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CAMPO LARGO. Dai due leader proposte in contemporanea: la segretaria Pd cita la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici, il leader M5s deposita una Pdl per le 32 ore

Schlein e Conte: riduzione di orario a parità di salario La segretaria del Pd Elly Schlein - Foto LaPresse

A pochi giorni dalla presentazione della piattaforma unitaria Fim, Fiom, Uilm per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che lo cita esplicitamente, l’obiettivo della riduzione di orario a parità di salario viene rilanciato sia dal Pd che dal M5s. Elly Schlein e Giuseppe Conte sembra che abbiano fatto a gara per presentarlo proprio ieri, a pochi minuti di distanza anche sui loro rispettivi profili social.

La segretaria del Pd non lo manca di sottolineare: «I sindacati metalmeccanici italiani per il rinnovo contrattuale 2024-2027 propongono di sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Parliamo di 1,5 milioni di lavoratrici e lavoratori», continua Schlein. «Non è una piccola questione, è invece una proposta che punta ad una nuova idea di società in cui si rimettono al centro la qualità della vita e del lavoro, l’innovazione organizzativa e la necessità di redistribuire la ricchezza e il tempo libero delle persone. Significa migliorare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in un paese dove c’è un problema enorme di precarietà e di part-time involontario che colpisce soprattutto le donne». «Noi – spiega Schlein – facciamo una proposta molto semplice: allarghiamo il Fondo nuove competenze – cofinanziato dal Fondo sociale europeo – introducendo anche la sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», scrive sui social la segretaria del Pd. «Scommettiamo sul modello della contrattazione collettiva tra imprese e sindacati per incentivare la settimana corta. Un fondo che aiuti chi stipula contratti per la riduzione dell’orario di lavoro attraverso un esonero contributivo del 30 per cento dei contributi previdenziali che si allarga al 40 per le prestazioni lavorative usuranti e gravose. Si può fare». «La scelta è tra il passato e il futuro. L’Italia è uno dei pochi paesi dove non c’è alcuna iniziativa legislativa che incentivi la sperimentazione sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», mentre tante sono le «sperimentazioni in Gran Bretagna, Portogallo, Germania, Spagna e Belgio».

Ancora più avanzata la proposta di Giuseppe Conte: «È arrivata in Commissione Lavoro alla Camera una proposta a mia prima firma sulla riduzione del tempo di lavoro. La nostra proposta è di ridurre in via sperimentale l’orario di lavoro da 40 a 32 ore, a parità di retribuzione», così il leader M5s in una diretta su Facebook ieri mattina. Il leader 5 Stelle cita statistiche positive dei paesi in cui la «settimana corta» è stata adottata, dall’Europa a Microsoft in Giappone: «Aumenta la soddisfazione dei dipendenti e il livello di produttività dell’azienda ed ha anche vantaggi dal punti di vista ambientale», sia in termini di emissioni che di consumi energetici. «L’obiettivo è fare anche dell’Italia il prossimo Paese in cui sperimentare questa riforma e siamo pronti a confrontaci, spero ci sarà un dialogo sereno con le altre forze politiche».

Consonanze programmatiche nel Campo Largo, dunque. Che si spera potranno entrare in un futuro programma di governo

 

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Si muore nei grandi impianti come sui cantieri. Dopo la strage di Firenze, ieri un operaio ha perso la vita nello stabilimento Stellantis in provincia di Avellino. Anche lui era in appalto, vittima degli affidamenti al ribasso. «Esterno» in un fabbrica dove lavorava da venti anni

BARA D'APPALTO. Il 52enne lavorava da venti anni nello stabilimento di Pratola Serra, nell’avellinese, ma era assunto da una ditta esterna. Fiom: «Gli affidi sono al ribasso, chi se li aggiudica chiede ai dipendenti mansioni sempre più pesanti»

Stellantis, operaio muore schiacciato da un macchinario Lo stabilimento Stellantis di Pratola Serra (Avellino) dove è morto un operaio di 52 anni - foto Ansa

Era andato nel magazzino dei basamenti dei motori per verificare quali fossero le cause di un’anomalia ed è stato colpito all’addome da una sbarra automatica. È morto così Domenico Fatigati, cinquantaduenne di Acerra, un comune in provincia di Napoli, sposato con tre figli, il più piccolo dei quali di 7 anni. La tragedia pochi minuti prima delle otto di ieri mattina nello stabilimento Stellantis di Pratola Serra, in provincia di Avellino. Una fabbrica dove lavorano 1.600 operai, i quali producono i motori 1600, 2000 e 2200 che si montano sulla jeep Renegade, sull’Alfa Romeo Tonale e sul Ducato.

FATIGATI LAVORAVA lì dentro da circa 20 anni e lo conoscevano tutti. Non era però dipendente di Stellantis, ma di MS Industrial, un’azienda che ha la sede legale a Foggia e che ha in appalto parte della gestione dei magazzini. Guadagnava circa 1.500 euro al mese. «Da quando l’ho incontrato in fabbrica per la prima volta – racconta Giuseppe Morsa, delegato della Rsa a Pratola Serra e segretario della Fiom Cgil di Avellino – è sempre stato con una ditta in appalto esterno. Prima si chiamava Fratelli Pietropaolo». Nello stabilimento in provincia di Avellino la logistica è affidata alla De Vitia, i magazzini in parte (l’altra è gestita in proprio da Stellantis) a MS Industrial. Sono poi affidate a terzi mensa e pulizia.

«GLI APPALTI sono centralizzati – dice Morsa – nel senso che li gestisce direttamente Torino». Fatigati è dunque morto da esterno in una fabbrica che da 20 anni frequentava ogni giorno e dove

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 SANITÀ CROLLATA. Ferite non curate, chemio mancate, infezioni: 8mila decessi nei prossimi sei mesi anche se i raid si fermassero ora. E non si fermano: nuovo veto Usa all'Onu

 Un ospedale di Gaza - Ap

A decine ieri si sono avvicinati al cratere fumante e colmo di macerie di un intero palazzo distrutto dalla bomba sganciata da un aereo israeliano sul campo di Nuseirat, nella zona centrale di Gaza. In silenzio, hanno provato a scorgere in quella voragine il corpo di qualcuno ancora in vita. Per 12 persone che al momento dell’esplosione erano nei pressi della moschea Hasan Banna non c’è stato scampo. Altre decine sono rimaste ferite, alcune gravi e con poche possibilità di salvezza a Gaza dove gli ospedali non sono più ospedali dopo quattro mesi e mezzo di offensiva israeliana. L’esercito dello Stato ebraico ha rilanciato la sua offensiva al centro e a nord della Striscia, in particolare a Zeitun e Shujaiye a est di Gaza city. Hamas non sembra affatto sul punto di crollare come affermano da giorni i comandi militari e il ministro della difesa israeliano Gallant. I suoi combattenti e l’apparato amministrativo, non appena i reparti corazzati israeliani arretrano, cercano di rioccupare alcune delle posizioni perdute nelle settimane passate. Si combatte di nuovo al nord, anche se il grosso dell’offensiva israeliana si concentra a sud, a Khan Yunis – l’ospedale Nasser, circondato da settimane, è in piena emergenza – ed è giunta alle porte di Rafah, l’ultimo rifugio per oltre un milione di civili.

Sono circa 29mila i palestinesi uccisi a Gaza, in gran parte civili, e altre migliaia di corpi si troverebbero sotto le macerie di case e palazzi abbattuti da bombe e missili. Un bilancio destinato a salire, anche se l’offensiva israeliana si fermasse ora, cosa improbabile alla luce delle ultime dichiarazioni del premier Netanyahu e di altri membri del suo governo. Ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine e del Johns Hopkins Center for Humanitarian Health negli Stati Uniti, calcolano in circa 8.000 i palestinesi di Gaza che probabilmente moriranno nei prossimi sei mesi per il crollo del sistema sanitario causato dall’attacco israeliano alla Striscia. Moriranno per le ferite provocate dai bombardamenti, per l’aumento delle malattie, per la mancanza di chemioterapie ai malati oncologici e cronici, per la diffusione di infezioni in un territorio devastato in cui gran parte della popolazione è sfollata, senza casa e vive nelle tendopoli nel migliore dei casi se non tra le macerie. I ricercatori allo stesso tempo lanciano un avvertimento: se i combattimenti non si fermeranno, almeno altre 85mila persone potrebbero morire entro l’inizio di agosto uccise dalla guerra, dalle malattie e dalle epidemie.

Un altro tentativo di dichiarare un cessate il fuoco immediato e definitivo a Gaza è naufragato ieri quando gli Stati uniti hanno esercitato di nuovo il diritto di veto per bloccare la bozza di risoluzione presentata dall’Algeria al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il testo ha avuto il sostegno di 13 dei 15 paesi membri del CdS, mentre il Regno unito si è astenuto. Si tratta della terza volta in cui Washington esercita il diritto di veto dal 7 ottobre. «Votare a favore di questa bozza significa sostenere il diritto alla vita dei palestinesi, opporsi significa sostenere la violenza brutale nei loro confronti», aveva detto prima del voto l’ambasciatore algerino alle Nazioni Unite, Amar Bendjama, facendo appello al senso di responsabilità del CdS e del rispetto di tante vite innocenti a Gaza. Gli Stati uniti hanno motivato il veto affermando che la risoluzione proposta da Algeri non avrebbe garantito la liberazione dei circa 130 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e altre organizzazioni a Gaza. Ma la decisione è la conferma che nonostante i forti contrasti emersi tra l’Amministrazione Biden e il premier Netanyahu in questi ultimi giorni, gli Usa continueranno a sostenere Israele, con la diplomazia e con armi e munizioni, e non imporranno soluzioni allo Stato ebraico, dal cessate il fuoco definitivo a Gaza alla dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese indipendente.

Da parte sua Washington ha presentato una sua bozza di risoluzione, in cui la dicitura «cessate il fuoco immediato» è sostituita con il termine «temporaneo». Finora gli Usa hanno appoggiato la possibilità di una «pausa umanitaria» per consentire la liberazione degli ostaggi israeliani – anche attraverso uno scambio con prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele – e l’aumento degli aiuti umanitari per Gaza. L’Amministrazione Biden si oppone inoltre a una operazione militare israeliana su larga scala nella città di Rafah. Ai civili palestinesi non basta, chiedono la tregua immediata e definitiva. Tuttavia, la bozza di risoluzione americana ora sul tavolo è il massimo che gli Usa siano riusciti a produrre negli ultimi quattro mesi e mezzo per mostrare la propria insoddisfazione al governo Netanyahu che non ascolta nessuno, non cede a pressioni e non tiene conto delle posizioni di altri paesi. «Il fatto che gli Stati uniti stiano presentando questo testo è un avvertimento per Netanyahu» spiega Richard Gowan dell’International Crisis Group «È il segnale più forte inviato dagli Stati uniti: Israele non può fare affidamento sempre sulla protezione diplomatica americana». Lo scetticismo però è forte. Le trattative comunque sono in corso e la contrarietà all’attacco israeliano contro Rafah espressa nel testo è lo strumento con il quale la delegazione Usa prova ad avere l’appoggio alla sua risoluzione.

Ieri il Sudafrica ha di nuovo esortato la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ad emettere un parere di «illegalità» (non vincolante) per l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Nel fine settimana una delegazione di osservatori israeliani è stata espulsa dalla cerimonia di apertura del vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba. Questo sviluppo è stato condannato con forza dal ministero degli esteri israeliano che ha accusato «paesi estremisti come Algeria e Sudafrica» di aver imposto la propria agenda all’Unione Africana

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IL LIMITE IGNOTO. Anastasia Chivakina, del movimento "Mogli e madri": «Chi fugge non è un vero ucraino ma chi sta combattendo deve poter staccare»

 Odessa, manifestazione delle "Mogli e madri dei soldati»

Sembra il momento della resa dei conti al fronte. In un video diffuso ieri su internet si vedono dei soldati russi giustiziare almeno due soldati ucraini appena usciti da una trincea, disarmati e in stato confusionale. È accaduto nei pressi di Robotyne, a sud di Zaporizhzhia. E si tratterebbe del secondo caso in pochi giorni di esecuzioni sommarie di uomini inermi dopo Avdiivka.

Robotyne è una delle roccaforti di Kiev lungo la linea del fronte meridionale, teoricamente protetta da una fitta rete di trincee e da campi minati. Sembra, tuttavia, che i russi siano riusciti a superare la prima linea di campi minati e che ora stiano puntando dritti verso la fortezza nemica. Intanto qui nell’est la situazione non accenna a migliorare per i difensori che sono costretti a fronteggiare i continui attacchi missilistici dei russi e temono una nuova avanzata verso Ugledar, del sud dell’oblast di Donetsk. A poca distanza, la strada che esce da Avdiivka è ricoperta da centinaia di corpi di soldati ucraini. Sono i militari che hanno tentato di mettersi in salvo quando la città era già praticamente persa, il che smentisce le dichiarazioni del nuovo Comandante in capo delle forze armate ucraine Syrskyi secondo il quale la «ritirata era stata ordinata per salvare la vita dei militari». In realtà, a quanto sembra, gli unici che sono riusciti a salvarsi sono quelli che sono scappati autonomamente e quelli che si trovavano già nelle retrovie.

È un momento duro per i militari ucraini al fronte. A Odessa avevamo incontrato Anastasia Chivakina, una ragazza di 22 anni che è tra le organizzatrici delle proteste delle «mogli e madri» dei soldati sul terreno.

Anastasia Chivakina
Anastasia Chivakina

Come è nato il vostro movimento?
In realtà non so chi e quando ha creato il gruppo Telegram dove abbiamo iniziato a parlare. All’inizio eravamo 50 persone di Odessa, ci siamo organizzate, ci siamo incontrate e abbiamo lanciato il primo sit-in pacifico. Con il tempo siamo arrivate a 2mila persone in 20 città ucraine e ora siamo circa 4mila. Non ci rendevamo bene conto di quante persone come noi aspettassero da mesi il ritorno dei propri cari dal fronte e del fatto che moltissimi si sentissero senza voce.

Lei chi sta aspettando?
Mio marito, Nikola. Dall’aprile del 2022 è in prima linea ed è tornato a casa due volte per dieci giorni… in due anni.

Ci può descrivere brevemente come funziona la rotazione adesso nelle truppe ucraine al fronte?
In realtà la rotazione è un problema enorme nel nostro esercito. Diciamo che non esiste una regola che riguarda tutti. Se sei capitato in una brigata o un’unità che lo permette puoi andare, altrimenti può darsi anche che tu non torni mai nelle retrovie.

Dunque voi per cosa protestate?
Noi chiediamo che ci siano dei limiti per il servizio al fronte. Abbiamo proposto la durata massima di 18 mesi, passati i quali i militari devono poter tornare a casa per potersi riposare, per poter fare un po’ di ‘riabilitazione’. Dovete immaginare che i soldati al fronte vivono in condizioni durissime e hanno bisogno di un’assistenza psicologica specializzata. La maggior parte dei ragazzi con cui parliamo ha un disperato bisogno di risposo, che qualcuno li sostituisca per un arco di tempo sufficiente. Ma sembra impossibile.

Nel vostro gruppo parlate anche di pace? Cioè protestate anche per spingere il governo a trovare un modo di finire la guerra?
Sinceramente noi non ne parliamo… è una cosa quasi impossibile in queste condizioni. Diciamo che ci concentriamo su una questione pratica, vorremmo la smobilitazione.

E come si può continuare la guerra con la smobilitazione?
Smobilitazione vuol dire che un militare che ha servito per un tot di mesi poi non può più essere richiamato per un lungo periodo. Cioè non possono obbligarti a lavorare nelle città o nelle retrovie e poi dopo 2 o 3 mesi risbatterti in prima linea. Così non stacchi mai, non riesci mai ad avere una vita normale.

I funzionari governativi o militari vi criticano per ciò che fate? Avete ricevuto pressioni?
I soldati ci hanno ringraziato fin da subito. Ma, soprattutto all’inizio, la gente si fermava per prenderci in giro. Qualcuno su internet ci accusava di fare del male al Paese. Noi, capisce? Vedi uomini che potrebbero stare al fronte ma girano in città tranquilli che ti trattano da sobillatrice. Anche l’opinione pubblica è contraria alle nostre proposte perché per loro la smobilitazione significa mobilitazione di altri, che spesso sono gli stessi che ci criticano. Però la guerra non può gravare solo sulle spalle di alcuni.

Non si sente tradita dal fatto che c’è una parte dell’Ucraina che non sta facendo abbastanza? Cosa pensa di quegli ucraini maschi che sono in età da leva e che magari sono nel resto d’Europa e non vogliono tornare a combattere?
La situazione è troppo sbilanciata, però molti dei nostri familiari sono andati volontari al fronte e noi per questo abbiamo iniziato da subito ad aiutare l’esercito. Vogliamo a fare tutto il possibile per loro, perché stiano ameno un poco meglio. Quegli uomini che erano in età di leva e sono scappati in Europa non sono dei veri ucraini, possono restarsene dove sono e non tornare più. Quelli che sono qui e si nascondono fanno bene ad avere paura perché se li trovano andranno al fronte chissà per quanto. Io li capisco in un certo senso. Ma è anche per questo che noi lottiamo, perché un soldato possa sapere quando potrà tornare a casa.

Vista la situazione e l’esperienza che sta vivendo suo marito, se potesse tornare indietro cercherebbe di sconsigliarli di arruolarsi?
Nikola si è arruolato volontario perché crede nella causa, crede che domani potremo vivere in ucraina da ucraini e in pace. Se non fosse per le mie condizioni di salute ci sarei andata anch’io

 

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Livelli massimi di smog in Pianura padana: Milano e Bologna da bollino rosso, allarme per la salute dei bambini. L’Italia ha il primato dei morti per inquinamento ma chiede la deroga all’Europa sulla qualità dell’aria. A spingere è soprattutto la Lombardia

IL FATTORE CAPPA. Vanes Poluzzi, Arpa Emilia-Romagna: «Il meteo non lascia scampo. È come avere una coperta di lana sulla testa che fa ristagnare l’aria, impedendo agli inquinanti di disperdersi»

Pianura padana, smog e clima caldo: salgono gli infarti e le bronchiti

 

In Emilia-Romagna è arrivato l’invito a non fare jogging e restare a casa, mentre il sito e i social del ministero della Salute ancora non prendono atto della grande emergenza smog in Pianura padana, quella fotografata dai satelliti e visibile a occhio nudo a chiunque si alzi di almeno duecento metri, verso l’Appennino emiliano o le Prealpi in Lombardia e Veneto: una massa grigia, uniforme, impenetrabile. «È come avere una coperta di lana sulla testa» che fa ristagnare l’aria rendendola più viziata ogni giorno che passa, ha spiegato ieri con una metafora Vanes Poluzzi, responsabile del Centro tematico regionale di Qualità dell’aria di Arpae, l’Agenzia per l’ambiente dell’Emilia-Romagna, analizzando le condizioni che stanno determinando lo smog che soffoca la regione e in generale l’area padana.

«VIVIAMO una condizione particolarmente “sfortunata” dal punto di vista del meteo che non ci sta lasciando scampo e che purtroppo sta condizionando» l’andamento dei picchi di inquinanti, ha aggiungo. In pratica, ha spiegato all’Ansa, «da un lato abbiamo un anticiclone molto potente per cui siamo in pieno inverno ma abbiamo 5-6 gradi in più rispetto alle medie climatologiche del periodo, anche in montagna»; dall’altro c’è una massa d’aria calda in quota, persistente, che non lascia diffondere verso l’alto tutto ciò che di inquinante emettiamo giù. Una coperta non

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INQUINAMENTO. L’emergenza smog non esiste. Esiste un problema strutturale. La Pianura Padana rappresenta, per ragioni geomorfologiche e per impatto veicolare e industriale, la zona a più elevata concentrazione di smog a livello europeo. Ecco alcune proposte di immediata realizzabilità

La Pianura Padana rappresenta, per ragioni geomorfologiche (scarsa ventilazione a causa dell’arco alpino che favorisce accumulo e stagnazione di inquinanti atmosferici), la zona a più elevata concentrazione di smog a livello europeo.

Non è una novità: lo sappiamo da decenni. Ogni anno le foto satellitari riproducono graficamente la camera a gas, colorata di rosso, diffusa nelle aree urbane della pianura, quelle maggiormente popolate; le ricerche epidemiologiche sviluppate negli ultimi vent’anni confermano la coincidenza fra l’aumento dei livelli di concentrazioni inquinanti nell’aria e l’aumento dei casi di morbilità e mortalità.

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A Milano, ogni anno, circa 1.500 persone muoiono prematuramente – soprattutto nelle aree periferiche, quelle maggiormente colpite dalla congestione del traffico pendolare, 650.000 auto in ingresso ogni giorno – a causa dei veleno nell’aria generati dal traffico privato.

I pochi che continuavano a dare la colpa principalmente agli impianti di riscaldamento, hanno smesso di farlo da quando le concentrazioni di allarme del PM10 vengono superate già a settembre quando, notoriamente, i riscaldamenti sono spenti.

Tutto questo significa una cosa semplice: l’emergenza smog non esiste. Esiste un problema strutturale, che vede la geomorfologia del territorio abbinarsi ad un eccesso di traffico privato sul territorio padano e nelle aree urbane più densamente popolate e che, da ottobre a marzo, genera quella macchia rossa di inquinanti fotografata dal satellite ed inalata quotidianamente dai cittadini.

Se non si tratta di emergenza ma di problema strutturale, per affrontare e risolvere il problema sono necessari provvedimenti strutturali. Esattamente ciò che le amministrazioni pubbliche, dal governo alle regioni ai comuni, evitano accuratamente di prendere perché garantiscono effetti sicuri nel tempo, ma nel breve periodo rischiano di far perdere voti e consensi.

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Sicuramente si tratta di investire e potenziare il trasporto pubblico. Ma non solo. Esistono diversi strumenti, come la tariffazione stradale (o road pricing) che possono essere gestiti direttamente dai comuni per disincentivare l’uso dell’auto e premiare l’uso del trasporto pubblico.

Queste misure di pricing possono riferirsi sia al pagamento della sosta (park pricing) sia alla delimitazione di zone a traffico limitato ZTL (road pricing), devolvendo l’intero ricavato al potenziamento del trasporto pubblico.

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Ecco, di seguito, alcune delle misure che Milano dovrebbe e potrebbe attivare ogni anno nel periodo “a rischio”, fra ottobre e marzo, quando si registrano i maggiori sforamenti delle concentrazioni inquinanti, proposte di immediata realizzabilità a partire da due giorni dopo il superamento della soglia di allarme del Pm10 (50 µg/m3) o del Pm2,5 (25 µg/m³) da attivare ogni anno, nel periodo compreso fra ottobre e marzo mediante semplice ordinanza del Sindaco:

  • incrementare il pedaggio di Area C da 5 a 10 euro, senza alcun veicolo esentato;
  • consentire la circolazione sulla rete ATM, urbana e suburbana, con un solo biglietto valido per l’intera giornata (come dire: se nonostante questo usi l’auto per muoverti anche in centro, è giusto che paghi il pedaggio raddoppiato);
  • potenziare il servizio di trasporto pubblico;
  • limitazione della velocità a 30 km/h;
  • temperatura massima degli edifici a 19° salvo quelli frequentati da anziani e bimbi;
  • estensione park pooling gratuito in tutti i parcheggi di interscambio delle linee metropolitane;
  • park pooling esteso ai parcheggi delle stazioni ferroviarie suburbane
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