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ReArm Il piano della presidente Ue spacca partiti e coalizioni. La premier dovrà compattare la sua maggioranza. La segretaria dovrà stanare la minoranza interna

La premier Giorgia Meloni a Torino per una visita all'Inalpi Arena foto Ansa La premier Giorgia Meloni a Torino per una visita all'Inalpi Arena – foto Ansa

Romano Prodi ironizza su maggioranza e opposizione impegnate in una nobile gara a chi è più diviso sul riarmo europeo. In realtà le due principali leader della politica italiana, al momento, sono impegnate soprattutto nel cercare di evitare che quelle divisioni si trasformino in disastro conclamato la settimana prossima in Parlamento. La premier rischia di più: è già un miracolo tutto italiano che la spaccatura a Strasburgo non terremoti maggioranza e governo. Ma neppure la leggendaria faccia tosta della destra italiana basterebbe a evitare lo sconquasso se il fattaccio si ripetesse in casa.

A MONTECITORIO e palazzo Madama la maggioranza dovrà mostrarsi unita sul riarmo e al confronto quadrare il cerchio è un gioco da ragazzi. La premier dovrà camminare sulle uova, assicurare che l’Italia non parteciperà mai a missioni in Ucraina senza egida Onu, prendere di mira la pretesa anglo-francese di imporre la propria egemonia, garantire che l’aumento di spesa per le armi non inciderà su Sanità e Welfare, assicurare, negando l’evidenza, che il piano di Ursula non implica ostilità nei confronti di Trump. Ma probabilmente dovrà anche trovare una formula tale da non costituire impegno rigido, per consentire a Salvini di votare un mandato e non una scelta già definita a favore del ReArm.

Sono trucchi che nella politica italiana abbondano sempre ma tutto diventerà molto più difficile se il leghista terrà il punto nel pretendere contropartite concrete su altri tavoli: soprattutto, al grido di “Non c’è pace senza pace fiscale”, il semaforo verde sulla rottamazione di 10 milioni di cartelle che vuole incassare entro marzo, in tempo utile per essere sbandierata a inizio aprile nel congresso leghista.

Per Giorgia i guai proseguiranno subito dopo, nel Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi. I principali Paesi europei hanno preso male il suo strappo con l’astensione nella risoluzione sull’Ucraina. Pressata da Salvini e ancor più da Giorgetti, che guarda alla cassa, dovrà insistere su diversi punti, a partire dalle modalità di finanziamento del riarmo. Col rischio di essere considerata pericolosamente vicina all’area degli intoccabili e infrequentabili dei quali non ci si può fidare, come Orbán e Marine Le Pen. Quelli da cui da due anni fa il possibile per smarcarsi e prendere siderali distanze. Non sarà una settimana leggera.

PER ELLY le cose sono più facili. Nessuno nel Pd vuole riproporre nel Parlamento italiano la clamorosa lacerazione registrata a Strasburgo: non lei e neppure la minoranza. Lunedì e martedì i gruppi parlamentari si riuniranno e cercheranno un testo comune che, data l’ottima volontà di tutti, sarà quasi certamente trovato. La mozione del governo è destinata a essere bocciata a priori e su quella più insidiosa del M5S correrà in soccorso il voto separato. Soprattutto al Senato, dove la minoranza è più forte, qualche voto in dissenso ci sarà ma non dovrebbe assumere proporzioni tali da configurare una spaccatura profonda come quella di Strasburgo.

È POLVERE sotto il tappeto. Qualsiasi parvenza di unità il Pd riesca a trovare la settimana prossima sarà posticcia. La minoranza, consapevole di non avere chances di vittoria, non ha alcuna intenzione di imbarcarsi in una sfida congressuale dalla quale uscirebbe in ginocchio. A impugnare la carta del congresso incautamente messa sul tavolo da Zanda è così proprio la segretaria ma neppure lei, nonostante le spinte dei pasdaran del suo gruppo ristretto, riunito ieri fino a tarda sera, sembra voler davvero arrivare a uno showdown definitivo. Chiede il «chiarimento» e minaccia di scegliere la strada dell’ordalia congressuale per domare la minoranza e impedire che si ripeta il fattaccio della settimana scorsa. Ma se andrà così sarà l’ennesimo falso movimento: i due Pd continueranno a essere tali fingendo di essere uniti e non ci vuole molto a immaginare come la minoranza (e non solo quella) abbia preso le parole di Conte: «Il no al riarmo di Schlein è la premessa per un progetto politico di governo di cui la politica estera sarà un pilastro». Lo si vedrà del resto già oggi a Roma, in piazza del Popolo: mezzo partito invocherà l’Europa intendo “Riarmo” l’altra metà esalterà l’Europa per dire “No al riarmo”.

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Stati Uniti Nei primi 50 giorni di mandato l’indice di gradimento di Donald Trump scende di 11 punti: il 53% degli statunitensi disapprova la performance del presidente Usa, secondo il sondaggio della […]

Trump va giù nei sondaggi

 

Nei primi 50 giorni di mandato l’indice di gradimento di Donald Trump scende di 11 punti: il 53% degli statunitensi disapprova la performance del presidente Usa, secondo il sondaggio della Quinnipiac University.

Tra le manovre più odiate c’è lo smantellamento del dipartimento dell’educazione, respinto dal 60% degli intervistati, insieme alla guerra sui dazi al Canada, dal 58%, e al Messico, dal 56%.

Anche sull’immigrazione, cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, il 49% degli interpellati ritiene che il tycoon non stia facendo un buon lavoro al confine.

Rispetto alla politica estera, i votanti approvano addirittura più Zelensky, con il 43%, rispetto a Trump, che non supera il 42%. Anche altri sondaggi di Reuters, Cnn e Center Forward, mostrano un declino nel gradimento di Trump da quando è stato eletto.

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Arrestati ed espulsi gli studenti che hanno manifestato per Gaza. E poi manette, perquisizioni nei campus e sanzioni per chi protesta contro la repressione. Trump e i presunti difensori del «free speech» si scatenano. Università richiamate all’ordine minacciando lo stop ai fondi

Reprimo emendamento L’ultimatum dell’amministrazione alla Columbia University di New York, misure disciplinari a chi ha occupato per la Palestina. Decine di facoltà sotto inchiesta: «discriminazione razziale» verso i bianchi

Protesta all’Arizona State University per l'evento della sezione ASU dei College Republicans United (Ap) Protesta all’Arizona State University per l'evento della sezione ASU dei College Republicans United – Ap

Gli agenti del dipartimento per la Sicurezza nazionale, (Dhs), giovedì sera hanno perquisito due dormitori della Columbia University. «Scrivo con il cuore spezzato per informarvi che stasera abbiamo avuto agenti federali del Dhs in due residenze universitarie – ha detto la presidente ad interim della Columbia Katrina Armstrong in una nota alla scuola – Nessuno è stato arrestato o trattenuto. Nessun oggetto è stato rimosso e non sono state intraprese ulteriori azioni». Ma la mattina successiva una piccola manifestazione di protesta è stata sufficiente a provocare l’intervento della polizia, arrivata alla Columbia con un furgone pieno di barricate per circondare la zona, e degli elicotteri per controllare dall’alto. «Per arrivare a questo risultato, l’anno scorso è servita l’occupazione del campus – dice Fernando, portiere di uno dei palazzi eleganti che si trovano intorno alla zona dell’università – ora basta un gruppetto di manifestanti pacifici».

LA PRESTIGIOSA Columbia University nei giorni scorsi ha infirmato via email che il consiglio disciplinare ha emesso delle sanzioni pesanti contro gli studenti che ad aprile 2024 avevano occupato la Hamilton Hall per protestare contro la guerra a Gaza. L’università non ha comunicato il numero degli studenti espulsi, sospesi o ai quali sono state revocate le lauree, limitandosi ad affermare che questi provvedimenti sono il risultato di una «valutazione della gravità dei comportamenti» portata avanti con un processo investigativo durato mesi e udienze individuali condotte dal Consiglio disciplinare universitario.

Tutta la procedura è stata monitorata dai deputati repubblicani che con la minaccia di cancellare miliardi di dollari in finanziamenti federali hanno ottenuto i registri disciplinari degli studenti coinvolti nelle proteste. La manovra restrittiva della Columbia arriva inoltre mentre l’università è nel caos per l’arresto e la tentata deportazione di un suo studente laureato, e attivista palestinese, Mahmoud Khalil, nonostante sia negli Usa con un permesso permanente, la carta verde, e sposato con una donna americana. Khalil, che non era tra i manifestanti accusati di aver occupato la Hamilton Hall, e altri 7 studenti identificati da pseudonimi, avevano intentato una causa per impedire al Congresso di ottenere i registri degli studenti della Columbia, sostenendo che fosse un attacco alla libertà di parola, in violazione del primo emendamento.

ORA KHALIL è detenuto in centro per migranti

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Bocciate le richieste dei comitati, apertura solo sul voto ai fuorisede. Magi: «Hanno paura»

Supporter della Cgil e di +Europa fuori dal Parlamento a Roma in sostegno al voto per i referendum foto Marco Di Gianvito/Ansa Supporter della Cgil e di PiùEuropa fuori dal Parlamento a Roma in sostegno al voto per i referendum – Marco Di Gianvito/Ansa

La bozza del decreto elezioni, circolata prima dell’inizio del consiglio dei ministri di ieri, aveva fatto per qualche ora esultare i comitati referendari. Nel testo provvisorio sembravano accolte tutte le richieste della Cgil e PiùEuropa per i quesiti sul lavoro e sulla cittadinanza alle persone di origine migrante: voto ai fuori sede ed Election Day al primo turno delle amministrative, per consentire la più alta partecipazione. Ma a neanche 10 minuti dall’inizio dell’incontro, Palazzo Chigi ha reso nota la versione reale del decreto. E, come prevedibile, dall’atto si percepisce che la posizione del governo non è cambiata: i referendum devono fallire.

IL DECRETO elezioni ha stabilito che il primo turno delle amministrative si terrà in due giorni, domenica 25 e lunedì 26 maggio, mentre per i referendum si voterà nelle date dei ballottaggi, l’8 e 9 giugno, a scuole chiuse. «L’affluenza è in relazione ai quesiti e non al giorno», ha tentato di minimizzare il ministro per gli Affari europei e il Pnrr Tommaso Foti, ma per le opposizioni non è altro che «la conferma che l’esecutivo ha paura – come spiega Riccardo Magi di PiùEuropa – perché tra le ipotesi avanzate la data scelta è quella più sfavorevole alla partecipazione». «La strada è in salita – ha aggiunto durante il flash mob con matite gonfiabili organizzato davanti a Palazzo Chigi alla fine del Cdm – ma faremo di tutto per proteggere il voto degli elettori».

NELLA BOZZA del testo veniva paventato anche un meccanismo di partecipazione per i fuori sede, sia studenti che lavoratori (una platea stimata intorno ai cinque milioni di persone), punto dirimente per i comitati referendari.«Dobbiamo leggere le norme ma se fosse così si tratterebbe di un importante passo avanti», commenta Magi che ha anche ricordato a Foti come i referendum siano «sempre stati fregati dalla scelta di date estive al termine dell’anno scolastico, questa è storia di questo Paese, così come sono sempre stati neutralizzati anche con la mancanza di informazione».

L’ARROCCAMENTO del governo, che non ha nessuna intenzione di mettere in discussione quel che resta del Jobs Act e che ideologicamente avversa l’idea di facilitare l’accesso ai diritti di cittadinanza per le persone con background migratorio (come sa il segretario forzista Tajani che aveva provato a proporre un temperato Ius Scholae), aizza la minoranza. «Quella del governo è una forma di sabotaggio della democrazia», ha detto Angelo Bonelli di Avs, mentre il Pd, compattamente almeno su questo, parla di «decisione pilatesca, fatta con l’unico obiettivo di affossare la partecipazione popolare» (il senatore dem Marco Meloni) e di necessità di «una risposta forte, popolare, partecipata perché i cinque referendum possono cambiare la vita di milioni di cittadini», (il collega alla Camera, Arturo Scotto). Anche per il Prc si è in presenza di «furbizie di piccolo cabotaggio da parte dei soliti ladri di democrazia».

ADESSO si tratta di lavorare per provare a raggiungere il quorum. A partire dalla dovuta copertura informativa. Lunedì prossimo i comitati incontreranno Giampaolo Rossi, amministratore delegato della Rai. La campagna di comunicazione deve cominciare in tempo utile per consentire anche agli elettori di comunicare entro 35 giorni prima dell’apertura dei seggi, la volontà di votare in un comune e diverso da quello di residenza. «Sono tutte cose che non sono tecniche – nota Magi – sono il modo con cui si neutralizza la volontà popolare e pensare che questo è il governo che vorrebbe esaltarla per far eleggere direttamente il presidente del Consiglio ma poi hanno paura del voto referendario».

 

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Tregua riarmata I funzionari del Cremlino intanto fanno la voce grossa: nessuna restituzione territoriale e no ai peacekeeper europei

La conferenza stampa congiunta del presidente russo Putin e quello della Bielorussia Lukashenko foto Ansa La conferenza stampa congiunta del presidente russo Putin e quello della Bielorussia Lukashenko – Ansa

«L’idea del cessate il fuoco in sé è corretta e certamente la sosteniamo, ma ci sono questioni che dobbiamo discutere». Come era prevedibile Vladimir Putin non ha chiuso la porta al piano proposto dagli Usa e sottoscritto da Kiev a Gedda per un’interruzione temporanea delle ostilità in Ucraina. Tuttavia, nella conferenza stampa congiunta con il presidente bielorusso Lukashenko a Mosca, e prima dell’incontro con l’emissario di Washington Steve Witkoff (atterrato nella capitale russa in mattinata), il capo di stato ha chiarito che la Russia è interessata a una soluzione definitiva del conflitto. Un verdetto sibillino che ha lasciato il dubbio sulle reali intenzioni di Putin e che, tuttavia, Donald Trump ha voluto interpretare con ottimismo. «Sono parole promettenti, ma non completamente» ha dichiarato il tycoon ai giornalisti, aggiungendo che se il Cremlino non dovesse accettare «sarebbe molto deludente per il mondo».

«SIAMO D’ACCORDO con le proposte di cessazione delle ostilità» ha chiarito Putin davanti a un muro di bandiere russe e bielorusse, «ma partiamo dalla posizione che questa cessazione dovrebbe portare a una pace a lungo termine ed eliminare le cause della crisi attuale». Il presidente ha inoltre lasciato intendere che ogni decisione definitiva sarà presa solo dopo aver parlato direttamente con l’inquilino della Casa bianca, forse al telefono. È degno di nota che dopo 3 anni di accuse e insulti dalla distanza, ora per il Cremlino gli Usa siano diventati «i colleghi e partner americani». I dossier aperti sono molti e Putin ne ha citato solo uno, pratico ma fondamentale, a titolo di esempio: «Sorgono questioni relative al monitoraggio e alla verifica» del mantenimento del cessate il fuoco lungo una linea del fronte lunga quasi 2000 chilometri.

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Ci hanno pensato i suoi fedelissimi a chiarire gli altri punti dirimenti. Il consigliere per la politica estera Yuri Ushakov, citato da Interfax, ha dichiarato prima dell’incontro del capo con Witkoff che una risposta negativa fosse «più probabile» in quanto il piano Usa «non è altro che una tregua temporanea per l’esercito ucraino» laddove la Russia invece vuole «un accordo di pace a lungo termine». Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha invece parlato dell’impossibilità di restituire i territori occupati a Kiev. «La Crimea, Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk sono regioni della Federazione Russa, come è scritto nella Costituzione russa, e questo è un dato di fatto».

Secondo Reuters, i funzionari di Putin avrebbero consegnato agli Usa una lista di richieste per chiudere la guerra, tra le quali figurano anche il riconoscimento della Crimea e degli altri territori occupati, ma Peskov non ha voluto rilasciare commenti a riguardo. La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha invece chiarito che l’eventuale dispiegamento di un contingente di pace occidentale in Ucraina per il suo governo resta «assolutamente inaccettabile» in quanto sarebbe considerato come «il coinvolgimento di questi paesi in un conflitto fisico diretto» e ciò provocherebbe una risposta «con tutti i mezzi a disposizione».

SE DA UN LATO Donald Trump ha fatto mostra di non aver colto questi distinguo, è però stato costretto a premunirsi in caso di smacco. «Ho delle leve che potrei utilizzare per mettergli pressione ma per ora preferisco non parlarne, stiamo parlando con lui e le dichiarazioni che ha fatto oggi sono state piuttosto positive». Il presidente ha accolto l’invito a parlarsi di Putin e ha rilanciato sul fatto che gli «piacerebbe incontrare» il suo omologo russo. Tuttavia, è evidente che sullo sfondo c’è l’eventualità che gli Usa impongano delle sanzioni molto dure alla Russia e l’incremento, magari in modo massiccio, del sostegno militare all’Ucraina. Si tratterebbe dell’attuazione del piano b previsto dalla strategia elaborata da Kellogg e Waltz durante la campagna elettorale statunitense, anche se Kellogg è stato estromesso dalle trattative in quanto inviso al Cremlino, per essere «troppo filo-ucraino».

Al segretario della Nato che poco dopo è entrato nello Studio ovale il tycoon ha assicurato che gli Usa vigileranno affinché la Russia non attacchi gli alleati del Patto atlantico, ma comunque «non penso che ciò accadrà». Sulla Nato il capo di stato ha, come suo solito, ribadito che Washington ne è il principale finanziatore – «Alla Nato sono arrivati 600 miliardi di dollari da quando sono presidente» – ma stavolta non è stato critico, arrivando a dichiarare che è ora di «rafforzare e ringiovanire» l’alleanza.

PER L’UCRAINA la reazione alle parole di Putin non poteva che essere dura. «Abbiamo tutti sentito dalla Russia parole molto prevedibili e molto manipolative da parte di Putin in risposta all’idea del silenzio sul fronte: in realtà, sta preparando un rifiuto fin da ora ma ha paura di dirlo a Trump» ha dichiarato Zelensky. Tuttavia, Kiev in questo momento deve anche occuparsi dei problemi nel Kursk. Per Peskov siamo «nella fase finale dell’operazione per il liberare il territorio del Kursk». Ieri il ministero della Difesa di Mosca ha annunciato la liberazione totale di Sudzha, il principale centro dell’area occupata dagli ucraini lo scorso agosto. «A causa del peggioramento della situazione operativa nella regione e dei continui bombardamenti, è stato deciso di effettuare l’evacuazione obbligatoria della popolazione di 8 località» della confinante regione ucraina di Sumy, hanno scritto le autorità militari di Kiev.

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Reparti pediatrici come bersagli, embrioni e ovuli non fecondati distrutti, donne costrette a partorire come nel Medioevo o uccise dai cecchini mentre vanno in ospedale. E stupri come arma di guerra. Gli «atti genocidari» di Israele a Gaza secondo l’ultimo rapporto Onu

Medio OrientViolenze sessuali, riproduttive e di genere finalizzate a eliminare fisicamente i palestinesi. L’ultimo rapporto Onu inchioda Israele

La Striscia degli orrori. «Atti genocidari» su donne e bambini

 

Israele ha trasformato Gaza in una terra degli orrori per le donne palestinesi, un luogo in cui si partorisce con i video tutorial, dove non ci sono medicine per il cesareo, in cui le cliniche per la fertilità sono state distrutte di proposito, insieme a embrioni e ovuli non ancora fecondati.
Il rapporto della Commissione internazionale e indipendente d’inchiesta sul territorio palestinese occupato giudica Tel Aviv responsabile di crimini efferati, feroci, «atti genocidari» calcolati per «provocare la distruzione fisica dei palestinesi». Violenze sessuali, riproduttive e di genere, riconosciuti come i peggiori crimini dallo Statuto di Roma, il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale.

LE CONCLUSIONI della commissione si basano sulle testimonianze delle vittime, sull’analisi dei filmati girati da palestinesi, di quelli condivisi sui social dai soldati israeliani e sulle informazioni fornite dalle associazioni della società civile che si occupano di diritti delle donne. Il 33% di tutte le vittime palestinesi registrate a Gaza dal 7 ottobre 2023 a gennaio 2025 sono di sesso femminile, adulte o bambine. Come Nahida e Samar Anton, madre e figlia ammazzate dai cecchini israeliani mentre provavano a raggiungere il bagno. O come la donna incinta, di cui non si conosce nemmeno l’identità, a cui i soldati hanno sparato mentre tentava di entrare nell’ospedale Al-Awda. O come la piccola Hind Rajab, le sue cugine e sua zia, uccise da quello che la commissione ha descritto come un attacco deliberato dei carri armati.

«Più di quanto un essere umano possa sopportare». È questo il titolo del rapporto conclusivo del lavoro del gruppo istituito nel 2021 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Gli attacchi diretti ai reparti di maternità dei pochi ospedali che erano ancora rimasti attivi a Gaza hanno reso la gravidanza e il parto estremamente pericolosi. Tra il 7 ottobre e il 23 dicembre 2023, l’ospedale Al-Awda ha assistito 15.577 pazienti ostetrici, pur avendo solo 75 letti disponibili. La distruzione intenzionale della più grande clinica per la fertilità della Striscia, che serviva 2.000-3.000 pazienti ogni mese ha causato la perdita di tutto il materiale conservato.

«DARE ALLA LUCE A GAZA è come partorire nel Medioevo», scrive la commissione. Non c’è accesso

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