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«Accordo al 100%». Con un vertice privato, Germania e Francia fanno la riforma del patto europeo di stabilità. «Regole severe, le vecchie lo erano solo sulla carta», dice il tedesco Lindner. «Giorgetti? Sentito al telefono», aggiunge il francese Le Maire. Ma l’Italia frena e adesso è isolata nell’incontro decisivo di oggi all’Ecofin

UE/ITALIA. I ministri Le Maire e Lindner «fiduciosi». Telefonata con Giorgetti, che ancora non chiude la partita. Ma l’Italia è messa alle strette

Francia e Germania accelerano sul Patto e annunciano l’intesa Il ministro delle finanze tedesco Christian Lindner e quello francese Bruno Le Maire - LaPresse

«Ci abbiamo parlato e siamo fiduciosi sull’intesa domani». L’appiglio offerto all’Italia consisterebbe nella disponibilità a rivedere le norme sulla flessibilità «considerando» l’impatto della stretta sui tassi d’interesse. «Andiamo verso un accordo al 100%», conferma giubilante il francese Bruno Le Maire.

RESTANO IN REALTÀ in sospeso due punti non secondari: la velocità con la quale si dovrà raggiungere il parametro sul rapporto deficit/Pil, che di fatto è passato, grazie all’espediente della «clausola di garanzia» reclamata e ottenuta dalla Germania, dal 3% all’1,5%. Il secondo è il margine di deviazione accettabile in merito all’obiettivo annuo sulla spesa. Ma nel complesso i due ostacoli non sembrano più insormontabili se Le Maire già annuncia «la tappa storica nel rafforzamento dell’identità e della sovranità europee».

L’accordo, che Lindner impaziente dava per probabile già ieri sera, dovrebbe essere sancito oggi nel vertice Ecofin che, nonostante le proteste dell’Italia, che avrebbe preferito un incontro in persona, sarà in videoconferenza «per garantire la massima partecipazione». I due ministri guida «comprendono» che la videoconferenza non sia «la cosa migliore» ma assicurano di «aver cercato in qualche modo di trovare il

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La popolazione di Gaza senza riparo dalle bombe – 19.454 morti dall’inizio dell’offensiva – e alla fame. Striscia senza cibo, Human Rights Watch accusa i vertici israeliani di perseguire una strategia deliberata con «l’intento di affamare i civili come metodo di guerra»

ARMAS . La denuncia di Human Rights Watch. Dentro Israele monta lo scetticismo sulla vittoria. E in Qatar riprende il negoziato

Rafah, camion umanitari presi d'assalto da palestinesi affamati Rafah, camion umanitari presi d'assalto da palestinesi affamati - Ap

Dei 19.453 palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani dal 7 ottobre ad oggi, 109 sono della famiglia allargata dei Doghmush. Si è saputo solo ora, dopo giorni, il bilancio di morte e lutto che ha devastato la famiglia più grande di Tel Al Hawa, alla periferia del capoluogo Gaza city. Sara Doghmush, 26 anni, con studi da poco conclusi all’Università di Siena, segue da Milano, dove ora vive, le notizie drammatiche che riguardano la sua famiglia. «Il nostro quartiere è stato uno dei più bombardati di Gaza city» racconta al manifesto «sapevo che molti Doghmush sono stati uccisi, ma non immaginavo così tanti, è terribile». Suo padre e sua madre sono salvi. «Si trovano a Rafah come tanti sfollati dal nord e stanno bene. Invece i miei due fratelli sono stati feriti, uno in modo grave. Sono preoccupata perché da 15 giorni non riesco a raggiungere i miei genitori al telefono, delle volte sono presa dallo sconforto e immagino gli scenari peggiori»», prosegue Sara che appena qualche settimana prima del 7 ottobre aveva festeggiato il suo matrimonio con la famiglia. «Vivo nell’ansia, non so come avere notizie, posso solo pregare e sperare che siano vivi».

Migliaia di palestinesi originari di Gaza vivono la stessa angoscia, tra notizie di massacri di civili, blackout nelle comunicazioni telefoniche e di Internet – l’ultimo qualche giorno fa è durato 72 ore – e il dolore di sapere la propria famiglia sfollata, senza un riparo e alla fame. Human Rights Watch lancia un’accusa durissima a Israele. «Per oltre due mesi – denuncia Omar Shakir, direttore di Hrw per Israele e Palestina – «Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo e acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da funzionari israeliani di alto rango e che riflette l’intento di affamare i civili come metodo di guerra». L’ong per la tutela dei diritti umani, ha intervistato 11 palestinesi sfollati tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Hanno descritto le loro difficoltà nel trovare beni di prima necessità. «Non avevamo cibo, né elettricità, né internet, niente di niente», ha detto un uomo che aveva lasciato il nord di Gaza. «Non sappiamo come siamo sopravvissuti». Nel sud di Gaza, gli intervistati hanno descritto la

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Il filosofo e militante Antonio Negri si è spento a 90 anni. Una vita ispirata alla passione etica e politica del comunismo contro proprietà, confini e capitale. Attraverso le generazioni. Il «caso 7 aprile», per il manifesto con Rossana Rossanda, una battaglia politica e garantista

Toni Negri - Tano D'Amico (Archivio Il Manifesto)

 

Antonio Negri è scomparso ieri a Parigi a novant’anni. La notizia è stata resa nota dai figli Anna, Francesco e Nina e dalla filosofa francese Judith Revel, compagna di vita da 27 anni.

Quella di Negri non è stata la storia di un intellettuale privato, l’avventura di un uomo di genio o al contrario di un mefistofelico «cattivo maestro». È stata la vita di un «militante comunista», così si è sempre definito, parte di un’esperienza collettiva, trasversale e conflittuale che ha legato più generazioni del Novecento a quelle attuali. Un percorso, a tratti epico, non senza contraddizioni, che ricorda quello di altri teorici e politici della storia del movimento operaio. «Il comunismo – ha spiegato Negri – è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale».

Toni Negri, nell'ultima intervista al manifesto

«Il comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale»

UNA VITA PASSATA a cercare una strada impervia, e controvento, verso un altro tipo di rivoluzione che non è più, solo, qualcosa che porta al potere, ma che cambia il potere. «La rivoluzione non la si fa, ma ti fa – disse in occasione della pubblicazione di Assemblea (Ponte alle Grazie), uno dei libri con Michael Hardt insieme a ImperoMoltitudine e Comune (Rizzoli), tra gli altri – Bisogna smetterla di mitologizzarla: la rivoluzione è vivere, costruire continuamente momenti di novità e di rottura. Non si incarna in un nome: Gesù Cristo, Lenin, Robespierre o Saint Just. La rivoluzione è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva».

Toni Negri

«La rivoluzione non la si fa, ma ti fa. Bisogna smetterla di mitologizzarla: la rivoluzione è vivere, costruire continuamente momenti di novità e di rottura. Non si incarna in un nome»

QUESTA IDEA è il principale lascito etico e politico di un filosofo che ha avuto la fortuna di trovarsi a metà strada tra il pensiero critico e la militanza politica, ed è passato in permanenza dall’una all’altra, misurando la differenza tra la teoria e la prassi.

Ha scontato durissime sconfitte senza però rassegnarsi. E ha coltivato un inesauribile desiderio di ricercare, insegnare e organizzare. Non parliamo dunque dell’autore di un’opera fine a se stessa, né di un ideologo privo di rapporti con la realtà, ma di un teorico militante autore di più di 80 libri tradotti in molte lingue che ha sperimentato il «sogno di una cosa». E anche i suoi incubi.

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AVERE CREDUTO, organizzato, pensato e sofferto come migliaia di altre persone in questo sogno – che alcuni grandi filosofi hanno chiamato «principio speranza» e che lui preferiva definire la «gioia» con il suo amato Spinoza al quale ha dedicato L’anomalia selvaggia (DeriveApprodi) scritto in carcere – è costato a Negri quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione.

Toni Negri al corteo del 15 Novembre 2003 a Parigi foto di Tano D'Amico /Archivio Manifesto
Toni Negri al corteo del 15 Novembre 2003 a Parigi foto di Tano D’Amico /Archivio Manifesto

LA STORIA È STATA RACCONTATA nell’autobiografia scritta con il filosofo e scrittore Girolamo De Michele Storia di un comunista (Ponte alle Grazie). È qui che si possono leggere le origini di una traiettoria e i suoi tormentati sviluppi dall’infanzia cattolica negli anni veneti dall’immediato Dopoguerra alla gioventù socialista, dall’apprendistato filosofico al marxismo operaista di cui è stato uno dei maggiori teorici e ricercatori. L’insegnamento universitario a Padova, il ’68 degli studenti e le lotte operaie tra la Fiat a Torino e Porto Marghera. E, dopo la strage di piazza Fontana nel 1969, la militanza nelle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia.

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Toni Negri: «Il futuro delle lotte: dalla fabbrica alla vita»

FURONO GLI ANNI delle lotte operaie, sociali e femministe che avanzavano impetuosamente in un paese dove la conflittualità politica raggiunse un’intensità drammatica. Arrivò l’insurrezione del 1977, la spaccatura radicale con il Partito Comunista. Iniziò la dura risposta repressiva che portò all’arresto di migliaia di militanti.

Negri e centinaia di esponenti dell’Autonomia operaia furono arrestati il 7 aprile 1979 e nei mesi successivi. Alcuni di loro attesero fino a 44 mesi l’inizio del processo il cui castello di accuse chiamato «teorema Calogero» fu demolito dalla corte d’appello di Roma nel 1987.

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Non fu banda armata, la tardiva riparazione

Per l’autore di Marx oltre Marx (Manifestolibri) – pubblicato dopo un seminario parigino con Louis Althusser nel 1979 – arrivarono accuse cangianti: dall’essere «capo» delle Brigate Rosse, ipotesi notoriamente smentita, all’aver partecipato ad atti terroristici e d’insurrezione armata. Negri scontò allora 4 anni di carcerazione preventiva.

ARRIVÒ L’ELEZIONE in parlamento nel 1983 con il partito radicale. E poi, dopo il voto del parlamento, l’esilio in Francia. «In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato – ha raccontato nell’ultima intervista a questo giornale – Ne soffro ancora molto. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere che hanno avuto la vita devastata».

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Toni Negri, un pregiudizio lungo quarant’anni

Il ritorno in Italia nel 1997. E di nuovo la galera. Per poi tornare libero e affermarsi come intellettuale a livello globale. Negri ha continuato a cercare nuovi «processi costituenti» nella contro-rivoluzione neoliberale in cui ci troviamo immersi. Per la storia de Il Manifesto, questa vicenda si radica negli anni della sua nascita di quotidiano e di gruppo politico.

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C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria

Lo spartiacque è stato il «processo 7 aprile» che portò a una vibrante campagna garantista, un caso giornalistico e politico unico sostenuto da Rossana Rossanda. «Una persona meravigliosa, allora e sempre», così la ricordava Negri.

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Il riassetto prevede la nomina di due assessore in sostituzione delle dimissionarie Milena Barzaglia e Federica Rosetti e la riassegnazione di alcune deleghe agli attuali amministratori

 Il sindaco e le due nuove assessore

l sindaco di Faenza Massimo Isola ha presentato oggi nel primo pomeriggio le nuove designazioni che riguardano la Giunta comunale. Il riassetto prevede la nomina di due assessore in sostituzione delle dimissionarie Milena Barzaglia e Federica Rosetti e la riassegnazione di alcune deleghe agli attuali amministratori. Nuova assessora al Bilancio e al Patrimonio sarà Denise Camorani, con esperienza in consulenza, contabilità, formazione e progettazione del terzo settore mentre le deleghe al Turismo e alle Parità di genere andranno a Simona Sangiorgi, docente e ricercatrice universitaria, già facente parte della precedente Giunta guidata dal Sindaco Malpezzi.

“In accordo con il sindaco e con Italia Viva ho deciso di fare un passo indietro rispetto al mio incarico di assessore al turismo nella Giunta comunale di Faenza - ha detto Rosetti - Sono consapevole di come l’alluvione, insieme alle dimissioni dell’assessora Barzaglia per motivi personali, abbiano determinato la necessità di una modifica degli assetti all’interno della Giunta comunale, che prevede sia l’introduzione di nuove competenze relative alle deleghe del bilancio concesse a Italia Viva, sia una ripartizione diversa delle responsabilità dei singoli assessori e dei partiti che compongono l’attuale maggioranza, compresa Italia Viva. Per questo motivo lascio la Giunta con serenità, perché Italia Viva ottiene una delega più importante e di prestigio e sapendo che le scelte sono state concordate nel solo interesse di consolidare la capacità dell'azione amministrativa dei prossimi anni per affrontare le sfide che Faenza avrà davanti. Ringrazio in ogni caso il sindaco Massimo Isola, il capogruppo Alessio Grillini e Italia Viva per l’opportunità che mi è stata data, un’esperienza per me totalmente nuova a cui ho dedicata tutta me stessa. Nel panorama turistico romagnolo Faenza deve continuare ad essere ambiziosa giocando al meglio le proprie peculiarità territoriali e culturali uniche. Lascio una serie di progetti a cui stavo lavorando da tempo che spero potranno essere portati a termine. Il mio impegno attivo a favore della comunità proseguirà all’interno di Italia Viva in qualità di dirigente a livello provinciale”.

“Con questi due innesti – dichiara il sindaco Massimo Isola – rafforziamo la compagine amministrativa di Giunta. Denise e Simona sono persone di esperienza, conosciute e molto stimate. Le ringrazio di cuore per avere accettato questa sfida in un momento delicato per Faenza. Le alluvioni di maggio con la prima fase di emergenza e ora di ricostruzione

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WORKFARE ALL'ITALIANA. Il governo ha avuto un anno per comunicare le modalità del passaggio dal "reddito di cittadinanza" all' "assegno di inclusione". Poi ha deciso di farle partire lunedì 18 dicembre, a dodici giorni dalla scadenza, per evitare ingorghi telematici. 700 mila famiglie interessate. Diversi «occupabili» non trovano corsi, né sono pagati. Sempre lunedì la ministra del lavoro Calderone incontra i sindacati

Da lunedì 18 dicembre inizia la corsa ad ostacoli per l’assegno di inclusione La ministra del lavoro Marina Calderone - Ansa

Nove giorni, escluse le feste. Tanto mancherà alla fine ufficiale del «reddito di cittadinanza» lunedì 18 dicembre, quando sarà possibile iniziare a fare domanda, tramite patronati e Caf o online sul sito dell’Inps tramite lo Spid, per il nuovo sussidio «assegno di inclusione». Dopo un anno mancava ancora un decreto ministeriale, depositato solo ieri alla Corte dei conti. Lo ha fatto sapere il ministero del lavoro che ha annunciato una campagna di informazione sull’accesso al nuovo sussidio destinati a nuclei familiari «poveri assoluti» con almeno una persona con disabilità, minori, over 60. L’importo massimo annuo sarà di seimila euro, incrementabile in base alla composizione del nucleo familiare e alle necessità abitative. Un single che non guadagna, e ha un figlio a carico e un affitto oltre i 280 euro avrà un «assegno» di 855 euro mensili (6mila x 1,15) + (280 x 12 mesi). Una famiglia con due adulti ed un figlio disabile nelle stesse condizioni prenderà 1230 euro (6mila x 1,90) + (280 x 12 mesi). E così via.

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Ex beneficiari Rdc, sì al sostegno solo da 40 mila

Il sussidio durerà 12 mesi, non più 18 rinnovabili per altrettanti, com’era il caso del «reddito di cittadinanza». È uno dei cambiamenti significativi apportati dal governo Meloni. Il taglio dei sei mesi mira a risparmiare sulle spalle dei più poveri ritenuti «non abili» al lavoro. Secondo le stime dell’Inps ad essere interessati sono 737.400 nuclei familiari di cui 348.100 con almeno un minore, 215.800 con almeno un disabile e 341.700. Ogni 90 giorni dovranno presentarsi ai servizi sociali. Se non lo faranno il sussidio sarà sospeso.

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Guerra ai poveri: 400 mila famiglie escluse dal reddito di cittadinanza senza formazione né lavoro

Ora per queste persone inizia la corsa, con le vacanze di natale in mezzo. Dovranno cercare di non perdere il sussidio, anche se avrà un nome diverso. Per evitare di fargli perdere un mese di sussidio potranno usare l’Isee del 2023. In ogni caso è un’altra limitazione: non tutti sono aggiornati, per di più su una misura in pratica sparita dal dibattito politico e relegata all’invisibilità mediatica. Non tutti hanno accesso all’online. E potrebbero trovare i Caf e patronati chiusi durante le vacanze. Tendere trappole, inventarsi nuove procedure, cambiare nome (l’assegno di inclusione è la quinta formulazione di una politica assistenziale dal 2017) è tipico delle burocrazie che rendono la vita un inferno. Si escludono sempre più persone e si risparmia sui loro bisogni. È un altro aspetto del Workfare peggiorato dal governo in carica. Conoscendo il ritornello per cui il «reddito di cittadinanza» era migliore ricordiamo i dati Inps su quante persone sono state escluse da esso. Quel sussidio non è stato erogato a un milione e novecentomila persone in quattro anni. Nello stesso periodo un altro milione è «decaduto». A 300 mila è stato revocato. È invalsa in questi mesi la nozione di «esodati del reddito di cittadinanza». Quelli che sono stati esodati dal reddito di cittadinanza sono stati dimenticati. Un’altra prova della grave mancanza di conoscenza della logica del Workfare, non solo in Italia.

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Rdc, il governo annuncia la piattaforma per la formazione. Le Regioni: «Non ne conosciamo le funzionalità»

Poi ci sono i «poveri assoluti occupabili» tra i 18 ai 59 anni. Hanno già perso il sussidio – pare 300 mila persone – con un sms da luglio. Per loro è stato pensato il «supporto di formazione e lavoro» da 350 euro, un importo inferiore di almeno 200 euro medi rispetto al «reddito di cittadinanza». Per averli dovranno trovarsi un corso di formazione. E nel caso lo trovino non è detto che siano pagati a causa di disfunzionalità delle piattaforme, come abbiamo raccontato su Il Manifesto. Un altro ostacolo è il restringimento del reddito Isee inferiore pari a 6 mila euro (per avere l’«assegno di inclusione» il paletto è fissato a 9.360 euro). E, infine, c’è la domanda alla quale nessuno dei sostenitori di destra e sinistra delle «politiche attive del lavoro» risponde: quale lavoro troveranno i superstiti di questa selezione dopo essersi «formati»?

 

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Orbán si mette di traverso sui 50 miliardi di aiuti all’Ucraina e blocca il bilancio comunitario. Inclusi i fondi per la lotta all’immigrazione esaltati da Meloni. Che sul nuovo Patto di stabilità rischia di trovarsi di fronte a un dilemma: accettare la resa o non firmare, entrando in rotta con la Ue

ITALIA/UE. Il vertice Ecofin del 20 rischia di andare a vuoto. Per la premier il rischio di dover scegliere tra il no e la resa si fa più concreto

«Posizioni distanti» Meloni nel tunnel del Patto di stabilità Giorgia Meloni - Ansa

Per Giorgia Meloni si avvicina il momento della scelta più difficile. Il rischio di dover decidere tra un veto sulla riforma del Patto di stabilità che potrebbe guastare i rapporti con la Ue e l’ingoiare regole capestro è concreto. Ieri lo hanno detto quasi senza perifrasi sia lei da Bruxelles che Giorgetti da Roma.

«Le posizioni sono ancora abbastanza distanti. Bisogna lavorarci ora per ora», ammette la presidente del consiglio. «Le possibilità di arrivare a un accordo la prossima settimana sono scarse», conferma il ministro dell’Economia. È dunque probabile che anche il vertice straordinario Ecofin del 20 dicembre vada a vuoto. Del resto, duettano i principali esponenti del governo, decisioni di tale portata «non si possono prendere in videonconferenza». Servirà probabilmente un secondo vertice eccezionale prima del 31 dicembre, stavolta in persona. Sempre che ce ne siano gli estremi perché convocare un vertice per registrare il fallimento annunciato sarebbe solo controproducente.

LA PARTITA NON È né chiusa né persa, però non è neppure vicina a concludersi in modo per l’Italia soddisfacente. Sul tema, nel punto stampa da Bruxelles, la premier è particolarmente cauta, quasi pesa le parole. Nessuna richiesta ultimativa in sé: «È un equilibrio che deve tenersi insieme. Ci sono ancora almeno tre punti in discussione e creano un equilibrio diverso. Bisogna tenere aperte tutte le strade finché non si capisce qual è il punto di caduta migliore che si può ottenere».

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Crack Mps: tante colpe, nessun colpevole

I tre punti sono tali da non autorizzare grandi ottimismi, data la posizione rigida assunta dalla Germania e dai Paesi nordici: i parametri delle clausole di salvaguardia su deficit e debito, in particolare quella zona cuscinetto sul deficit che porterebbe di fatto la soglia del parametro ben al di sotto del 3% di Maastricht; la flessibilità nel rientro dello 0,5% sul deficit, che i frugali, e neppure tutti, sono disposti a concedere solo per tre anni mentre Italia e Francia la vorrebbero fissa, tenendo cioè sempre conto degli interessi maturati per le spese strategiche, Green Deal, digitalizzazione e Difesa; gli incentivi per procedere con le riforme, in particolare quelle del Pnrr e per la Difesa. Su un pacchetto del genere trovare un punto d’equilibrio che soddisfi sia la Germania che l’asse franco-italiano sarà un’impresa.

Meloni prova a giocare di diplomazia, evita di minacciare apertamente il veto: «Non voglio metterla così. Non sarebbe un buon modo di cercare una sintesi». Poi però lei stressa conferma che la possibilità estrema non è esclusa: «Solo una cosa non posso fare: dare il mio ok a regole che non io ma nessun governo italiano potrebbe rispettare». Giancarlo Giorgetti è più stringato: «Metteremo la firma solo se ci sono gli interessi del Paese». Detta firma, anche se la premier per diplomazia lo nega, trascina anche quella sul Mes. «Questo link lo vedono solo in Italia», assicura Giorgia Meloni, ma firmare il Mes dopo aver bloccato il Patto di stabilità è una eventualità non contemplata.

SAREBBE UNA SCELTA difficilissima per tutti. Per questo governo lo è ancora di più. Nel suo primo anno a palazzo Chigi la presidente del consiglio ha ottenuto successi politici molto più a Bruxelles che a Roma. Di concreto, anche da questo difficile Consiglio europeo non porta a casa niente. Ha esaltato i quasi 10 miliardi per la lotta contro l’immigrazione, giacché solo di questo si tratta, inseriti nella bozza di modifica del bilancio. Ma sono soldi virtuali, almeno per ora, dato che l’amico ungherese Viktor Orbán li ha bloccati. Si compiace per gli applausi tributati dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen all’accordo con l’Albania. Che però è congelato dalla Corte costituzionale albanese. Meloni è ottimista sullo soluzione positiva di entrambe le vicende ma al momento la realtà è questa.

Dal punto di vista politico, invece, qualche risultato la premier italiana lo incamera: è stata importante se non decisiva nel costringere Orbán a una prima ma non definitiva resa: cose che in Europa contano parecchio. Il duello tra lei e il presidente francese Emmanuel Macron si è concluso con un’alleanza cementata dall’interesse comune. Pur se solo sulla carta, i falchi che puntavano i piedi sul bilancio negando anche un solo euro alla crociata sull’immigrazione hanno fatto un passo indietro. Però se l’Italia da sola bloccasse sia la riforma del Patto di stabilità che quella del Mes il clima a Bruxelles diventerebbe molto meno idilliaco. Se invece Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti si piegassero, dovrebbero poi governare per quattro anni in condizioni proibitive. Nessuno più di loro, oggi, spera che quel magico punto d’equilibrio, di qui ai botti di capodanno, si materializzi

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