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Intervista. L’ex ministero Edo Ronchi: «Servono nuove competenze per la transizione ecologica»

 

«È una sfida entusiasmante, l’orizzonte di nuovo tipo di sviluppo. Ed è un orizzonte reale: quando mai abbiamo avuto un’occasione così?». Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente dei governi Prodi e D’Alema, ora presidente della Fondazione Sviluppo sostenibile, con la creazione del super-ministero della Transizione ecologica vede profilarsi la possibilità di una svolta nella politica ambientale italiana. Con la sfida climatica che conquista uno dei primi posti nell’agenda di Palazzo Chigi. «Grillo ha dato una scossa: vediamo se alle parole seguiranno i fatti. Nel governo Conte il tema in effetti era passato un po’ sotto tono».

Ronchi, finalmente il ministero dell’Ambiente non sarà più la Cenerentola della politica?
È vero che il ministero dell’Ambiente è sempre stato considerato di secondo ordine. Ora si profilano grandi cambiamenti, ma tutti da verificare.

Il super-ministero della Transizione ecologica unificherà le funzioni del ministero dell’Ambiente e di quello dello Sviluppo economico. Secondo lei è opportuno questo accentramento di funzioni?
Il Next generation Eu si basa su alcuni pilastri fondamentali, come quello della neutralità climatica. Ora, l’impegno sul clima richiede un adeguamento trasversale di competenze e di politiche che riguardano l’energia, la mobilità, i cicli di produzione e di consumo, insieme con la conservazione del capitale naturale, dei servizi ecosistemici, un nuovo modo di fare agricoltura, il risanamento e re-inverdimento delle città. Si tratta della modifica del sistema produttivo nel suo complesso, quindi è bene che, più che un accentramento di funzioni, ci sia la capacità di intercettare e incidere su varie attività anche con lo scopo di creare nuova occupazione.

Su quella poltrona vede meglio un politico o un tecnico?
Deve essere una persona competente, con una visione adeguata.

L’Unione europea fa sul serio con la politica del Green Deal?
Sembra di sì. E il Next generation Eu serve in parte a finanziarlo. Non dimentichiamoci che il 37% dei 210 miliardi destinati all’Italia, cioè 78 miliardi, devono essere destinati alla sfida climatica. Sono finanziamenti aggiuntivi che non pesano tutti sul bilancio nazionale, un grande piano di investimento pubblico che darà anche nuove prospettive alle imprese. Del resto gli obiettivi di decarbonizzazione impongono all’Italia la revisione delle sue politiche energetiche. Non so come mai nessuno ne parla, ma noi siamo co-organizzatori della COP 26 che si terrà a Glasgow il prossimo novembre: ci dovremo arrivare con le carte in regola allineando gli obiettivi di decarbonizzazione ai nuovi target fissati dall’Europa. In sostanza, si tratta di riscrivere il Piano Nazionale Energia e Clima. Sarà uno dei primi impegni del nuovo super-ministero.

Questa attenzione all’ambiente era impensabile con le politiche di austerity che abbiamo vissuto negli utili anni…
In effetti, una svolta così netta non l’avevamo ancora vista. Del resto, Draghi conosce l’Europa e sa dove sta andando.

In questa svolta, qual è il ruolo della società civile?
Il movimento dei giovani che sono scesi in piazza a segnalare il disimpegno della politica sull’ambiente ora ha un interlocutore. Certo, se in Italia ci fosse un forte partito verde, alla tedesca, sarebbe meglio. Anche il livello di attenzione sulle questioni ambientali da parte della stampa, è insolitamente alto.

Ci sono infinite sfumature di verde per incamminarsi nella Transizione ecologica. A cosa dobbiamo stare attenti?
Le sfumature sono una ricchezza, ogni forma di pensiero ecologista è chiamato a dare un contributo, come ha scritto Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Sì. Semmai, dobbiamo preoccuparci dell’operatività di questa struttura: il cambiamento che ci aspetta è molto complesso e non possiamo limitarci a fare annunci.

Sarà la Commissione Europea a vigilare su come vengono impegnati i fondi, la strada è obbligata?
Proprio ieri sono state pubblicate le linee guida su come utilizzare i fondi. Sono indicazioni che non si possono by-passare. Il Next generation Eu è un progetto molto condizionato, direi più del Mes. Se fai ricevi i soldi, altrimenti niente. Sarà creata una task-force ad hoc. È un progetto troppo importante per essere lasciato al caso.

Vista dal suo osservatorio, in Italia ci sono competenze all’altezza della sfida?
Sì, le potenzialità ci sono: abbiamo giovani molto preparati nelle università e personale qualificato nelle aziende. Ci sono anche molti giovani che hanno fatto esperienza di vita e di lavoro all’estero e quindi sono del tutto idonei per essere valorizzati.

L’Italia è già incamminata verso la Transizione ecologica o partiamo da zero?
Non partiamo certo da zero. Nel settore della green-economy ci sono alti e bassi, come del resto in tutta Italia. Abbiamo esperienze molto avanzate accanto a sacche di inefficienza. Siamo bravi nel riciclo, nelle rinnovabili, siamo leader nella chimica verde, abbiamo recuperato bene nella mobilità condivisa. Dovremo puntare di più sulla rigenerazione urbana, un settore su cui l’Europa insiste molto.

La Transizione ecologica sarà un volano anche per lo sviluppo del Sud?
Il Sud può contare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, ma deve anche superare i suoi fattori limitanti, come l’annosa difficoltà di attivare i giovani e le donne.

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Basta con le azioni di retroguardia, Draghi obbliga i partiti a cambiare, oppure a diventare irrilevanti

di Alfiero Grandi su www.jobsnews del 07/02/2021

Quando il quadro cambia repentinamente le vecchie immagini restano impresse e si sovrappongono per un periodo. L’incarico a Draghi di formare il nuovo governo ricorda questi inganni dell’ottica, i giudizi e i comportamenti sembrano attardarsi sul fotogramma precedente anche se si fanno largo le nuove immagini. Una valutazione compiuta ha bisogno che il percorso avviato con l’incarico del Presidente Mattarella a Mario Draghi si concluda con la formazione del nuovo governo e il voto in parlamento. Tuttavia qualche considerazione è già possibile. La ricerca spasmodica, oltre il ragionevole, di nuovi soggetti (voti) per compensare il venire meno di Italia Viva ha fatto velo su alcuni passaggi. La ricerca dei costruttori/responsabili ha mostrato la sua impercorribilità con quel senatore Vitali che aveva dichiarato la sera che avrebbe sostenuto il governo e che al mattino si è rimangiato tutto su richiesta di Berlusconi. Questo episodio si commenta da solo, ma ha ammonito chiaramente che la ricerca spasmodica di sostituire i voti di Italia Viva stava costando troppo in termini di credibilità del resto della coalizione, che era evidentemente in panne.
Ripescare Italia Viva? Al di là del giudizio (pessimo) sui comportamenti di Renzi era del tutto evidente che il senatore di Rignano puntava solo alla crisi del governo Conte e all’esplosione del Pd e del M5Stelle, il resto era dissimulazione. Cercare di ricucire con Italia Viva è stato un esercizio inutile che ha esaltato le corde peggiori di questo piccolo partito di corsari, ma ha indebolito notevolmente gli altri componenti della coalizione. L’aspetto più imperdonabile è che pur di fare rientrare Italia Viva non solo sono state fatte delle concessioni politiche del tutto inutili, anziché denunciare con forza l’attacco irresponsabile al governo e a farlo cadere, ma soprattutto è stata messa la sordina all’incontro di Renzi con il despota saudita, responsabile di delitti e a cui poche ore dopo Biden ha negato la vendita di armi per lo sterminio della popolazione dello Yemen. Interessa poco che prendere soldi da un simile figuro sia o no perseguibile quando riguarda un senatore in carica che rappresenta – come afferma la Costituzione – la (nostra) Repubblica. Certamente è da condannare e il resto della coalizione avrebbe dovuto fare di questo un punto politico di fondo, di denuncia politica, di distinzione. Invece è toccato ad altri (pochini purtroppo) tenere alto l’onore del nostro paese. Una vergogna è tale chiunque ne sia responsabile e va denunciata, se poi cade il governo vuol dire che non aveva le condizioni etiche minime per proseguire. Questi silenzi e questi errori hanno permesso a Renzi di presentarsi come quello che ha voluto la crisi per aprire la strada a Draghi. Non è così, è una verità di comodo. Gli errori altrui ci sono tutti ma malgrado questo è sua la responsabilità della crisi di governo, senza soluzioni alternative possibili, se non quella indicata dal Presidente della Repubblica.
Il Presidente ha preso atto che la vecchia maggioranza non poteva essere ricomposta e che non c’è in parlamento una maggioranza alternativa e quindi ha correttamente avvertito tutti che o si prendono la responsabilità di andare ad elezioni anticipate subito con un paese in piena pandemia e nel mezzo di una crisi sociale ed economica gravissima, con i fondi europei da utilizzare entro tempi stretti, oppure l’unica strada è un governo Draghi che supera gli schemi precedenti maggioranza/opposizione. Le previsioni sono sempre difficili ma credo che il governo Draghi alla fine riuscirà ad avere una maggioranza larga, del resto i riposizionamenti avvengono con rapidità senza troppi riguardi per quello che era stato detto (ecco i fotogrammi vecchi) solo poche ore prima. Difficile capire perché ci sia chi si attarda ad esempio a cercare di tenere fuori la Lega. Sulla Lega c’è poco da dire, si tratta di un partito

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Ma io dico: meglio tutti che Ursula

di Stefano Fassina da “il Manifesto” del  07.02.2021

Esecutivo di scopo. Insistere sulla cosiddetta «maggioranza Ursula» sarebbe un grave errore politico. Contraddirebbe la natura dell’incarico arrivato autonomamente dal Colle a Draghi. Brucerebbe le preziose potenzialità di una figura super partes.
«Draghi è il frutto del vuoto della politica, non la causa. Dobbiamo guardare alla debolezza complessiva del sistema democratico. Condivido l’invito di Azzariti su queste pagine. Le cause dell’emergenza democratica, intrecciata all’emergenza sanitaria e sociale, sono molteplici. Tra le prime c’è, ritengo, la totale delegittimazione dell’avversario come tratto di identità dei principali partiti e movimenti politici italiani. Può funzionare un sistema democratico con tali protagonisti?
È forse questa una delle ragioni per il nostro primato di governi tecnici negli ultimi 30 anni (esemplari politico-istituzionali sconosciuti in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, …)? Un Governo del Presidente, affidato ad una personalità come Mario Draghi, potrebbe essere l’occasione per compiere qualche passo verso la legittimazione reciproca?
Potrebbe aiutare a definire una condivisione bipartisan, affrancata dall’europeismo liberista e dall’anti-europeismo, della collocazione europea dell’Italia? La risposta istintiva per noi è: No. Perché? Facile. Perché loro, Lega e FdI, sono «anti-europei, xenofobi e illiberali» (versione Pd del colloquiale «fascisti»). Sono «sovranisti». Punto. Però, «loro» mietono un consenso sempre più largo di popolo, classi medie spiaggiate e élite.
Ora governano 14 Regioni e da lustri le aree più ricche del Paese. Qualche domanda rimane. La Lega-Salvini segue i suoi intellettuali di punta, molto visibili sui social, oppure le sue constituencies imprenditoriali padane? A dicembre 2018, nella fase di massima potenza del blocco «populista» al governo, non abbiamo visto la resa della Lega Salvini alla Commissione europea sullo «scandaloso» deficit di bilancio al 2,4%? Ora, perché apre al Governo Draghi? Per la leader di FdI è più complicato: insiste a definirsi europeista per un’Unione confederale.
Bluffa? Proviamo comunque a entrare nel merito. L’europeismo confederale sarebbe una declinazione

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Scenari. Il tentativo della destra di riaccreditarsi, pronta a entrare nel nuovo governo va respinto non i nome del perimetro «Ursula», ma sulle scelte di programma e di senso del bene pubblico

Tutto si può dire del governo Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti, nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno più inciso nella vita materiale del paese – vedi per esempio le pensioni – e quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale. 
È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il «pilota automatico», un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.
L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale

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Draghi, Renzi e la dittatura del mercato

di Tomaso Montanari da "volerelaluna.it" 04/02/2021

La sensazione è quella di scivolare su un piano inclinato: dal male (un male senza alternative migliori) del governo Conte al peggio del possibile governo Draghi, al pessimo di un governo Salvini-Meloni, che sembra ora ancor più inevitabile.
Matteo Renzi c’è riuscito di nuovo. Prima con Letta, adesso con Conte: attraverso crisi extraparlamentari strozzatesi nelle ovattate stanze del Quirinale, ha ucciso due governi che avrebbe dovuto lealmente sostenere. Nel primo caso per fatto personale (l’ascesa alla presidenza del Consiglio), in questo anche (per riacquistare un qualche credito agli occhi dell’establishment internazionale). E in entrambi con la stessa disinteressata dedizione agli interessi del Paese che è apparsa nel mostruoso episodio saudita (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/02/01/matteo-renzi-e-il-rinascimento-saudita/): che da solo sarebbe bastato a porre fine a a qualunque carriera politica, in un paese civile.
Renzi, dunque, trionfa: umiliando tutti (a partire dal Parlamento) e presentandosi a fianco di Mattarella come il salvatore della patria. Un gioco di sponda che, spiace dirlo, ingenera qualche dubbio anche sul ruolo del presidente della Repubblica: specie per il singolare discorso con cui questi ha escluso tassativamente la possibilità di andare ora ad elezioni. Un orientamento che Renzi forse non ignorava, come invece, evidentemente, lo ignoravano i vertici del Pd: i quali, inducendo Conte a dimettersi laddove non era affatto necessario, ne hanno servito a Renzi la testa su un piatto d’argento.
Se Renzi è il grande elettore di Draghi, cosa faranno gli altri? La Lega ha un duplice interesse a permettere che questo governo nasca: prima astenendosi (e così rivelandosi determinante, e apparendo affidabile a mercati e poteri internazionali – «Salvini ha una grande opportunità – ha subito twittato il direttore di Repubblica Maurizio Molinari – il sostegno a Draghi gli consentirebbe di avere la legittimità europea che gli manca»), e poi intercettando la protesta sociale che l’azione di Draghi provocherà. Il Pd è nella situazione peggiore: il suo profilo moderato e “responsabile” gli rende difficile sfilarsi, ma il rischio che Renzi se lo riprenda, svegliando le quinte colonne dormienti, è ora concretissimo. Il Movimento 5 Stelle ha invece la sua grande occasione per tornare a un ruolo antisistema, recuperando un po’ di quella presa che sembrava ormai irrimediabilmente perduta: se dice di no a Draghi,

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Draghi. A destra e a sinistra i suoi supporter si affannano a leggerne la biografia nel modo più congeniale a giustificarne l’appoggio. Uomo di Goldman Sachs, o allievo di Federico Caffè?

Mario Draghi va alla grande perlomeno fra i media dell’establishment italiano e, pare, anche europeo. Si invoca la responsabilità nazionale in nome del contrasto alla pandemia e per prendere e spendere i soldi del Recovery.

La destra per ora non prende una posizione netta. Incassa unita come una propria vittoria la caduta di Conte.

I 5Stelle sono divisi, al limite della scissione. Ma la varietà dei toni sull’avvento di Draghi- dal cauto all’entusiasmo a stento trattenuto, testimoniano che non è poi tanto unito nemmeno il Pd.

Del resto sulle divisioni nel Pd e nei 5Stelle aveva giocato spregiudicatamente Renzi, convinto che la crisi dei suoi principali ex alleati di governo lo può di nuovo rendere credibile come il Macron italiano. Che il progetto sia una illusione da megalomane è indubbio, ma su quello è riuscito a tenere insieme i suoi sciagurati sodali di Italia Viva nella sua azione distruttrice.

Del resto appare sempre più chiaro che è stato proprio Conte, oggi rimosso, ad avere tenuto in piedi bene o male l’unità e un minimo di respiro programmatico negli scombinati vascelli del Pd e dei 5Stelle.

Ora c’è Draghi. E a destra e a sinistra i suoi supporter si affannano a leggerne la biografia nel modo più congeniale a giustificarne l’appoggio.

Uomo delle grandi istituzioni finanziarie e della Goldman Sachs, o allievo prediletto di Federico Caffè, come molti a sinistra hanno riscoperto dopo il suo articolo sul Financial Times dell’anno scorso.

Leggi gli articoli di Federico Caffè dall’archivio storico del manifesto

Credo che più che scavare la sua biografia servirebbe porgli alcune semplici domande sui lavori incorso.

  • Estenderà o no oltre marzo il blocco dei licenziamenti e prolungherà i termini della cassa integrazione Covid?
  • Riprenderà il percorso iniziato dalla ministra Catalfo coi sindacati per una riforma in senso universalista degli ammortizzatori sociale?
  • Manterrà gli strumenti di sostegno alle persone cadute in miseria durante la pandemia, e prima della pandemia, dal momento che il nostro Paese non si è davvero ripreso nemmeno dalla crisi del 2008?
  • Eviterà gli aiuti a pioggia alle imprese o li vincolerà rigorosamente alla transizione digitale e verde, e all’obbligo di formare tutti i lavoratori, come del resto ci chiede l’Europa?
  • Collegherà i finanziamenti alla scuola, alla cultura, alla sanità alla loro natura di diritti universali di cittadinanza, o resterà nella logica perversa della aziendalizzazione e del mercato che ha portato grandi danni alla nostra salute, con lo smantellamento della sanità territoriale e della prevenzione, e sulla nostra stessa possibilità di accedere ai beni primari della istruzione e della cultura?
  • Privilegerà gli investimenti per ricucire un territorio sconvolto, per rimettere in relazione col mondo in maniera fisica e virtuale le nostre aree interne, a partire dal Mezzogiorno, o si accoderà alla retorica esclusiva ed escludente delle grandi opere?
  • Penserà come tanti anche a sinistra che la decarbonizzazione si fa col metano o imboccherà con decisione la strada delle energie rinnovabili e dell’idrogeno verde?

E potrei di queste domande continuare a farne tante altre, a partire da quelle riguardanti i diritti civili e il contrasto al patriarcato e alla violenza fisica e morale nei confronti delle donne, se sapessi chi dentro la politica, è credibilmente in grado di fargliele.

Credo che queste domande debbano partire da quanto è vivo e impegnato nella società.

Dal sindacato prima di tutto, riprendendo con decisione le domande che del resto a aveva messo in campo a proposito del Recovery di Conte. E poi dal vasto mondo dell’associazionismo culturale, sociale e ambientale, a partire dalle organizzazioni femministe e dai ragazzi del venerdì che mi auguro riprendano rapidamente la parola.

Del resto questo vasto mondo qualche successo nell’ultima fase del governo Conte l’aveva portato a casa.

Un fronte vasto da slow food, a la via campesina, a Greenpeace, alle associazioni dei contadini biologici, avevano ottenuto che la Commissione Agricoltura della Camera bocciasse i decreti della ministra Bellanova che in maniera surrettizia reintroducevano l’uso degli Ogm nella nostra agricoltura.

  • Draghi confermerà questo indirizzo, e tutelerà che lo segua il nuovo Ministro dell’Agricoltura?

E un fronte ancora più vasto, a partire dalla rete Pace e Disarmo, ha visto il successo di una mobilitazione pluriennale per bloccare l’esportazione verso l’Arabia Saudita delle armi che stanno martoriando la popolazione dello Yemen.

  • Draghi si muoverà dentro questa linea, magari bloccando l’esportazione di armi anche verso l’Egitto e cominciando a lavorare seriamente alla riconversione della nostra industria bellica, o deciderà, come hanno fatto da sempre i governanti italiani, che “gli affari sono affari, e che se non gliele vendiamo noi gliele vende qualcun altro”?

Ecco queste sono le domande che mi auguro che i sindacati, l’associazionismo impegnato sul fronte dell’ambiente e della pace, rivolgano, anche in maniera un po’ rumorosa, al Presidente incaricato.

Scomode perché non sono possibili risposte unanimi, ma sacrosante perché una eventuale unanimità che metta in ombre queste questioni segnerebbe non una pausa del conflitto politico in attesa di tempi migliori, ma una intollerabile regressione.

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