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Tempi di Draghi

da "Volerelaluna.it"  5 febbraio 2021

di Domenico Gallo

L’annuncio del Presidente Mattarella di aver conferito a Mario Draghi l’incarico di formare un nuovo governo sulle ceneri del Conte bis disfatto da Renzi, è stato accolto con esultanza dai principali mass media che, fin dalla nascita del governo giallo-rosso, si sono messi di traverso e negli ultimi sei mesi hanno condotto una campagna sempre più intensa per screditare l’azione del Governo e l’alleanza politica che ne era alla base. Esultanza condivisa dai mercati finanziari che hanno celebrato l’annunzio con una fiammata dei listini. A questo entusiasmo fanno da contraltare le voci che rimarcano il ruolo di vestale dell’ortodossia neoliberista svolto in passato da Draghi ed eccepiscono che il pilota automatico ha sostituito la Costituzione (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/29/draghi-lupi-faine-e-sciacalli/).
Quali che siano i meriti o i demeriti, le virtù e le capacità del personaggio, noi, che non crediamo nell’uomo della Provvidenza, non possiamo non osservare con malinconia che l’operazione di calare un deus ex machina per risolvere l’incapacità del Parlamento di dar vita a una maggioranza politica e a un governo capace di governare, certifica il “commissariamento” delle istituzioni politiche rappresentative. Questa situazione nasce da una crisi profonda della politica. Come ha osservato Massimo Villone (il manifesto del 4 gennaio): «i mali di oggi vengono da una pessima legge elettorale che ha generato un Parlamento senza qualità, e soprattutto ha consentito a Renzi di portare nelle assemblee i suoi pretoriani e di avere così un peso che non ha nel paese» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/02/04/proporzionale-e-meglio/).
Se non c’è da esultare per l’esito della crisi di governo, ci sono però degli aspetti positivi che devono essere valutati.
Il primo e più importante è che l’insediamento di un Governo Draghi scongiura il ricorso anticipato alle urne che in questo momento sarebbe esiziale per il nostro Paese. Il Presidente Mattarella nel suo messaggio ha spiegato i gravissimi inconvenienti che deriverebbero da una paralisi di quattro-cinque mesi dell’attività di governo mentre dobbiamo affrontare il passaggio cruciale della pandemia e del Recovery plan.
Ma ci sono altri motivi altrettanto importanti.

L’attuale legge elettorale (il Rosatellum adattato al taglio dei parlamentari) non assicura il rispetto della volontà popolare poiché con il 35-40% dei voti il centrodestra otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi, si assicurerebbe

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Il martedì nero in cui cade Conte e arriva l’uomo forte

Crisi di sistema. In questo stato d’eccezione in cui pandemia sanitaria e follia politica ci hanno gettato, sovrana si rivela, la potenza del Denaro, nella forma dei suoi sacerdoti e gestori. Nel 2012 salva l’Euro (whatever it takes) e tiene a battesimo il compact fiscal. Nel luglio 2015 non si farà scrupolo di spingere sott’acqua la Grecia di Alexis Tsipras.

Marco Revelli  su “il Manifesto” del  05.02.2021

Una data da segnare nigro lapillo per almeno due buone ragioni. In primo luogo perché in quelle poche ore che passano tra il prolungamento ormai stucchevole del tavolo e la resa di Fico, è stato inferto un colpo mortale alla politica. Non a un governo, o a una coalizione già di per se stessa boccheggiante, ma alla politica tout court. È stato certificato il dissolvimento di tutti i suoi linguaggi, divenuti via via privi di senso di fronte ai capovolgimenti e alle triple verità, e insieme il fallimento di tutti i suoi protagonisti, di maggioranza e di opposizione, incapaci di uscire dal labirinto nel quale un pirata politico senza scrupoli come Matteo Renzi li aveva cacciati, annunciandone il commissariamento da parte di un “uomo di Banca” quale Mario Draghi nella sua sostanza è. Se è vero l’assunto che nello “stato d’eccezione” si rivela il vero Sovrano, ebbene in questo drammatico stato d’eccezione in cui pandemia sanitaria e follia politica ci hanno gettato, Sovrana si rivela, infine, la potenza del Denaro, nella forma antropizzata dei suoi sacerdoti e gestori.
Ma c’è una seconda ragione per considerare foriera di sciagure la giornata del 2 di febbraio: ed è che quella sera si è aperto un vaso di Pandora. Si è messa in moto una reazione a catena che forse già nell’immediato ma sicuramente nel tempo medio è destinata a colpire al cuore (quasi) tutte le forze politiche che compongono il già ampiamente lesionato sistema politico italiano. Tutte fragili, attraversate da un reticolo di fratture, di contrasti personali, di conflitti di piccoli gruppi e comitati d’affari, nessuna saldata da una qualche cultura politica forte capace di prevalere sui personalismi, a cui il gioco al massacro inaugurato dal demolitore di Rignano ha impresso un’accelerazione folle, senza freno né direzione, innescando una potenziale esplosione centrifuga di ognuna.

Dei 5Stelle di certo, a cui l’onda di piena crescente aveva portato un patrimonio elettorale enorme e un personale politico raccogliticcio, destinato oggi a disperdersi con la fase calante. Ma anche il Pd, il cui arcipelago di frazioni teneva insieme con lo sputo, pieno com’era delle mine vaganti disseminate da Renzi al suo interno, ma in cui l’ultimo azzardo del suo ex segretario non potrà che rinfocolare ripicche e rancori vecchi e nuovi. E la Lega stessa non potrà reggere l’urto del cambio di paradigma politico senza vedere le proprie linee di faglia allargarsi, nell’impossibilità di tenere insieme un eventuale sostegno (diretto o indiretto) all’uomo-simbolo dell’ “Europa della Finanza” con la militanza sul fronte del sovranismo etnocentrico. Forse solo Fratelli d’Italia si potrà salvare dal maelstrom restandone ai bordi.
Può darsi che nell’immediato si trovi una qualche formula capace di salvare la faccia ai principali players (una riedizione della maggioranza giallo-rosa a guida Draghi anziché Conte, una “maggioranza Ursula” con dentro anche il caimano)… Ma la tendenza è al generale dissolvimento di ogni possibile quadro politico il che equivale, tecnicamente, a una “crisi di sistema” che potrebbe rivelarsi una voragine nelle urne del 2023.

Così “in alto”. Ma poi c’è “il basso”, quello che si chiama “il Paese”, che è allo stremo: in questi giorni, dum Romae consulitur, ogni ora che passa si perdono 50 posti di lavoro. Per ogni giorno di stallo sono 1200 disoccupati in più. Dalla famosa conferenza stampa di Matteo Renzi in cui annunciava il ritiro delle sue due ministre e apriva in modo corsaro una crisi incomprensibile al giorno della resa di Fico sono trascorsi esattamente 20 giorni (compreso quello in cui il principale responsabile di quello stallo se ne è andato a guadagnare i suoi 80.000 dollari con un atto di asservimento a uno dei peggiori despoti del mondo), nel corso dei quali se ne sono andati 24.000 redditi da lavoro. Milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, sono naufragati: 393.000 contratti a termine non sono stati rinnovati, 440.000 in prevalenza giovani hanno perso il posto, altre centinaia di migliaia lo perderanno se il blocco dei licenziamenti non verrà prolungato. Tutti aspettano una boccata d’ossigeno, i benedetti “ristori”, per poter continuare a respirare. E tuttavia, bene che

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La strada migliore per rendere Renzi irrilevante

La tela del drago. Non c’è dubbio che Draghi possa non piacere. Vediamo i tormenti M5S. Vogliamo solo ricordare che non sbarrare la strada a Draghi è il modo migliore, e forse il solo, per rendere Renzi irrilevante, ora e sperabilmente in futuro
Massimo Villone su “il Manifesto” del 04.02.2021

L’esternazione di Mattarella dopo la rinuncia di Fico ha dato il via a una nuova fase della crisi di governo. È stata una esternazione non rituale, che non ha precedenti, a mia memoria, nella lunga galleria delle crisi. Il Presidente ha inteso spiegare al paese le ragioni di quel che si accingeva a fare con l’incarico a Draghi, e dello scioglimento anticipato che seguirebbe a un suo fallimento.
Mattarella ha elencato le emergenze – sanitaria, economica, sociale – da affrontare con un governo nella pienezza dei poteri, indispensabile altresì per la gestione dei fondi europei. È vero che un governo in carica per il «disbrigo degli affari correnti» – come è al momento l’esecutivo dimissionario – è tecnicamente legittimato ad affrontare una emergenza. Un decreto-legge, e più in generale gli atti indispensabili, si potrebbero adottare.
Ma qui troviamo una questione di sostanza, oltre che di forma. Anche in emergenza governare è scegliere, come è ad esempio evidente nella gestione dei fondi europei. Per questo, è sempre e comunque preferibile avere un governo nella pienezza dei poteri, e politicamente responsabile nei confronti delle assemblee.
Nel primo giro di consultazioni, e poi con l’incarico esplorativo di Fico, è stata chiara la impossibilità di rimettere insieme i cocci della maggioranza giallorossa. Né era pensabile che si tornasse a una maggioranza di segno opposto.
Quindi, con le dimissioni di Conte si chiudeva ogni prospettiva di governi in grado di affrontare con pienezza di poteri le emergenze e le necessità – incontestabili – elencate da Mattarella. Far nascere un Conte ter o rimandare il Conte bis alle Camere non avrebbe superato l’ostacolo del Senato. Anzi, avrebbe potuto andare anche peggio della fiducia del 19 gennaio, se l’astensione dei renziani fosse diventata – cosa probabile – voto contrario. È questa mancanza di alternative che rende costituzionalmente inattaccabile il «governo del presidente».
Diversamente, rimanevano solo le urne a tempi brevissimi.

Non c’è dubbio che la crisi si poteva e si doveva evitare. Non c’è dubbio che sia da addebitare a Renzi, e ci si può solo chiedere se sia dovuta a sue tare caratteriali o alla sotterranea intesa con poteri forti che volevano liberarsi di Conte. Non c’è dubbio che

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La vita di sua madre, le famiglie di braccianti, ma anche scatti evocativi da varie parti del mondo compongono il libro fotografico dell'artista ravennate
                                                              [oltre che in altri luoghi il volume è reperibile a Faenza alla Libreria Bertaccini]



Si intitola “Memory Lane, uno sguardo lungo un secolo” il nuovo libro fotografico del ravennate Maurizio Masotti. Introdotto da un testo di Carla Babini, il volume è un viaggio sul filo della memoria composto da due sezioni distinte, che confluiscono nella narrazione soggettiva della vita dell’autore.

Nella prima parte Masotti ha ricostruito, attraverso un mosaico di foto e documenti, l’esistenza di Anna, sua madre: che a partire dalla fine degli anni ’40 fu responsabile dell'asilo per i figli dei braccianti della Cooperativa di Piangipane.

Alle immagini d’epoca si aggiungono un testo illuminante di Alessandro Luparini (storico e direttore della Biblioteca Oriani di Ravenna) sull’esperienza della Cooperativa braccianti e i ricordi di due ex-allieve di Anna, ovvero Cosetta Selleghini e Claudia Gordini. 

La seconda parte di Memory Lane racconta invece il percorso di Maurizio attraverso una selezione di scatti evocativi di esperienze, viaggi e incontri in varie parti del mondo. Alle immagini si accompagnano testi scritti per lui da Enrico Terrinoni (docente e traduttore di autori, quali ad esempio James Joyce) e dello scrittore Marcello Fois: doni generosi che permettono di allargare l’orizzonte della narrazione. 

Realizzato grazie al contributo della C.A.B. Ter.Ra. di Piangipane, il volume è in vendita a Ravenna alla Libreria Dante in via Diaz e nelle edicole di Piazza del Popolo e via Corrado Ricci; a Faenza alla Bottega Bertaccini, in corso Garibaldi. L’intento, quando la situazione lo permetterà, è quello di effettuarne una prima presentazione pubblica al Teatro Socjale di Piangipane.

Maurizio Masotti è nato a Mezzano, all’interno dello Zuccherificio Eridania. Dopo l’università a Bologna ha viaggiato, lavorato e vissuto in vari Paesi in Europa, America e Africa del Nord. E’ stato curatore e coordinatore di diversi progetti con vari fotografi italiani, fra cui Tracce migranti - Nuovi paesaggi umani. Questo è il suo quarto libro fotografico, dopo Controvento (2011), Overseas, oltremare, altrimari (2015) e before/after brexit (2016).

“La frase abusata “da ora in poi nulla sarà più come prima” – scrive Masotti in chiusura di volume - acquista un significato reale già dai prossimi mesi: gli eventi ultimi – guerre a media intensità / migrazioni lontane e vicine / pandemia non solo virale - richiedono ancora una volta una scelta di campo.

Alti sono i rischi che di fronte a situazioni difficili ed estreme come quelle di oggi prevalga lo status quo e si chiudano i (pochi) spazi che abbiamo cercato di tenere aperti per un miglioramento delle condizioni sociali di milioni di individui. Dipende anche da noi evitare che il sipario si chiuda definitivamente. Proviamoci assieme”.

 

 
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Pci 100 anni. Quel partito fu «una scuola di cittadinanza», «una risorsa democratica nei momenti bui della Repubblica». È stato bello crederci ma ora, ci dicono, è finita l’illusione

 

La ricorrenza dei cento anni dalla fondazione del partito comunista italiano è stata un’occasione rivelatrice, va detto, per come in tanti hanno in realtà celebrato la fine, non l’inizio, di quel partito (il 3 febbraio saranno 30 anni). Con quel senso che è un misto di sollievo e ricordo di un’esperienza difficile che, alla fine dei conti, è stato un bene per tutti che ci siamo lasciati alle spalle. Anche i più ben disposti – parliamo degli opinionisti e dei commentatori, i politici hanno altro a cui pensare – lo hanno fatto con lo stesso sentimento con il quale si guarda alle fotografie seppiate dei braccianti in rivolta, come per dire «guarda quanto eravamo illusi, con quella miseria nelle facce». È stato bello crederci, ci è stato detto, ora è finalmente finita l’illusione. Sì, quel partito fu «una scuola di alfabetizzazione e di cittadinanza», «una palestra di resistenza al fascismo», «una risorsa democratica nei momenti bui della Repubblica», «una comunità di ideali». Ma quanta condiscendenza!

Certo, la politica ha i suoi tempi e obiettivi, la politica è gestione del concreto, nel quotidiano delle scelte che vanno fatte, al governo come all’opposizione. E qui invece parliamo di storia e, come ci ricordava Susan Sontag, «non c’è nessuno che seriamente pensi che la storia possa prendere la politica sul serio» (e viceversa). Eppure, qui parliamo di una storia che, in barba agli epitaffi e alle ricorrenze, non è mai finita.

Il comunismo – questo giornale ne sa qualcosa, con l’occhiello che reca – nacque e visse come prospettiva di rovesciamento definitivo di una condizione di oppressione di una classe – quella operaia, che abbracciava tutte le altre – che era stata subalterna per secoli, da sempre, anche quando era semplicemente formata da lavoratori che non avevano altra ricchezza se non le proprie braccia, la forza-lavoro.

Furono pensatori, filosofi, intellettuali, non politici, che ci ruminarono sopra e fu quel sommovimento che diede luogo alla rivoluzione francese che diede il là ai Michelet, ai France, ai Babeuf, ai Saint Simon, ai Fourier, agli Owen, finché arrivò il giovane Karl Marx con il suo «18 brumaio» e poi, con l’ancora più giovane Friedrich Engels, con il loro «Manifesto». Che non fu una “pensata” estemporanea, ma voleva dare senso politico ai movimenti operai che già reclamavano diritti e salari dignitosi nei paesi del capitalismo nascente. Lo spettro che si allora aggirava per l’Europa ha poi cambiato facce, si è fatto più maturo, divenne persino cosa concreta con la rivoluzione dei soviet. Si erse a vessillo per gli oppressi di tutto il mondo, degenerò, riapparve in altre spoglie con il Grande timoniere, con Ho Chi Minh, con Che Guevara. Senza mai smettere di spaventare le borghesie capitaliste di tutto il mondo.

E non smise mai di essere fucina di pensieri, divergenti, ribollenti. Quanto fu importante il movimento comunista, e la riflessione dei suoi intellettuali nel mondo, per l’emancipazione degli oppressi, anche quando Stalin prese la via autocratica che porterà ai gulag. Quando Togliatti tornò in Italia per affermare «la via italiana al socialismo» aveva in mente già un’altra cosa, ma con un obiettivo simile (l’emancipazione delle classi subalterne). Questo fece il Pci: aspirare al socialismo lottando per la democrazia progressiva. E quanto fu capace, quel partito, di produrre cultura, dibattito, riflessione (alla faccia del centralismo). Quanto fu ricca quella stagione di idee, dentro e fuori il Pci.

Poi, successe quel che sappiamo e quel partito, lasciato morire per sopraggiunta assenza di causa ultima, non ha lasciato eredi. Ne sono nati due, e poi altri. Uno, il più grande, ha pensato bene di liberarsi dell’eredità considerandola scomoda nella società «liberal». Gli altri, hanno preferito la «testimonianza» di chi guarda l’album di famiglia con la nostalgia dei bei tempi andati.

E gli oppressi? Sono ancora là, non sono più tanto solo operai, ma rider, marginali, laureati senza lavoro, braccianti venuti d’oltremare, ma anche semplici “tecnici”, “impiegati”, lavoratori alienati (si diceva così, un tempo), tutti senza chi li rappresenti. Il partito-successore ha dilapidato il patrimonio, si è accoppiato sconsideratamente e ora rimpiange molte cose, senza sapere quali. Pensava forse che, ora che non doveva più giustificare l’amicizia coi sovietici dei gulag, fosse finita quella cosa che chiamavano «anti-comunismo», un collante perfetto per chi voleva che si lasciasse fare al capitalismo quello che sa fare meglio, profitto sulla pelle degli altri (e se ci va di mezzo il pianeta, tant’è). Si è ritrovato a dover fare i conti con un mostro che è ancora più attrezzato di prima, senza bagaglio teorico e, soprattutto, senza più l’obiettivo di trasformare l’ordine delle cose.

E senza capire che anche oggi, nella post-democrazia della post-verità, dove le masse succubi del «surveillance capitalism» possono andare dietro al pifferaio di turno, avrebbero bisogno di dare un senso alla loro vita molecolarizzata, non questo ritorno all’Ottocento di politici che rendono solo conto dei loro «like», perché non c’è libertà senza giustizia e senza uguaglianza, proprio come allora, proprio come sempre.

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Mario Draghi quando era presidente della Bce

Missione fallita, missione compiuta.

Matteo Renzi ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso: distruggere la maggioranza di governo, annientare il centrosinistra e tirare la volata a un governo di unità nazionale, consegnando il paese nelle mani di un salvatore della patria che ha un nome e cognome: Mario Draghi, incaricato, ieri sera, dal presidente Mattarella, di formare un ministero di salute pubblica.

Sono ore drammatiche, sottolineate dal tono e dalle parole del Capo dello Stato che, parlando in diretta televisiva, ha informato il paese delle sue determinazioni.

Mattarella ha spiegato perché le elezioni anticipate non sono ritenute un’alternativa possibile in questo momento e perché è invece necessario avere subito un governo capace di affrontare la situazione sanitaria e dunque di centrare l’obiettivo del Recovery fund.

Siamo di fronte se non a un azzeramento certamente a una micidiale riduzione degli spazi democratici, a un vero e proprio commissariamento del paese, come capitò con Monti e come non capita in nessun paese europeo, e segnatamente in una congiuntura storica come quella che stiamo vivendo.

Si annullano le differenze politiche e si affidano le sorti del nostro paese a un illustre economista. Che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.

E quando la politica fa un passo indietro per lasciare il campo a uomini della finanza, vuol dire che la democrazia gode di una cattiva, pessima salute.

Un motivo in più per tenere alta la guardia.

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