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Gaza senza tregua, sale il conto delle vittime civili sotto i bombardamenti. A rifornire gli arsenali israeliani ci pensa Biden, che bypassa il Congresso inviando altre armi e munizioni. 100 i reporter uccisi dal 7 ottobre

GAZA SOTTO ATTACCO. Nuovo pacchetto di armi in arrivo dalla Casa Bianca che scavalca il Congresso. Raid anche in Siria e Libano, guerra sempre più larga

Israele colpisce ovunque, le bombe le fornisce Biden 

Il 2023 si chiude con l’invasione israeliana di Gaza che ha fatto 21.672 morti, 165 dei quali tra venerdì e sabato, e 56.165 feriti, oltre ai circa 1.400 israeliani, tra civili e militari, rimasti uccisi il 7 ottobre nell’attacco di Hamas e nei mesi successivi. Il 2024 che comincia domani potrebbe portare all’escalation della guerra in Medio oriente. La Siria ieri ha accusato Israele di aver attaccato l’aeroporto militare di Nairab, vicino ad Aleppo. E la tv Al Mayadeen ha aggiunto che i raid aerei sono stati quattro.

L’aviazione israeliana, che giorni fa aveva ucciso a Damasco, Ravi Mousavi, uno dei comandanti più importanti della Guardia rivoluzionaria iraniana, ormai attacca ovunque, dal Libano alla Siria, obiettivi e milizie affiliate a Teheran. Venerdì sera, jet non identificati (ma tutti sanno che erano israeliani) hanno colpito un convoglio di otto camion, distruggendone quattro, e tre edifici usati da gruppi sostenuti dall’Iran nella città siriana di Albukamal lungo un valico di frontiera strategico con l’Iraq. Un comandante locale delle Forze di mobilitazione popolare irachene (Hashd Shaabi) ha riferito che quattro persone sono state uccise.

Al confine tra Libano e Israele non si può più parlare di guerra a bassa intensità. Le forze israeliane martellano il sud del Libano. Ieri in particolare il

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STRISCIA SOTTO ATTACCO. Gli attacchi concentrati al centro e al sud. Israele: distrutta la casa segreta di Sinwar. L'ultradestra fa saltare la riunione del gabinetto di guerra israeliano

Fuga e sudari, la quotidianità di Gaza Gaza. Sfollati in fuga dall'offensiva israeliana - Ap

Sono sempre loro, gli sfollati, le vittime principali dell’invasione israeliana di Gaza, dei bombardamenti e delle stragi. Uomini, donne e bambini innocenti sbattuti da un punto all’altro della Striscia alla ricerca di una salvezza che non è garantita. Anche ieri decine di migliaia di sfollati si sono avviati a piedi, i più fortunati su carretti, verso l’ovest e il sud di Gaza, per sfuggire alla nuova offensiva di carri armati israeliani e sotto raid aerei che hanno raso al suolo case seppellendo al loro interno famiglie intere. Come nel campo profughi di Nuseirat, dove sono stati uccisi 35 membri, tra cui alcuni bambini, delle famiglie Jabr, Saidem e Hour. Poche ore prima 11 palestinesi della famiglia Ammour erano morti sotto le bombe a Fakhari (Khan Yunis). A Rafah i giornalisti locali sulla scena di un attacco che ha distrutto un edificio, hanno raccontato di aver visto la testa di un bambino sepolto ma vivo sporgere dalle macerie. Un soccorritore gli ha protetto la testa con una mano, mentre altri tentavano di spaccare una lastra di cemento per liberarlo.

Israele sta chiudendo l’anno con nuovi assalti nella zona centrale e meridionale di Gaza, innescando nuovi esodi mentre dilagano fame e malattie tra i due milioni di abitanti di Gaza. La settimana scorsa aveva dato la disponibilità a far entrare dall’Egitto 200 camion di aiuti al giorno ma giovedì solo 76 sono riusciti ad attraversare il valico di Rafah. Nelle ultime 48 ore, i reparti corazzati si sono fatti strada a cannonate all’interno di Bureij con intensi combattimenti in corso con Hamas nella periferia orientale del campo profughi, così come a

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MEDIO ORIENTE. Raid aerei israeliani continui su Libano e Siria. Hezbollah intensifica gli attacchi sul confine. Sale la tensione tra Tel Aviv e Teheran
L’escalation che nessuno vuole è dietro l’angolo Libano. Un combattente di Hezbollah con un drone - Tasnim News Agency/wikimedia.commons

Al confine tra Libano e Israele lo scontro tra il movimento sciita Hezbollah e le forze armate dello Stato ebraico è sempre più intenso e il numero delle vittime cresce ogni giorno. Specie sul lato libanese – in meno di tre mesi sono stati uccisi oltre cento combattenti di Hezbollah e numerosi civili – in ragione della superiorità militare di Israele e del dominio della sua aviazione. Proprio il controllo dei cieli è al centro dell’escalation regionale a distanza tra Israele e Iran e che dopo il Mar Rosso si allarga sempre più alla Siria. Tra giovedì e venerdì missili israeliani, provenienti dal Golan occupato, hanno colpito per due volte nella Siria meridionale la base di difesa aerea e una stazione radar nell’area di Tel al-Sahn facendo, secondo la tv saudita Al Arabiya. Il mese scorso era stato preso di mira un altro sistema di difesa antiaerea a Tel Qulaib e Tel Maseeh, sempre nel sud della Siria.

Questi attacchi indicano che l’attrito lungo la frontiera tra Libano e Israele, cominciato dopo il 7 ottobre e la guerra a Gaza, potrebbe evolvere in quel conflitto totale che il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, per oltre due mesi ha cercato di evitare. E così l’Iran, suo sponsor. Entrambi in più occasioni hanno sottolineato che Hamas ha pianificato da solo l’attacco nel sud di Israele quasi tre mesi fa. Ma la situazione ora è fluida. Distruggere i sistemi di difesa aerea siriani che l’Iran starebbe cercando di rafforzare, per Israele significa avvantaggiarsi ulteriormente in vista di un allargamento della guerra nella regione.

L’Amministrazione Biden non vuole una espansione del conflitto. Tuttavia, nell’esecutivo politico-militare guidato da Benyamin Netanyahu non mancano i sostenitori – come il ministro della Difesa Yoav Gallant – di uno scontro militare frontale e totale con Hezbollah e Teheran per «ridisegnare il Medio oriente». Per anni Israele ha colpito in Siria obiettivi legati all’Iran. Nonostante ciò, i combattenti alleati di Teheran sono riusciti a consolidare la loro presenza in vaste aree della Siria orientale, meridionale e nordoccidentale. Potenzialmente questi gruppi, a cominciare da Hezbollah, in caso di una offensiva israeliana nel Libano del sud, potrebbero rispondere lanciando all’attacco migliaia di uomini nel Golan occupato e nella Galilea settentrionale.

Qualche giorno fa, Israele ha detto in modo chiaro che non esiterà a colpire nel modo più devastante ovunque e chiunque se ci sarà un allargamento della guerra con Hamas a Gaza. L’ha fatto assassinando nei pressi di Damasco Radhi Mousavi, massimo responsabile in Siria della Forza Quds, l’élite della Guardia rivoluzionaria iraniana. Un’uccisione che per la sua importanza è paragonabile a quella del 2020 da parte degli Stati uniti del comandante della Forza Quds, Qasem Soleimani, e diversi anni prima del comandante militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, compiuta dal Mossad israeliano. Per Teheran è stato un colpo perché Mousavi era una figura militare con decenni di esperienza in Libano e Siria incaricata del coordinamento con le forze armate di Damasco e delle spedizioni di armi in Siria. Mousavi è stato determinante anche nella consegna di missili balistici iraniani Fateh a Hezbollah. Anche il luogo dove è stato assassinato ha un significato. Il sobborgo di Sayyidah Zainab, infatti, ospita il santuario sciita più importante della Siria, che attira milioni di pellegrini ogni anno, e dopo il 2011 è stato la base dei comandanti della Guardia rivoluzionaria iraniana a Damasco.

La morte di Mousavi è un segnale anche per Hezbollah che, non a caso, in questi ultimi giorni ha reso più letali i suoi attacchi sul confine e alzato il tono dei suoi avvertimenti. Ieri mentre il movimento sciita riferiva dei suoi ultimi attacchi, preceduti o seguiti da raid aerei e cannoneggiamenti israeliani, uno dei suoi principali rappresentanti, Nabil Qaouk, ha ammonito che «qualsiasi attacco contro le case e i civili (in Libano) si tradurrà in una risposta rapida e severa». Poco dopo un deputato di Hezbollah, Hassan Ezzedine, ha escluso categoricamente che il movimento sciita possa ritirare i suoi combattenti a nord del fiume Litani, come starebbero cercando di imporre militarmente Israele e gli Stati uniti con pressioni su Beirut

 
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Guerra di sfinimento in Ucraina. Kiev ammette il flop della controffensiva e si prepara a mobilitare migliaia di riservisti. In aiuto dagli Usa arrivano 250 milioni anziché i 61 miliardi promessi. E Mosca non dà tregua

IL LIMITE IGNOTO. Il conflitto penetra in ogni aspetto della vita quotidiana. E ormai i vertici lo ammettono: la controffensiva ha fallito

 Un palazzo danneggiato dall’attacco di droni russi a Kiev il 22 dicembre 2023 - Ansa

I kieviti attraversano in fretta piazza Santa Sofia, senza quasi prestare attenzione all’albero di Natale che brilla giallo e blu di fronte all’ingresso della famosa cattedrale. Dopo un timido entusiasmo iniziale i residenti della capitale ucraina stavolta non hanno ceduto all’emotività e l’albero non si è trasformato nell’ennesimo simbolo mediatico di resilienza. Non ha contribuito nemmeno la novità costituita dal primo Natale festeggiato secondo il calendario liturgico occidentale. Quasi due anni di guerra sono lunghissimi e a volte diventa difficile anche fingere che ci sia normalità.

Chissà se è vero, come avevano dichiarato a inizio anno diverse figure vicine a Zelensky, che a Kiev immaginavano questo periodo festivo come l’ultimo sotto le bombe. Doveva essere il momento per brindare, insieme agli alleati europei e nordamericani, al successo della controffensiva e all’unità del mondo libero di fronte all’oppressore venuto da Mosca. E invece poco è cambiato da quegli annunci, se non che la «stanchezza della guerra», quella vera di chi vive quotidianamente i disagi e le sofferenze generati dall’invasione russa, continuano.

«Siamo in uno stato di guerra, sappiamo che il nemico insidioso può colpire in qualsiasi momento, in qualsiasi direzione» ha dichiarato il capo ufficio stampa del comando meridionale delle forze ucraine, Natalya Gumenyuk. «Pertanto, dobbiamo stare all’erta per proteggerci. Se sentite un allarme aereo, non trascuratelo». Ma i residenti nelle grandi città ucraine sono un po’ restii alle regole di sicurezza della legge marziale, nonostante in alcuni centri, come Kiev e Odessa, il pericolo dei bombardamenti russi sia reale e costante, il bisogno di continuare a vivere è generalmente più forte. Non sempre però, ci sono periodi in cui questo equilibrio necessario si sbilancia verso la paura e allora le città si svuotano. Era così nei primi giorni dopo il 24 febbraio 2022, quando si temeva che la famosa «colonna di 40 km di carri armati russi» sarebbe presto arrivata alle porte della capitale, ed è così oggi.

NONOSTANTE i soldati nemici siano lontani, nelle trincee ghiacciate del fronte orientale o dietro i terrapieni fortificati del sud, dove il vento del Mar Nero gela persino gli occhi. Gli effetti della guerra si sentono in ogni piccolo aspetto della vita quotidiana. Dalla scarsità di beni nei negozi, al freddo nelle case dove i riscaldamenti sono diventati inutili suppellettili. La strategia russa di bombardare le centrali energetiche del nemico aveva messo a dura prova i civili ucraini l’inverno scorso e sta causando ancora più disagi quest’anno. Eppure le città non devono arrendersi.

Ogni attività in Ucraina deve essere proiettata verso lo sforzo bellico, c’è bisogno di continuare a produrre e di tenere in piedi gli apparati statali. Gli uffici devono funzionare, la logistica della grande distribuzione anche, i controlli per le strade devono dare almeno l’impressione che tutto sia in ordine. E le infrastrutture devono essere sempre funzionali, magari non perfette ma efficienti. Strade, ponti, centri logistici devono restare aperti affinché i soldati al fronte possano continuare a combattere. Per questo dopo gli attacchi russi è molto comune vedere squadre di operai che tappano buche o sgomberano la carreggiata e tali interventi hanno un valore sia pratico sia simbolico. Il governo centrale vuole a tutti i costi trasmettere il messaggio che la vita va avanti e che si continua a combattere ordinatamente. Nessuno deve lasciarsi andare all’inedia o alla disperazione perché ciò che succede nelle retrovie si riflette al fronte.

TUTTAVIA, nelle ultime settimane sono intervenuti nuovi elementi potenzialmente distruttivi a turbare l’ingranaggio preciso messo in moto dalla Verkhovna Rada la scorsa primavera. Il primo è economico. Se è vero che la produzione nelle retrovie non può arrestarsi, è altrettanto vero che oggi Kiev dipende dagli aiuti occidentali per quasi tutto. Si parla continuamente di forniture militari, ma senza le centinaia di miliardi arrivati al governo di Volodymyr Zelensky dai paesi europei e, soprattutto dagli Stati uniti, probabilmente oggi non potremmo ragionare sul futuro dell’Ucraina. Perciò l’annuncio fatto a metà dicembre dai deputati repubblicani di voler bloccare la votazione per il rinnovo degli aiuti economici a Kiev ha generato enorme preoccupazione.

Nello specifico si tratta di 61 miliardi che fanno parte di un pacchetto più ampio di 106 miliardi di fondi straordinari dei quali 14 dovrebbero andare ad Israele e il resto destinato al «Pacifico e al confine con il Messico». Lo speaker della camera Mike Johnson, tentando di spiegare il motivo dell’opposizione repubblicana, aveva dichiarato di sostenere l’Ucraina ma che le «politiche fallimentari di Biden» non stanno portando ad alcun risultato. I democratici avevano ribadito che il sostegno a Zelensky è fondamentale per arginare Putin, e che quindi si tratta proprio di difendere gli interessi strategici del Congresso, ma finora non sono stati ascoltati. «Se Putin prende il controllo dell’Ucraina, otterrà la Moldavia, la Georgia, e poi forse i Paesi Baltici» aveva dichiarato il presidente della Camera degli Affari Esteri Michael McCaul.

SECONDO gli analisti politici alla fine i repubblicani voteranno favorevolmente alla manovra nelle prime settimane dell’anno nuovo, ma esigeranno un netto ridimensionamento della politica migratoria americana alla frontiera messicana e una modifica alla legge sui visti. Concessioni molto difficili da elargire per Joe Biden, che rischia di sollevare l’odio dell’ala sinistra del suo partito. Del resto, a questo punto scontentare qualcuno diventa inevitabile, la campagna elettorale negli Stati uniti è iniziata e l’Ucraina è uno dei temi più sentiti da entrambi gli schieramenti. In ogni caso ieri il dipartimento di Stato ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari per l’esercito di Kiev del valore di 250 milioni di dollari e ha pubblicato una nota in cui invita il Congresso ad agire «rapidamente, il prima possibile, per promuovere la nostra sicurezza nazionale aiutando l’Ucraina a difendersi e a garantire il proprio futuro».

L’ALTRO FATTORE determinante è quello militare. Il 26 dicembre i vertici ucraini hanno ammesso (dopo una smentita iniziale) di essersi ritirati dal centro urbano di Marinka, una cittadina del Donetsk a pochi chilometri dalla capitale separatista. Ci sono volute settimane affinché gli uomini più vicini a Zelensky ammettessero che «la controffensiva non è andata come speravamo». La sconfitta a Marinka, seppur «di importanza strategica limitata» come sostengono i centri studi occidentali, marca un cambio di segno importante nell’evoluzione a breve termine del conflitto. Significa che non solo gli ucraini non sono più all’attacco, come era evidente dall’inizio dell’inverno, ma che ora sono costretti a difendersi. A poca distanza da Marinka c’è Avdiivka, che i russi bombardano costantemente da mesi. Come Mariupol, come Bakhmut, Avdiivka è diventato l’ennesimo tritacarne di questa guerra. Tra un annuncio di avanzata russa e una smentita ucraina, si stima che ogni giorno ad Avdiivka muoiano tra i 20 e i 200 soldati in totale.

«Non sappiamo quando la guerra finirà, ma sappiamo che servono più uomini per lo sforzo bellico» aveva dichiarato Zelensky durante la conferenza di fine anno, aggiungendo che sono i generali dello stato maggiore ad averli richiesti e quindi, spostando il biasimo su Zaluzhny. Il rapporto tra i due uomini forti ucraini è ai minimi termini da quando il generale aveva dichiarato all’Economist che «il conflitto si è trasformato in quello che in gergo militare si chiama ‘guerra di posizione’». Ora sembra che quasi non si parlino. Ma se, come ha annunciato il presidente, a breve ci sarà una nuova ondata di mobilitazione massiccia da ben 4-500 mila uomini, non potranno evitare di coordinarsi. A meno che uno dei due non voglia esautorare l’altro. In attesa del «piano di mobilitazione» che ha aggiunto un ulteriore preoccupazione agli uomini ucraini, Zaluznhy, nella sua conferenza di fine anno, è rimasto fedele al suo personaggio di militare onorevole ed ha ammesso di aver sottostimato il nemico. «Il mio sbaglio più grande è stato di pensare che un numero così elevato di perdite inflitte al nemico lo avrebbe fermato». Secondo le stime ucraine, non confermabili indipendentemente, le forze armate russe avrebbero infatti perso oltre 356mila soldati.

SI PREANNUNCIA un anno durissimo per l’Ucraina e il futuro del Paese per ora sembra legato alla tenuta del fronte est e all’arrivo degli aiuti economici e militari occidentali. Da Mosca insistono: «Gli obiettivi dell’operazione speciale saranno raggiunti» mentre a Kiev i portavoce militari parlano di «7 fronti di avanzata aperti dal nemico» a est e di dicembre come «il mese più difficile». Ma gli ucraini non si sono lasciati impressionare dato che ormai lo hanno imparato da tempo: finché la guerra dura la situazione continuerà a peggiorare

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DELOCALIZZAZIONI. Il giudice del lavoro accoglie il ricorso della Fiom Cgil e decreta la condotta antisindacale della Qf di Francesco Borgomeo. De Palma e Calosi: "Ora va rilanciato il sito produttivo, ci sono tutti gli strumenti per farlo, sia statali che regionali: nessuno può più accampare scuse".

Annullati i licenziamenti degli operai ex Gkn Il Collettivo di Fabbrica ex Gkn - Andrea Sawwyer

Per la seconda volta nella storia di una lunghissima vertenza in corso da due anni e mezzo, il giudice del lavoro annulla i licenziamenti dei lavoratori della ex Gkn, oggi Qf. Il provvedimento riguarda i 185 operai superstiti dello stabilimento di semiassi per auto di Campi Bisenzio, chiuso dalla sera alla mattina dalla multinazionale Gkn-Melrose il 9 luglio 2021, giorno di inizio di una resistenza operaia diventata un simbolo della lotta alle delocalizzazioni.

Il decreto di annullamento dei licenziamenti, che sarebbero scattati il primo gennaio prossimo, accoglie parzialmente il ricorso per condotta antisindacale presentato due settimane fa dalla Fiom Cgil, In particolare la sentenza pone l’indice sulla mancanza delle dovute comunicazioni al sindacato di quanto stava accadendo in Qf, non permettendo così alla Fiom di ottenere le informazioni necessarie, e indispensabili, per svolgere il suo compito istituzionale di tutela degli interessi collettivi dei lavoratori.

Non è un mistero peraltro, così come denunciato a più riprese dagli enti locali, Regione Toscana in testa, che il proprietario di Qf, Francesco Borgomeo, non si sia mai presentato ai tavoli di trattativa organizzati in tutto il 2023, nel tentativo di avviare quella reindustrializzazione del sito produttivo che lo stesso Borgomeo, ex advisor di Gkn-Melrose, aveva propagandato fin dal suo arrivo a Campi Bisenzio alla fine del 2021. Una reindustrializzazione che, dopo la firma di un accordo quadro al ministero, si era limitata ad una bozza di piano industriale talmente carente da provocare l’irritazione degli stessi dirigenti dell’allora Mise, oltre che degli enti locali, del sindacato e della Rsu.

“La sentenza del giudice del Tribunale del Lavoro di Firenze – commentano ora Michele De Palma, segretario generale della Fiom Cgil e Daniele Calosi che guida la Fiom Cgil di Firenze Prato e Pistoia – conferma la correttezza delle posizioni della Fiom Cgil e il comportamento antisindacale tenuto dalla controparte dall’inizio dell’intera vertenza”.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Salvetti (ex Gkn): “Intervento pubblico per reindustrializzare e non licenziare”

“Ora – concludono i due dirigenti sindacali – è il momento di affrontare la fase di rilancio produttivo del sito, favorire la nascita di un condominio industriale e analizzare profondamente il piano industriale della cooperativa dei lavoratori e farne una reale possibilità di garanzia, utilizzando il tempo in più che il Tribunale di Firenze ci ha concesso, forti dell’esito del ricorso che abbiamo presentato. Ci sono tutti gli strumenti per farlo, sia statali che regionali: nessuno può più accampare scuse”.

Dal canto loro, gli operai ex Gkn hanno dato appuntamento per oggi, insieme all’avvocato Andrea Stramaccia che li ha assistiti, per entrare nel dettaglio della sentenza. Un’occasione per presentare anche il San Silvestro in via Fratalli Cervi dove, a partire dalle sei del pomeriggio, il caso Gkn sarà ulteriormente approfondito prima che la parola passi alla musica con un concerto di fine anno. “La lotta va avanti – anticipa sinteticamente la Rsu – progetti di reindustrializzazione, azionariato popolare e il 31 dicembre tutte e tutti davanti ai cancelli per continuare a difendere il futuro di una fabbrica che sempre più persone, realtà sociali e movimenti vogliono pubblica e socialmente integrata”.

Tanti i commenti su questa ennesima tappa della vertenza, compreso quello soddisfatto della Fnsi e dell’Assostampa Toscana. “Ognuno faccia la propria parte – annota il segretario del Pd toscano Emiliano Fossi – a partire dal governo che é stato latitante in questo ultimo anno”. “Ci aspettiamo – aggiunge il presidente regionale Eugenio Giani – che i licenziamenti vengano ritirati, e che l’azienda si predisponga ad un vero e costruttivo confronto sul destino industriale del sito e dei lavoratori”.

“La Regione Toscana può approvare una norma per stanziare almeno 500mila euro per sostenere il progetto di reindustrializzazione dei lavoratori Gkn”, segnala Maurizio Acerbo del Prc, e Marco Grimaldi di Verdi-Sinistra osserva: “Per fortuna ci ha pensato il giudice dal lavoro a fare legalità, nel silenzio di un governo che ha mostrato ipocrisia e connivenza con chi sperava di vendere lo stabilimento e fare speculazione immobiliare”.

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IL PATTO INDIETRO. Il ministro in commissione dopo il no al Mes e il nuovo Patto di stabilità: «Legge di bilancio coerente, il nostro problema è il debito pubblico». Poi però si lascia sfuggire: «Era un sistema confusionario, ora è il caos totale»

Dopo l’austerità, viene la «disciplina». Parola di Giorgetti Giancarlo Giorgetti ieri in commissione bilancio - Ansa

Quando Giancarlo Giorgetti arriva in commissione alla Camera per battezzare la legge di bilancio sa che non può evitare di sottrarsi alle domande su Patto di stabilità e Mes. Dunque, il ministro dell’economia, presentato più volte come volto pragmatico e moderato del salvinismo, cerca di districarsi tra slogan sovranisti e una manovra che sembra pensata apposta per rassicurare l’Europa. Difficile evitare di cadere in contraddizione. A partire da un’opera di restyling linguistico: «Il problema non è l’austerità, ma la disciplina». Dice ai deputati che lo incalzano che bisogna smetterla con le «allucinazioni psichedeliche» in base alle quali ci si può indebitare ulteriormente. «Non possiamo e non dobbiamo festeggiare gli accordi dei giorni scorsi – afferma – Ma tutta questa discussione è viziata dalla allucinazione di questi quattro anni in cui abbiamo pensato che si potevano fare debito e scostamenti senza tornare a un sistema di regole». È un modo per dichiarare chiusa la fase apertasi nell’emergenza pandemia, anche se le crisi che colpiscono l’economia globale e soprattutto l’Europa richiederebbero altri provvedimenti.

GIORGETTI sembra assolvere il nuovo Patto: «Molti invocano il potere di veto che l’Italia avrebbe potuto esercitare – afferma – Ma per fare una analisi onesta dobbiamo valutare intanto cosa sarebbe entrato in vigore in caso di mancato accordo, cioè il vecchio patto», che dice di considerare ancora peggiore di questo. Non può negare che gli investimenti chiesti proprio dalla Ue per la transizione non sono stati scorporati, ma presenta come successo dell’Italia l’aver ottenuto «che almeno per le spese del Pnrr fossero considerate». Poi però ammette che rispetto alla proposta originaria della Commissione Ue c’è stato un passo indietro: «È stato introdotto in un sistema già confusionario il caos totale. Abbiamo introdotto tantissime clausole per richieste di diversi paesi. Ogni paese ci ha messo del suo per arrivare al consenso dei 27, altrimenti non si andava avanti». Alla luce di tutto ciò, per Giorgetti bisogna attendere per capire se pesano di più i pro e i contro: «È un compromesso, la valutazione la faremo tra qualche tempo». Se l’Italia ha un debito pubblico al 140%, il leghista dice chiaramente che deve in qualche modo stringere i cordoni della borsa, per questo difende la legge di bilancio in quanto coerente con questo scenario. «Quello che ritengo importante, che sempre ho spiegato a tutti gli osservatori, è che il governo italiano avrebbe continuato con una postura di prudenza e sostenibilità – sostiene – Fin quando questo atteggiamento viene sostenuto, il paese è al riparo dalle tempeste». Quanto al Mes, il ministro nega di aver detto che l’Italia lo avrebbe ratificato, assicura di aver solo chiesto che il parlamento si pronunciasse entro l’anno. «Il Mes sarebbe stato uno strumento in più, ma il nostro problema è il debito – è la sua versione – Comunque abbiamo il sistema bancario più solido, anche grazie a leggi molto criticate, e non credo che le nostre banche possano avere conseguenze».

RIVENDICA lo stop al Superbonus, altra misura che attribuisce allo stato lisergico della spesa pubblica (anche se ancora in serata da Forza Italia dicono di confidare in una mini-proroga). Poi difende la scelta di accollare un pezzo delle spese del Ponte sullo Stretto alle Regioni. Bisognerà ricordarselo nella campagna elettorale per le europee, anche perché molti dall’opposizione sottolineano che queste posizioni cozzino con quanto di solito predica Matteo Salvini. «Giorgetti dice che gli effetti si vedranno in futuro – afferma Marco Grimaldi di Alleanza Verdi e Sinistra – Sono parole per coprire il disastro di una delle manovra più inique degli ultimi anni. L’unica cosa che non ha detto è che vedremo bene solo l’austerità». «Non è accettabile che il ministro si sottragga alle sue responsabilità – attacca Riccardo Ricciardi del Movimento 5 Stelle – Vorremmo ricordare che Giorgetti ha passato quasi tre anni al governo nel periodo in cui dice che si spacciava Lsd». Dal Partito democratico la capogruppo Chiara Braga sottolinea come lo stesso ministro ammetta che il Patto di stabilità sia «passato sulla testa del governo e di Meloni: ma sarà il paese a doverlo pagare»

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