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L’intesa sul nuovo Patto di stabilità si scontra con il muro del rigore. Dopo 8 ore i ministri Ue gettano la spugna: se ne riparla intorno al 20 dicembre. Ma il tedesco Lindner avverte: «I deficit si abbassano, non si perdonano». Giorgetti minaccia di non firmare e frena anche sul Mes

NODO ALLA GOLA. Niente intesa, i ministri Ecofin parlano di passi avanti significativi ma bisogna trattare ancora. Giorgetti:«No a un cattivo accordo»

Paolo Gentiloni all’Eurofin di Bruxelles foto Ap Paolo Gentiloni all’Eurofin di Bruxelles - foto Ap

I ministri Ecofin gettano la spugna alle 4 del mattino dopo una “cena” durata 8 ore. Passi avanti «significativi» ma l’accordo sul nuovo patto di stabilità ancora non c’è. Se ne riparlerà in un vertice straordinario Ecofin tra il 18 e il 21 dicembre, dopo il prossimo Consiglio europeo del 14 e 15, in modo che anche i capi di governo possano affrontare in via informale la questione. Il commissario Ue Paolo Gentiloni, cauto per natura, non azzarda percentuali: «La missione non è compiuta ma ci sono ragionevoli possibilità di trovare l’intesa entro l’anno». Il francese Bruno Le Maire invece si butta: «Successo al 95%». Il collega tedesco Christian Lindner frena ma non troppo: 92%. Un gioco delle parti tra Francia e Germania che non si limita a previsioni e percentuali.

UN TESTO SUL QUALE il compromesso sembra possibile c’è, approvato dai quattro Paesi maggiori, Germania, Francia, Italia e Spagna, ma contrastato da sette “frugali”. Prevede un triennio di flessibilità, dal 2025 al 2027, nel rientro sul deficit, che ogni Paese dovrebbe concordare con la Commissione. Ma la sensazione è che il nodo sia più aggrovigliato. «Noi accettiamo un pacchetto complessivo. Non si può isolare un punto dagli altri», commenta il ministro italiano Giancarlo Giorgetti e fa risuonare per l’ennesima volta la minaccia di non firmare un’intesa insoddisfacente: «Piuttosto che un cattivo accordo è meglio tornare alle vecchie regole».

LA CONTESA, come prevedibile, è stata tutta intorno a una voce sola, anche perché su tutto il resto i rigoristi la avevano già avuta vinta: il rientro sul deficit. La clausola di garanzia chiesta dalla Germania impone un rientro dello 0,5% ogni anno. La controproposta francese abbassava l’esborso allo 0,3% del Pil a patto che lo 0,2% fosse investito in spese strategiche, il verde, il digitale, la difesa. Lindner ha puntato i piedi: «I deficit si abbassano, non si perdonano». Un po’ è rigorista ai confini dell’integralismo di suo, un po’ è pressato dalle difficoltà in casa, diventate mastodontiche dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha dichiarato incostituzionale lo spostamento di 60 miliardi presi per il Covid, dunque non a deficit, alla voce spese ecologiche.

È di fronte a questa impasse insuperata che è spuntata la proposta di compromesso: una formula che, «considerando» l’aumento selvaggio dei tassi deciso dalla Bce nell’ultimo anno e la necessità riconosciuta anche dai falchi più rapaci di trovare un equilibrio tra rigore e investimenti, concederebbe tre anni di flessibilità, evitando così le procedure d’infrazione per deficit eccessivo che minacciano una decina di Paesi tra cui l’Italia.

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Però non è facile credere che le difficoltà siano tutte qui, rappresentate solo da sette Paesi particolarmente rigoristi. Il problema inconfessato è l’intera logica delle nuove regole. Il ministro italiano troverebbe «logico e coerente con le aspirazioni europee» rendere definitivo l’accordo transitorio di compromesso. «Abbiamo accettato le salvaguardie proposte dalla Germania ma se i governi continuano a mantenere alti gli standard delle ambizioni europee le regole fiscali devono essere adeguate», prosegue. L’allusione è ancora a quella richiesta di contare nel deficit le spese strategiche che il ministro tedesco Lindner ha però liquidato sdegnosamente: «Siamo contrari alla golden rule». Ma non c’è solo questo: le «clausole» a cui allude Giorgetti e che sembrano essere già passate in giudicato portano di fatto il tetto del deficit dal 3% di Maastricht all’1,5%. Il rientro sul debito di un punto percentuale all’anno, anche nell’arco non di 4 ma di 7 anni come chiedono Italia e vari Paesi con la solita resistenza nordica, è una pietra al collo da 20 miliardi l’anno. La richiesta di valutare la necessità di rientro del deficit sulla spesa primaria invece che strutturale, cioè senza includere gli interessi sul debito, è già stata respinta dai frugali.

NEL COMPLESSO L’INTERA logica della proposta iniziale della Commissione, basata su trattative flessibili, Paese per Paese, con la Commissione stessa, rischia di uscire non solo stravolta ma addirittura rovesciata. La trattativa dei prossimi 10-15 giorni sarà dunque più profonda e complessiva di quanto i ministri ammettano.

Per l’Italia, che ha dovuto incassare anche lo smacco, peraltro previsto, della nomina della spagnola Nadia Calviño alla guida della Bei al posto del candidato italiano Daniele Franco, la partita si gioca anche sul tavolo del Mes. Giorgetti aveva fatto capire ai colleghi che la questione si sarebbe potuta sbloccare la settimana prossima a fronte di un patto con elementi di flessibilità rilevanti. Il vicepremier forzista Antonio Tajani già si era lanciato, dichiarandosi in un’intervista a favore della ratifica. Il ministro italiano dell’Economia frena: «È in calendario il 14 dicembre. Deciderà il parlamento». La ratifica non è certa. In realtà non lo è ancora neppure la firma dell’eventuale accordo sul patto.

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IL CASO. Le grandi aziende energetiche non dovranno versare l’ultima rata della tassa sugli extraprofitti e risparmieranno così 450 milioni di euro. Ma la cifra potrebbe essere più alta per quest’anno. E per il prossimo le modalità vanno ancora definite. Le opposizioni denunciano anche un altro condono fiscale. La sanità è il problema del governo: i medici e infermieri annunciano nuovi scioperi a gennaio

Un regalo di Natale  alle società energetiche La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Ansa

È stato approvato al Senato, con 87 voti favorevoli e 46 contrari, il «decreto anticipi» collegato a una legge di bilancio varata due mesi fa dal Consiglio dei ministri che ieri sera aspettava ancora un corposo pacchetto di emendamenti con i quali il governo Meloni dovrebbe modificare un testo presentato come un sacro testo inemendabile.

IL PRIMO SCONTRO è stato provocato da uno sconto da 450 milioni di euro sulla tassa sugli extra-profitti delle società energetiche. Per Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, potrebbe essere il doppio. La tassa era stata prevista dal governo Draghi per un importo teorico di 8,3 miliardi di euro, è stata rimodulata nella prima finanziaria di quello Meloni (2,5 miliardi), ora si arriverebbe a un’ulteriore modifica (450 milioni o anche 800). Si permetterebbe così alle compagnie che dovevano versare l’ultima tranche della tassa sugli extra-profitti al 30 novembre di non pagare, almeno per quest’anno. Per il prossimo le modalità sono ancora da stabilire.

«DAL 2021 fino a settembre 2023, le società energetiche hanno registrato profitti per 70 miliardi di euro, in gran parte dovuti all’incremento vertiginoso delle bollette a carico di famiglie e imprese» ha ricordato Bonelli. «Non bastava accanirsi sulle famiglie dicendo No alla proroga del mercato tutelato, ora arriva anche il regalo di Natale per le società energetiche». «Saldi e sconti per banche e grandi società energetiche e salasso per i cittadini alle prese con l’aumento di mutui e bollette» ha sintetizzato Giuseppe Conte dei Cinque Stelle.

LA SECONDA POLEMICA, con bagarre in aula e sospensione di cinque minuti , ha riguardato Claudio Lotito, presidente della Lazio e vicepresidente della Commissione Bilancio per Forza Italia. Un emendamento a suo nome ha prorogato i termini scaduti delle prime rate della «rottamazione quater. Non è una proroga ma un «condono», hanno sostenuto le opposizioni, che ne hanno chiesto il ritiro.

IL «DL ANTICIPI» scadrà il 17 dicembre, ora passerà alla Camera dove sarà approvato con la fiducia. è un altro «decreto salsiccia» che contiene una norma anche sugli affitti brevi e turistici, non solo per chi fa l’«imprenditore»: un Codice identificativo nazionale, l’obbligo di dotare gli appartamenti di sistemi di rilevamento di gas ed estintori. In questo caso la maggioranza ha corretto un limite che essa stessa aveva introdotto in precedenza.

SUGLI EMENDAMENTI l’attesa è nervosa. I tempi stringono, oggi è l’Immacolata, arriva il Natale, c’è lo spettro dell’esercizio provvisorio e il palazzo vuole andare in vacanza. La contraddizione è tutta nel campo del governo e della maggioranza. Sono circa 15. Riguarderebbero il comparto difesa: divieto delle armi chimiche; ridenominazione dei progetti navali di rilevanza strategica nazionale; rifinanziamento del «Nato Innovation Fund» e per il Polo nazionale per la subacquea. Sullo sport nuove risorse per il progetto «Filippide» (per persone con autismo), sui Lep si pensa a una proroga al 31 ottobre 2024 dell’attività della cabina di regia. Dal ministero dell’Istruzione arrivano ritocchi all’Agenda Sud, mentre per il Masaf il potenziamento degli uffici di diretta collaborazione. Un altro pacchetto di proposte riguarderebbe anche la Protezione civile, con norme sulla struttura commissariale sisma del 2016 e sulla ricostruzione post-calamità. Sul fronte della Pubblica amministrazione, si punterebbe al finanziamento dei sistemi informativi gestiti dal Dipartimento della Funzione pubblica, a nuove misure a favore di Caivano e ad interventi per il personale della Croce rossa italiana.

E C’È IL TAGLIO alle pensioni nel pubblico impiego, a cominciare dai medici. Dovrebbe arrivare un emendamento anche su questo. Il governo ha già incassato uno sciopero generale il 5 dicembre, un altro è in arrivo il 18, quello dell’«intersindacale». Anaao Assomed, Cimo-Fesmed e Nursing Up ne hanno annunciato un altro a gennaio nel caso in cui l’emendamento non risolva il problema. Sarà salvaguardato chi va in pensione col trattamento di vecchiaia e chi avrà maturato requisiti prima che la legge di Bilancio enti in vigore.

LA MOBILITAZIONE mette in difficoltà il governo. Lo si vede dall’insistenza con la quale Meloni ribadisce di avere messo più soldi che mai sulla sanità. Lo si vede dallo scontro con il ministro della Sanità Schillaci con il quale i sindacati hanno intrattenuto un rapporto cordiale. Per Schillaci le loro richieste sono esagerate. Il governo ha messo 3 miliardi, in tutto 5,3. Invece, per i sindacati ci sarà solo un aumento del 5.78%, 10 punti al di sotto del tasso inflattivo e sarà decurtato al rinnovo del contratto. «Il contratto 2019-2021, pre-firmato a settembre, deve ancora essere licenziato dal Consiglio dei Ministri e dovrà poi passare dalla Corte dei Conti»

 

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«Le condizioni disperate di Gaza sono ormai una minaccia alla sicurezza del mondo intero». Il segretario dell’Onu Guterres apre una procedura straordinaria, mai usata nel mandato, e chiede il cessate il fuoco. Ma Israele bombarda ancora e lo attacca: la minaccia è lui

Vita agra a Huwara, al crocevia per Tel Aviv e Gerusalemme, assediata dagli insediamenti

I dannati del 7 ottobre: «I coloni vengono qui e spaccano tutto» Soldati israeliani circondando Huwara - foto Ap/Ayman Nobani

Ghassan Salman ha riaperto ieri, dopo due mesi, il suo negozio di polli e uova all’angolo di un palazzo che affaccia sullo stradone principale di Huwara, a sud di Nablus, in Cisgiordania. «Questa non è la prima volta che i coloni israeliani assaltano e distruggono il mio negozio e quelli che vedete qui intorno», ci dice mentre sistema dei barattoli su di uno scaffale.

Negozi chiusi nella cittadina di Huwara foto di Michele Giorgio

All’interno il figlio affetta petti di pollo e segue il colloquio senza aprire bocca. «Il 7 ottobre (quando Hamas ha attaccato il sud di Israele, ndr) – ci racconta – mi sono consultato con gli altri negozianti, abbiamo deciso di chiudere prima del solito e di andare a casa, per sicurezza. Non abbiamo fatto in tempo, poco dopo le 13 sono arrivati i coloni, a decine. Sono riuscito ad allontanarmi, ma hanno spaccato la vetrina del negozio con pietre e bastoni». I commercianti lì accanto confermano. «Erano decisi a vendicarsi contro di noi per quanto era avvenuto qualche ora prima. Nessuno li ha fermati, l’esercito ha lasciato fare», aggiunge il proprietario di una rosticceria.

MENTRE PARLIAMO, dall’altra parte della strada, una pattuglia di militari israeliani nota il capannello di persone. Si avvicinano, i commercianti si allarmano. «Basta, ognuno torni al suo negozio, allontanati anche tu, subito. Qui non si scherza» ci intima Ghassan Salman. In pochi attimi torna il silenzio in tutto il villaggio, i soldati si posizionano dietro barriere di cemento armato. Lo stradone è quasi vuoto, con poche auto che transitano dopo aver passato i controlli dell’esercito. Qualche chilometro più a nord c’è Nablus, la più importante delle città palestinesi nel nord della Cisgiordania, chiusa da due mesi e circondata da reparti militari israeliani.

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Washington frena i finanziamenti all’Ucraina. I repubblicani in campagna elettorale stoppano Biden, Zelensky perde di vista i miliardi per pagare soldati e famiglie. All’ultimo momento sceglie di non parlare al Congresso Usa e i suoi dicono: rischiamo di perdere la guerra

CRISI UCRAINA. Il Congresso a maggioranza repubblicana rifiuta di rifinanziare l’Ucraina, l’Ungheria di Orbán si oppone all’ingresso nell’UnioneZelensky nella sede Nato di Bruxelles Zelensky nella sede Nato di Bruxelles - foto Ap

A volte pesa più una parola non detta che mille discorsi. Forse è a questa massima che si è ispirato il presidente ucraino Zelensky quando all’ultimo momento ha deciso di non partecipare alla riunione con il Congresso statunitense prevista per ieri. Anche se solo in via telematica, il capo di stato si sarebbe trovato di fronte a una platea molto diversa da quella che un anno fa gli aveva tributato una standing ovation interminabile.

L’annuncio palese dei deputati repubblicani di voler bloccare la votazione per il rinnovo degli aiuti economici all’Ucraina ha scatenato un caso che stavolta non è solo mediatico. «Se gli aiuti attualmente in discussione al Congresso verranno ritardati, non dico respinti, è impossibile continuare la liberazione dei territori occupati e questo creerà un grande rischio di perdere la guerra» ha detto ieri Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente ucraino. Non da Kiev, non in collegamento video, ma da Washington, dove una delegazione ucraina composta dallo stesso Yermak, dal ministro della Difesa Umerov e il presidente del parlamento Stefanchuk si trova attualmente. Una missione delicatissima, coincisa con la decisione della compagine repubblicana al Congresso Usa di aprire la crisi politica sull’Ucraina.

«È UNA FOLLIA» ha replicato il presidente Biden, «il mancato sostegno all’Ucraina è contro gli interessi degli Stati uniti». Secondo gli analisti politici

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BOLOGNA. «La pace dev’essere sempre possibile ed è sempre possibile». Questo il messaggio che martedì 5 dicembre Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha lanciato dal capoluogo emiliano […]

Matteo Zuppi durante una sua visita a Mosca nel giugno 2023, foto Epa /Ansa Matteo Zuppi durante una sua visita a Mosca nel giugno 2023 - Epa /Ansa

«La pace dev’essere sempre possibile ed è sempre possibile». Questo il messaggio che martedì 5 dicembre Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha lanciato dal capoluogo emiliano durante la fiaccolata interreligiosa.

Oltre mille persone hanno sfilato da piazza San Francesco a piazza Santo Stefano, insieme ai due compagni di viaggio che Zuppi ha voluto con sé: il presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia Yassine Lafram e il presidente della Comunità ebraica di Bologna Daniele De Paz.

Ad aprire il corteo lo slogan «Pace, Salam, Shalom» tra centinaia di fiaccole e bandiere arcobaleno. «Questa sera Bologna può produrre un effetto che ci auguriamo possa avere un’eco importante», aveva detto De Paz prima della marcia. «Esiste un’ampia parte dell’opinione pubblica maggioritaria, che ritiene che ci sia speranza per una vera pace e questo non può che passare dal riconoscimento dei diritti del popolo palestinese», il messaggio di Lafram

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L'ALTRA GUERRA. Doccia gelata da Washington: il budget della Casa bianca è esaurito. E Valerii Zaluzhny, ormai nemico giurato del presidente che secondo la stampa ucraina non lo interpella più, sarebbe salito al 70% nel gradimento degli ucraini

Sondaggi impietosi, aiuti Usa agli sgoccioli, controffensiva fallita: Zelensky in caduta libera? Zelensky con il comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky - Ap

Il presidente Zelensky è in crisi? Sondaggi negativi, cattivi rapporti con i vertici delle forze armate, congiunture politiche internazionali e, come se non bastasse, il sostegno economico degli Usa che vacilla, fanno pensare che la popolarità di uno dei leader più osannati degli ultimi anni stia scricchiolando.

PARTIAMO DA UNA NOTIZIA di ieri: Shalanda Young, capo dell’ufficio budget della Casa Bianca, ha inviato una lettera ai capigruppo del Congresso per avvisare che «senza un’azione chiara, entro la fine dell’anno finiremo le risorse per garantire armi e equipaggiamento all’Ucraina; non c’è a disposizione una pentola magica di fondi per affrontare questi momenti. Abbiamo finito i soldi e quasi finito il tempo a disposizione». Young aggiunge una valutazione ovvia, ma che sintetizza bene un pezzo di storia degli ultimi due anni: il mancato rifinanziamento del fondo per Kiev potrebbe «azzoppare le forze armate ucraine sul campo di battaglia».

La funzionaria statunitense si riferisce a un pacchetto di 61 miliardi di dollari da destinare all’alleato Zelensky che rientra in uno stanziamento complessivo da 106 miliardi, nei quali sono inclusi fondi per Israele, il Pacifico (Taiwan) e il confine con il Messico. Il capo della maggioranza al Senato, Chuck Schumer, ha calendarizzato il voto sui finanziamenti straordinari per la prossima settimana, ma gli analisti temono di più l’ostruzionismo del Gop alla Camera. Infatti lo speaker Mike Johnson insiste per votare separatamente i fondi da destinare a Israele (che i Repubblicani sostengono compatti) e quelli per Kiev.

SECONDO IL WASHINGTON POST, del resto, il fallimento della controffensiva ucraina ha deteriorato i rapporti anche con i vertici dell’Amministrazione Biden. Gli alti funzionari inviati in segreto in Europa dell’est per concordare la strategia con gli omologhi di Kiev all’inizio dell’anno non sono riusciti a convincere la controparte che la manovra doveva concentrarsi solo su un punto (fronte sud) e doveva svilupparsi in maniera rapida e massiccia. Lo Stato maggiore ha preferito attaccare su tre fronti dosando le forze. La conclusione la conosciamo.

Ora, è senz’altro possibile che a Washington vogliano tentare di salvare la faccia, ma è indubbio che qui non si tratta solo di questioni di principio. Si tralasci per un attimo il lato umano della guerra e dunque i morti e la distruzione. Sono in ballo miliardi di dollari di armamenti, carriere politiche, equilibri interni e internazionali che prescindono dalla resistenza dell’esercito di Kiev all’occupazione russa.

Se l’Ucraina perde, anche la Nato perde. E perciò, verrebbe da pensare, non si può permettere che l’Ucraina perda. «Possibile che sia rimasto il solo a credere nella vittoria» si chiedeva Zelensky collerico all’inizio del mese scorso sulle colonne del Times.

FORSE IL PUNTO È che sono sempre meno a crederci con lui. Un recente sondaggio riportato dalla rivista britannica The Economist stima che il comandante in capo delle forze armate, Valerii Zaluzhny, ormai nemico giurato del presidente che secondo la stampa ucraina non lo interpella più, sarebbe salito al 70% nel gradimento dei suoi concittadini. Al secondo posto Kyrylo Budanov, il capo dell’Intelligence militare. Solo terzo (32%) l’attuale presidente.

Sarebbe prematuro e sbagliato affermare che l’astro di Zelensky è già tramontato, due anni di guerra hanno distrutto un Paese, figuriamoci cosa possono fare a un leader politico diventato un idolo dalla sera alla mattina. Tutto dipende dal tempo e Zelensky sa che non gliene resta molto per invertire la sua parabola. Speriamo almeno che agli ucraini il tempo e gli interessi degli alleati riservino un avvenire meno spietato

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