nord i dazi hanno infatti il sapore di arbitrarie sanzioni economiche, soprattutto perché arrivano dopo settimane di insinuazione da parte di Trump di una annessione del paese come «51mo stato» da parte degli Stati uniti. Trudeau (che Trump si ostina a chiamare «governatore») ha detto che questo non avverrà mai e che le minacce assicureranno al massimo che l’inno americano continui ad essere fischiato in stadi e palasport. Alle leghe sportive (basket Nba, calcio Mls, baseball Mlb e Hockey Nhl) partecipano infatti squadre di entrambi i paesi e le partite importanti prevedono il doppio inno in apertura. Nel recente torneo Four Nations di hockey, l’inno americano è stato ripetutamente subissato dai fischi dei canadesi.

L’ANNUNCIO di dazi reciproci da parte anche degli altri paesi (Cina, Messico) colpiti, è stata la doccia fredda che nel day after del discorso ha riportato alla realtà l’immaginaria «vittoria totale» dipinta da Trump. In particolare, non ha tardato ad emergere una notevole preoccupazione, soprattutto per il potenziale sconvolgimento di settori come quello automobilistico che dipendono da una complessa filiera produttiva e quella che è a tutti gli effetti una unica ed integrata economia nordamericana. Dopo un incontro con i dirigenti di Ford, General Motors e Stellantis, Trump ha annunciato una moratoria di un mese sui dazi contro l’industria metalmeccanica. La notizia ha fatto immediatamente risalire i titoli delle aziende, ma l’altalena in borsa (martedì Wall Street aveva ufficialmente cancellato tutti i guadagni registrati dall’insediamento) è un ulteriore sintomo della fatale incertezza proiettata dalle imperscrutabili politiche di Trump.

La sensazione diffusa, nella formulazione dell’economista premio Nobel Paul Krugman, è quella di «essere intrappolati in una Tesla incendiata». Una sindrome che fa riferimento al “presidente ombra” Elon Musk, e che vale anche per molti americani, che assistono impotenti mentre Musk e i suoi giovani pasdaran di Silicon Valley mettono a ferro e fuoco ciò che rimane dello stato sociale.

A QUESTO RIGUARDO, e alla modalità palesemente anticostituzionale dell’operazione, è giunta ieri una prima sentenza della Corte suprema che ha ordinato alla Casa bianca di riattivare i pagamenti di 2 miliardi di dollari precedentemente stanziati per aiuti internazionali dell’agenzia UsAid che erano stati congelati da Musk. Una prima avvisaglia di indipendenza da parte di una Corte che, pur a maggioranza reazionaria, ha sostenuto l’idea di separazione dei poteri allegramente calpestata da Trump.

Commenta (0 Commenti)

Il nemico americano Le informazioni intorno al conflitto subiscono smentite clamorose nel giro di poche ore. Al centro resta l’Accordo sulle terre rare

Volodymyr Zelensky - Ap Volodymyr Zelensky – Ap

Dall’Ucraina emana un fumo denso che oscura il terreno e tutto ciò che entra in contatto con la guerra. È la confusione che attanaglia i soldati al fronte, che si chiedono quanto potranno resistere senza le armi Usa; il governo di Kiev, che non sa più come accettare le condizioni di Donald Trump senza passare dalla pubblica abiura e tutti i protagonisti internazionali. Le notizie, le dichiarazioni, persino le decisioni che riguardano il conflitto subiscono nel giro di poche ore smentite clamorose.

È IL CASO dell’interruzione del coordinamento tra la Cia e i servizi segreti ucraini. Ieri mattina il Financial Times aveva dato in anteprima la notizia che, oltre ad aver interrotto le forniture di armi, l’amministrazione di Washington aveva anche smesso di condividere informazioni di intelligence con i funzionari di Volodymyr Zelensky. Non solo i 3,85 miliardi di forniture belliche lasciate in eredità da Joe Biden, dunque. Ma anche le fondamentali coordinate satellitari usate per identificare e colpire gli obiettivi militari russi, gli allarmi sugli spostamenti delle truppe nemiche lungo la linea del fronte o i bombardamenti più pericolosi.

PERDERE TUTTO CIÒ per l’Ucraina significherebbe un danno enorme, forse non comparabile all’incapacità di rispondere al fuoco a causa della mancanza di proiettili, ma di sicuro invalidante per le sue capacità offensive. Non solo, gli Usa avrebbero anche imposto alla Gran Bretagna di adeguarsi alla decisione di Trump e di smettere a sua volta di fornire informazioni riservate alle forze armate di Zelensky. Anche se non è mai stato confermato ufficialmente, molti analisti ritengono che i successi della Marina ucraina nel Mar Nero, dall’affondamento del Moskva in poi, siano in parte frutto dell’assistenza costante dell’MI-6 di sua maestà.

A metà giornata i media ucraini hanno smentito: secondo il media Suspilne, le informazioni di intelligence continuano ad arrivare da oltreoceano, nonostante l’ultimo decreto di Trump. Ma i diretti interessati, stando al giornalista della Fox Edward Lawrence che ha citato direttamente il nuovo capo della Cia, John Ratcliffe, hanno confermato che per ordine del presidente il servizio esterno degli Usa ha chiuso la linea diretta con Kiev.

UNA NOSTRA FONTE ucraina, raggiunta nel mezzo di questo rimpallo di smentite e riaffermazioni, ci ha assicurato che alla giornata di ieri le informazioni continuavano ad arrivare, ma che sul futuro immediato c’è grande incertezza. Altre indiscrezioni si attestano nel mezzo: gli Usa avrebbero smesso di passare dati utili per gli attacchi, ma starebbero continuando a supportare il Paese est-europeo per la difesa. Tra l’altro, il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Mike Waltz, ha dichiarato che «se riusciamo a definire questi negoziati e ad avanzare verso questi negoziati, allora il presidente esaminerà attentamente la revoca» allo stop delle forniture militari e alla cooperazione dell’intelligence.

Uno sviluppo simile ma con un finale diverso si è avuto per il presunto viaggio di Macron e Starmer a Washington per portare Zelensky a fare la pace con Trump. L’indiscrezione era stata inizialmente diffusa dal Daily mail e poi confermata da Sophie Primas, portavoce del governo francese, la quale aveva dato come “previsto” il viaggio al termine del Consiglio dei ministri di ieri. Poco dopo l’Eliseo ha smentito energicamente.

SORTE SIMILE, ma con risvolti molto diversi è toccata alla presunta lettera inviata da Zelensky a Trump. Durante il discorso sullo stato dell’Unione 2025 il tycoon ha dichiarato che il presidente ucraino avrebbe riconosciuto «gli sforzi degli Stati uniti e si sarebbe detto pronto a trattare la pace e a chiudere l’accordo sulle terre rare». Trump ha ringraziato Zelensky e ha dichiarato di aver “apprezzato il gesto”. Peccato che, secondo Kiev, questa lettera non esiste. Gli stessi concetti sono stati espressi dal presidente con l’uniforme in un post su X, ma non è stato inviato alcun documento ufficiale a Washington. Tuttavia, la disponibilità ucraina a concludere l’Accordo sulle terre rare è stata effettivamente rinnovata e, anche se l’indiscrezione di Reuters secondo la quale l’intesa era già stata firmata e Trump l’avrebbe annunciata martedì era errata, al momento sarebbe solo questione di tempo.

IN OGNI CASO il capo di gabinetto, Andriy Yermak, ha riferito che Ucraina e Stati uniti hanno concordato di riprendere i colloqui bilaterali e nel suo consueto messaggio serale Zelensky ha anticipato che già all’inizio della prossima settimana «si potrebbero vedere i primi risultati» di questo riavvicinamento. Ma di questi tempi una settimana è lunga e può succedere, letteralmente, tutto e il contrario di tutto.

 

Commenta (0 Commenti)

Il presidente francese Macron chiama alle armi e offre alla Ue il suo ombrello nucleare. E oggi il Consiglio europeo straordinario darà il primo impulso al piano ReArm Europe, una rifondaziona bellica

Il tiratore franco Il discorso alla nazione. Il capo dell’Eliseo offre al Vecchio continente l’ombrello nucleare

Il presidente francese Macron all’Elysee foto Michel Euler/Ap Il presidente francese Macron all’Elysee – foto Michel Euler/Ap

«È la fine dell’innocenza» ha dichiarato ieri il presidente francese, Emmanuel Macron. In un discorso alla nazione trasmesso sulle televisioni e su internet, il capo dell’Eliseo ha utilizzato la guerra in Ucraina per giustificare uno dei proclami più duri della sua presidenza: bisogna riarmarsi e bisogna farlo in fretta. «L’aggressività russa testa i nostri limiti e non sembra conoscere frontiere» sottolinea il presidente, «la nostra prosperità e la nostra sicurezza sono diventate più incerte e, bisogna pur dirlo, siamo entrati in una nuova era». Per Macron è l’era del riarmo, nella quale la Francia «non è impreparata» perché negli ultimi «dieci anni abbiamo raddoppiato gli investimenti per la Difesa».

Ma ora Parigi alza il tiro: vuole che sia tutta l’Europa – unita, sottolinea Macron – a far fronte comune contro la minaccia russa che «riguarda i Paesi europei, che ci riguarda. La Russia ha già trasformato la guerra in Ucraina in un conflitto mondiale» attraverso i contingenti nord-coreani e le armi iraniane. Ma non solo: «La Russia di Putin viola le nostre frontiere per assassinare gli oppositori, manipola le elezioni in Moldavia e in Romania» porta avanti campagne di attacchi hacker… Insomma, non usa mezzi termini Macron: bisogna prepararsi alla minaccia che viene da Mosca.

Militarmente prima di tutto. Il presidente ha annunciato di aver notificato agli industriali che operano nel campo della Difesa che presto si terrà un incontro con il governo per incrementare gli sforzi per il riarmo. Mentre il leader francese parla, sullo schermo scorrono grafici e immagini che sintetizzano la sproporzione tra le forze russe e quelle francesi e che quindi, nelle parole di Macron, ora giustificano la necessità di avviare una nuova corsa agli armamenti. «Chi può dunque credere che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina?».

In quest’ottica il capo dell’Eliseo palesa ancora una volta il suo sogno di una Difesa comune europea, anche se

Commenta (0 Commenti)

Ursula von der Leyen propone un piano di riarmo per l’Europa: 800 miliardi di euro per la difesa, allargando le maglie del Patto di stabilità. Il Vecchio continente si riscopre solidale ma solo a suon di bombe. L’idea divide il governo italiano e riavvicina le opposizioni

SPARATA MILITARE La presidente mette sul piatto cifre roboanti: 800 miliardi di euro per la difesa. Ma le modalità di raccolta sono tutt’altro che chiare

Solidali con le bombe. Il bazooka di Ursula per il riarmo europeo 

Le cifre sono roboanti: 800 miliardi di euro «mobilitati» in quattro anni, tra prestiti per 150 miliardi e spese non calcolate nelle maglie del Patto di stabilità per i restanti 650. Il modo per raccogliere queste somme e metterle a disposizione della difesa europea però è tutt’altro che chiaro, tra ipotesi di prestiti sulla base di debito comune (modello obbligazioni emesse dalla Commissione con nel Next generation Eu) e aumenti delle spese belliche per l’1,5% del Pil nazionale dei paesi Ue.

Mobilitare le immense risorse dell’Europa a difesa della democrazia e ripristinare la deterrenza contro coloro che cercano di farci del male - Ursula von der Leyen


È QUESTO il contenuto dell’attesa lettera della presidente della Commissione Ursula von der Leyen sul piano di riarmo dell’Europa. Si tratta di una proposta che arriverà sul tavolo del leader dei Ventisette che si riuniscono domani a Bruxelles per il Consiglio europeo straordinario tutto dedicato alla sicurezza europea e al sostegno all’Ucraina. La lettera rende anche esplicito il contesto nel quale la necessità del maxi piano di riarmo si inserisce. Ursula parla di «riconoscenza» europea «per il sostegno Usa e il ruolo svolto nella nostra sicurezza per decenni». Una premessa che apre poi alla constatazione di un cambiamento radicale dell’ordine costruito nel dopoguerra. Per questo ora, sostiene von der Leyn, è necessario «mobilitare le immense risorse dell’Europa» a difesa della democrazia. Con lo scopo di «ripristinare la deterrenza contro coloro che cercano di farci del male».

Finalmente l’Unione europea si risveglia dal sogno bucolico di poter essere una sorta di superpotenza erbivora in un mondo di carnivoriNicola Procaccini (Ecr)


L’ACCELERAZIONE di von der Leyen scatena reazioni politiche ad ampio spettro. Di piano «necessario per rafforzare la sicurezza europea» parla il vicepresidente dei popolari Siegfried Muresan, e anche il co-presidente di Ecr, il meloniano Nicola Procaccini, lo definisce «una sveglia per l’Europa». Sparano a zero invece i patrioti della Lega, che chiedono se «Ursula vuole la terza guerra mondiale». Però, nella stessa famiglia europea, Marine Le Pen denuncia in un’intervista uscita ieri su Le Figaro la «brutalità della decisione Usa nel sospendere gli aiuti all’Ucraina». Di follia bellicista parlano gli eurodeputati italiani di Left, a partire dai 5S, e il responsabile esteri di Sinistra italiana Giorgio Marasà definisce il piano di von der Leyen «disegno osceno» che finisce per «obbedire a quello di Trump».

Silenzio e imbarazzo dai socialisti europei, che

Commenta (0 Commenti)

Striscia continua Fonti stampa e governative israeliane svelano le possibili mosse. E la Ue le «legittima». Ben Gvir propone di bombardare i depositi di aiuti. Così Tel Aviv vuole costringere Hamas a estendere la prima fase della tregua e non passare alla seconda

L’iftar della famiglia Maarouf a Jabaliya foto Apa/Omar Ashtawy L’iftar della famiglia Maarouf a Jabaliya – Apa/Omar Ashtawy

L’Unione europea condanna Hamas perché non asseconda la volontà israeliana di ignorare gli accordi sottoscritti, e così facendo legittima la scelta di Tel Aviv di affamare la popolazione di Gaza. Leggere le prime parole della dichiarazione di Kaja Kallas riportate dal suo portavoce, Anwar al-Anouni, fa venir voglia di stropicciarsi gli occhi dall’incredulità.

L’Alta rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, vicepresidente della Commissione europea «condanna il rifiuto di Hamas di accettare l’estensione della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza. La successiva decisione di Israele di bloccare l’ingresso di tutti gli aiuti umanitari potrebbe potenzialmente comportare conseguenze umanitarie».

NON SOLO si ignorano completamente le decine di denunce con cui organizzazioni internazionali, ong, associazioni umanitarie hanno dichiarato che la limitazione degli aiuti da parte di Tel Aviv è già causa di pesanti conseguenze, ma si mette in dubbio anche, rendendolo probabile e non certo, un assunto universale per quanto banale: senza cibo le persone muoiono.

Neanche una parola sul genocidio, sull’utilizzo della fame come arma di guerra, che ha già provocato, insieme ad altre accuse, l’emissione dei mandati di arresto da parte della Corte penale internazionale per Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Gallant. Mandati che, d’altro canto, larga parte dell’Ue ha deciso di ignorare.

Eppure, i rappresentanti di governo di Tel Aviv sembrano fare a gara a chi propone le pene più feroci. Non solo il cibo, le medicine, i ripari, si deve tagliare anche l’acqua e l’elettricità, hanno fatto sapere ieri il canale israeliano Kan 11 e il ministro delle finanze Smotrich.

SAREBBERO SOLO alcune delle indiscrezioni sul nuovo piano di «massima pressione» del governo per convincere Hamas a liberare i prigionieri senza alcuna certezza che Netanyahu non riprenda i bombardamenti. L’ex ministro della sicurezza nazionale, il suprematista ebraico Itamar Ben Gvir, che si impegna, con buoni risultati, a stare sempre un passo oltre il baratro dell’orrore, ha dichiarato al Times of Israel che l’esercito dovrebbe bombardare i depositi di aiuti già presenti nella Striscia. Affamare i palestinesi per convincere Hamas ad accettare le proprie condizioni è una formulazione che il governo intero accoglie a braccia aperte.

La cosa che impressiona di più, rimane forse il controllo completo di Gaza da parte di Israele, dei suoi confini, di ciò che entra, di chi esce e del destino di chi rimane. E questo nonostante la presenza internazionale, la missione dell’Unione europea, i militari provenienti da vari paesi (tra cui l’Italia) presenti al valico di Rafah. Tutti rispondono agli ordini di Israele, anche se il prezzo da pagare è altissimo in termini di vite umane.

Intanto, i bombardamenti israeliani e l’attacco dei droni sono diventati più pericolosi da quando è terminata la prima fase del cessate il fuoco. Domenica sei persone sono state uccise dall’esercito. Altre tre ieri tra Rafah e Khan Younis. Diversi i feriti. Dopo la fine della tregua molte zone sono state prese di mira. Sono almeno 116 i palestinesi uccisi negli ultimi 42 giorni, ossia dall’inizio della tregua. I militari dichiarano di colpire «persone sospette», pure quando si tratta di minori e di gruppi di civili.

ANCHE IN CISGIORDANIA la situazione si fa sempre più difficile. Più di 180 case abbattute a Jenin, il 90% della popolazione sfollata, strade, infrastrutture distrutte, acqua, elettricità e cibo tagliati. L’aspetto peggiore è che gli abitanti non sanno se e quando potranno tornare. Altre volte è successo, in passato, distruzioni enormi, bombardamenti, bulldozer che spaccano in due le vie principali e tagliano la rete fognaria. Ma appena l’esercito si ritirava, i palestinesi erano pronti a ricostruire. Questa volta Tel Aviv ha dichiarato che vuole rimanere, con le ruspe ma anche con i carri armati, e che ai palestinesi non sarà permesso di tornare.

Ieri Khaled Abdullah, un palestinese di 40 anni originario di Jenin, è morto nella prigione israeliana in cui era detenuto senza accuse dal 9 novembre 2023. La Società dei prigionieri palestinesi denuncia le «brutali condizioni» di prigionia in Israele. La famiglia ha dichiarato che Khaled non soffriva di problemi di salute prima di essere fermato. Si tratta del 61esimo palestinese a morire nelle prigioni israeliane dal 7 ottobre 2023.

SEMPRE IERI ad Haifa un uomo ha accoltellato alcune persone in attesa alla fermata dell’autobus. L’aggressore, un druso con cittadinanza israeliana, è stato ucciso sul posto da una guardia di sicurezza, che gli ha sparato insieme a un passante armato. Un uomo di 70 anni, palestinese con cittadinanza israeliana è morto in seguito alle ferite riportate.

Un ragazzo di 15 anni è stato ferito in maniera seria ed è stato operato d’urgenza. La famiglia dell’aggressore ha dichiarato che l’uomo soffriva di disturbi mentali e che non era spinto da motivazioni politiche. I media israeliani hanno confermato che si trattava di una persona nota ai servizi sociali.

 

Commenta (0 Commenti)

Pace La Cgil parteciperà, altri ci stanno pensando: «Ma per fare cosa?»

La piazza romana per l’Europa tra adesioni e dubbi La bandiera dell'Unione europea – Ansa

Partita da Repubblica, e dall’Amaca di Michele Serra, la manifestazione «per l’Europa» del prossimo 15 marzo a piazza del Popolo, a Roma, sarà senza bandiere di partito ma presenta diversi punti interrogativi. Le forze politiche e le organizzazioni sociali che si oppongono alla destra di Giorgia Meloni e Donald Trump, insomma rischiano di dividersi attorno ai temi che la proposta sollecita. Ciò non avviene per quel che la convocazione dice, ma piuttosto per quel che almeno finora ha omesso di dire.

SI CHIEDONO ad esempio Marco Mascia, presidente del Centro diritti umani Antonio Papisca e Flavio Lotti, presidente della Fondazione PerugiAssisi per la cultura della pace: «Partiamo dal presupposto che siamo tutti d’accordo sul fatto che c’è bisogno di più Europa, soprattutto di più Europa ‘politica’. Il punto è: quale Europa ‘politica’ vogliamo? L’Europa che rilancia una folle corsa al riarmo o l’Europa che avvia un negoziato globale per la pace e la giustizia sociale internazionale?». Sono domande che riassumono il sentimento che circola tra molte persone che guardano a quella piazza come prima reazione alla spartizione dell’Ucraina (e anche dell’Europa) tra Trump e Putin ma che considerano troppo, diciamo così, esile e indefinito l’invito a manifestare.

IL RISCHIO è che di fronte alla vaghezza dell’appello che convoca la piazza romana, l’appuntamento diventi teatro per operazioni politiche di cabotaggio più piccolo rispetto allo scenario mondiale di cui si vorrebbe parlare. In molti, ad esempio, hanno notato che sia il sindaco di Milano Beppe Sala che l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate, entrambi impegnati a costruire un perno moderato del futuro centrosinistra, sono stati tra i primi ad aderire. O che Carlo Calenda, annunciando la sua partecipazione, elencbhi i dieci punti per costruire una «grande potenza europea». Oppure, ancora, che agli occhi di alcuni l’evento del 15 marzo diventi occasione per distinguersi dalla piazza del 5 aprile convocata dal M5S anche per protestare contro le spese militari al posto di quelle sociali. Il sospetto che tutto si riduca a una contesa interna al centrosinistra, ancora, viene anche quando dalla piazza si sfilano quelli di Forza Italia, che pure per bocca di alcuni sindaci avevano comunicato la disponibilità ad esserci.

TUTTAVIA, IL TEMA che appare più divisivo è: si starà in piazza per un’Europa di pace o per una specie di «Europe First»? Se ne parla anche nel gruppo parlamentare del Partito democratico, che pure ha sposato da subito l’idea per bocca di Elly Schlein. «Noi a una manifestazione per l’Europa partecipiamo volentieri – dice al manifesto Paolo Ciani, che è affiliato ai dem ma che è anche segretario di Demos, soggetto politico vicino alla Comunità di Sant’Egidio – Ma vogliamo aggiungere che siamo per il no alle armi. Siamo per l’Europa dei padri fondatori che si è unita in nome del ‘Never again’ all’indomani della seconda guerra mondiale. Quindi ci saremo, sì. Ma parteciperemo con le nostre proposte, a partire dal no alla modifica della legge 185 sul commercio di armi».

I MODI, LE FORME e l’eventualità della manifestazione sono oggetto di valutazione in diversi ambiti. Ieri la segreteria nazionale di Sinistra italiana ha esaminato la faccenda, sul piatto l’ipotesi di avviare un’interlocuzione con i promotori (formalmente saranno i sindaci, con Roma dovrebbe farsi carico della segreteria organizzativa) anche per ottenere ulteriori chiarimenti. «L’Europa, se esiste, la pianti con la retorica militarista – afferma Nicola Fratoianni – Assuma un’iniziativa politica per la pace e un’iniziativa diplomatica, quella che non ha mai fatto in questi tre anni. L’Europa cambi passo è l’unica possibilità di recuperare un ruolo e un protagonismo». Ne discutono Arci e Anpi, con la consapevolezza che molta gente attraverserà piazza del Popolo e che l’evento intercetterà il sentimento anti-Trump. Dopo il comunicato della segretaria generale Cisl Daniela Fumarola, è arrivato il sì di Pierpaolo Bombardieri per la Uil: «È il momento di mettere da parte la zavorra dell’austerità e superare la logica del nuovo patto di stabilità. Se verranno scorporate le spese per la difesa, dovrà avvenire lo stesso con la sanità, gli investimenti e le spese sociali: le persone vanno difese da ogni punto di vista». In serata, giunge anche l’annuncio di «partecipazione» della Cgil. Con queste parole: «Rifiutiamo un’idea di Europa che propone politiche che riaffermano la guerra come strumento normale di regolazione dei conflitti».

 

Commenta (0 Commenti)