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Washington frena i finanziamenti all’Ucraina. I repubblicani in campagna elettorale stoppano Biden, Zelensky perde di vista i miliardi per pagare soldati e famiglie. All’ultimo momento sceglie di non parlare al Congresso Usa e i suoi dicono: rischiamo di perdere la guerra

CRISI UCRAINA. Il Congresso a maggioranza repubblicana rifiuta di rifinanziare l’Ucraina, l’Ungheria di Orbán si oppone all’ingresso nell’UnioneZelensky nella sede Nato di Bruxelles Zelensky nella sede Nato di Bruxelles - foto Ap

A volte pesa più una parola non detta che mille discorsi. Forse è a questa massima che si è ispirato il presidente ucraino Zelensky quando all’ultimo momento ha deciso di non partecipare alla riunione con il Congresso statunitense prevista per ieri. Anche se solo in via telematica, il capo di stato si sarebbe trovato di fronte a una platea molto diversa da quella che un anno fa gli aveva tributato una standing ovation interminabile.

L’annuncio palese dei deputati repubblicani di voler bloccare la votazione per il rinnovo degli aiuti economici all’Ucraina ha scatenato un caso che stavolta non è solo mediatico. «Se gli aiuti attualmente in discussione al Congresso verranno ritardati, non dico respinti, è impossibile continuare la liberazione dei territori occupati e questo creerà un grande rischio di perdere la guerra» ha detto ieri Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente ucraino. Non da Kiev, non in collegamento video, ma da Washington, dove una delegazione ucraina composta dallo stesso Yermak, dal ministro della Difesa Umerov e il presidente del parlamento Stefanchuk si trova attualmente. Una missione delicatissima, coincisa con la decisione della compagine repubblicana al Congresso Usa di aprire la crisi politica sull’Ucraina.

«È UNA FOLLIA» ha replicato il presidente Biden, «il mancato sostegno all’Ucraina è contro gli interessi degli Stati uniti». Secondo gli analisti politici

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BOLOGNA. «La pace dev’essere sempre possibile ed è sempre possibile». Questo il messaggio che martedì 5 dicembre Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha lanciato dal capoluogo emiliano […]

Matteo Zuppi durante una sua visita a Mosca nel giugno 2023, foto Epa /Ansa Matteo Zuppi durante una sua visita a Mosca nel giugno 2023 - Epa /Ansa

«La pace dev’essere sempre possibile ed è sempre possibile». Questo il messaggio che martedì 5 dicembre Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha lanciato dal capoluogo emiliano durante la fiaccolata interreligiosa.

Oltre mille persone hanno sfilato da piazza San Francesco a piazza Santo Stefano, insieme ai due compagni di viaggio che Zuppi ha voluto con sé: il presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia Yassine Lafram e il presidente della Comunità ebraica di Bologna Daniele De Paz.

Ad aprire il corteo lo slogan «Pace, Salam, Shalom» tra centinaia di fiaccole e bandiere arcobaleno. «Questa sera Bologna può produrre un effetto che ci auguriamo possa avere un’eco importante», aveva detto De Paz prima della marcia. «Esiste un’ampia parte dell’opinione pubblica maggioritaria, che ritiene che ci sia speranza per una vera pace e questo non può che passare dal riconoscimento dei diritti del popolo palestinese», il messaggio di Lafram

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L'ALTRA GUERRA. Doccia gelata da Washington: il budget della Casa bianca è esaurito. E Valerii Zaluzhny, ormai nemico giurato del presidente che secondo la stampa ucraina non lo interpella più, sarebbe salito al 70% nel gradimento degli ucraini

Sondaggi impietosi, aiuti Usa agli sgoccioli, controffensiva fallita: Zelensky in caduta libera? Zelensky con il comandante delle forze di terra Oleksandr Syrsky - Ap

Il presidente Zelensky è in crisi? Sondaggi negativi, cattivi rapporti con i vertici delle forze armate, congiunture politiche internazionali e, come se non bastasse, il sostegno economico degli Usa che vacilla, fanno pensare che la popolarità di uno dei leader più osannati degli ultimi anni stia scricchiolando.

PARTIAMO DA UNA NOTIZIA di ieri: Shalanda Young, capo dell’ufficio budget della Casa Bianca, ha inviato una lettera ai capigruppo del Congresso per avvisare che «senza un’azione chiara, entro la fine dell’anno finiremo le risorse per garantire armi e equipaggiamento all’Ucraina; non c’è a disposizione una pentola magica di fondi per affrontare questi momenti. Abbiamo finito i soldi e quasi finito il tempo a disposizione». Young aggiunge una valutazione ovvia, ma che sintetizza bene un pezzo di storia degli ultimi due anni: il mancato rifinanziamento del fondo per Kiev potrebbe «azzoppare le forze armate ucraine sul campo di battaglia».

La funzionaria statunitense si riferisce a un pacchetto di 61 miliardi di dollari da destinare all’alleato Zelensky che rientra in uno stanziamento complessivo da 106 miliardi, nei quali sono inclusi fondi per Israele, il Pacifico (Taiwan) e il confine con il Messico. Il capo della maggioranza al Senato, Chuck Schumer, ha calendarizzato il voto sui finanziamenti straordinari per la prossima settimana, ma gli analisti temono di più l’ostruzionismo del Gop alla Camera. Infatti lo speaker Mike Johnson insiste per votare separatamente i fondi da destinare a Israele (che i Repubblicani sostengono compatti) e quelli per Kiev.

SECONDO IL WASHINGTON POST, del resto, il fallimento della controffensiva ucraina ha deteriorato i rapporti anche con i vertici dell’Amministrazione Biden. Gli alti funzionari inviati in segreto in Europa dell’est per concordare la strategia con gli omologhi di Kiev all’inizio dell’anno non sono riusciti a convincere la controparte che la manovra doveva concentrarsi solo su un punto (fronte sud) e doveva svilupparsi in maniera rapida e massiccia. Lo Stato maggiore ha preferito attaccare su tre fronti dosando le forze. La conclusione la conosciamo.

Ora, è senz’altro possibile che a Washington vogliano tentare di salvare la faccia, ma è indubbio che qui non si tratta solo di questioni di principio. Si tralasci per un attimo il lato umano della guerra e dunque i morti e la distruzione. Sono in ballo miliardi di dollari di armamenti, carriere politiche, equilibri interni e internazionali che prescindono dalla resistenza dell’esercito di Kiev all’occupazione russa.

Se l’Ucraina perde, anche la Nato perde. E perciò, verrebbe da pensare, non si può permettere che l’Ucraina perda. «Possibile che sia rimasto il solo a credere nella vittoria» si chiedeva Zelensky collerico all’inizio del mese scorso sulle colonne del Times.

FORSE IL PUNTO È che sono sempre meno a crederci con lui. Un recente sondaggio riportato dalla rivista britannica The Economist stima che il comandante in capo delle forze armate, Valerii Zaluzhny, ormai nemico giurato del presidente che secondo la stampa ucraina non lo interpella più, sarebbe salito al 70% nel gradimento dei suoi concittadini. Al secondo posto Kyrylo Budanov, il capo dell’Intelligence militare. Solo terzo (32%) l’attuale presidente.

Sarebbe prematuro e sbagliato affermare che l’astro di Zelensky è già tramontato, due anni di guerra hanno distrutto un Paese, figuriamoci cosa possono fare a un leader politico diventato un idolo dalla sera alla mattina. Tutto dipende dal tempo e Zelensky sa che non gliene resta molto per invertire la sua parabola. Speriamo almeno che agli ucraini il tempo e gli interessi degli alleati riservino un avvenire meno spietato

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Lo ha stabilito il Gup di Roma. Prima udienza il 20 febbraio 2024, a otto anni dall’omicidio

A processo gli 007 egiziani che uccisero Giulio Regeni Giulio Regeni

Dopo esattamente 8 anni, il 20 febbraio 2024 inizierà davanti alla prima sezione della Corte d’Assise di Roma il processo ai quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani accusati dalla giustizia italiana di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni tra il gennaio e il febbraio del 2016 al Cairo. Nel procedimento la Presidenza del consiglio dei ministri si costituirà parte civile e, in caso di condanna, chiederà un risarcimento di 2 milioni di euro. Per la madre del ricercatore friulano, Paola Deffendi, finalmente «è una bella giornata».

Il processo ai quattro agenti della National Security Agency cairota (il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif), accusati di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato, è stato disposto ieri dal Gup di Roma su richiesta del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco. Processo che si è reso possibile dopo la sentenza della Corte costituzionale del 27 settembre scorso che ha dichiarato illegittimo l’art. 420-bis comma 3 del codice di procedura penale perché sarebbe incostituzionale non avviare un procedimento giudiziario contro persone accusate di atti di tortura (anche se l’introduzione del reato nel nostro codice è del 2017, dunque non applicabile al caso) «quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo».

«L’assenza degli imputati non ridurrà il processo ad un simulacro – ha assicurato il pm romano Colaiocco – Poter ricostruire pubblicamente in un dibattimento penale i fatti e le singole responsabilità corrisponde ad un obbligo costituzionale e sovranazionale. Un obbligo che la Procura di Roma con orgoglio ha sin dall’inizio delle indagini cercato di adempiere con piena convinzione».

Malgrado tutti i tentativi delle autorità egiziane di fermare la giustizia italiana e dopo anni di depistaggi anche sanguinosi, ormai è evidente, tra l’altro, che gli 007 egiziani sono a conoscenza della pendenza del processo. «Anche in virtù – come ha riferito l’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini – del recente incontro tra il ministro Antonio Tajani e Al-Sisi, durante il quale il ministro degli Esteri ha informato il presidente egiziano che si procederà in Italia contro i quattro imputati»

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OFFENSIVA ISRAELIANA. Centinaia di morti palestinesi da quanto è saltata la tregua, secondo fonti governative nella Striscia.

Gaza, è di nuovo massacro. Senza più via di fuga 

A Said Majdalawi piace descriversi come «compagno». «Sono uno di sinistra, tutta la mia famiglia è sinistra, lo siamo da sempre» amava ripeterci quando l’abbiamo incontrato, aggiungendo che in Italia legge sempre il manifesto. Originario di Jabaliya, nel nord di Gaza, ma residente in Italia da qualche anno, Said era in Europa il 7 ottobre. Si è subito spostato al Cairo nella speranza di raggiungere in tempo il valico di Rafah. Niente da fare. Da allora prova senza successo ad entrare a Gaza. «Vorrei far uscire da Gaza mia moglie e i miei figli ma l’Italia aiuta solo coloro che hanno la cittadinanza italiana e non quelli con la residenza», ci spiegava ieri al telefono dall’Egitto. «Sono spaventato – ha aggiunto con un filo di voce -, la mia famiglia è sfollata al sud e Israele ora bombarda a tappetto anche lì. Non so cosa fare, l’ansia mi sta consumando».

Said Majdalawi ha ragione a temere per i suoi congiunti. L’offensiva aerea di Israele che ha ridotto in macerie ampie porzioni del nord della Striscia e il capoluogo Gaza city, da quando, venerdì, è saltata la tregua con Hamas, si concentra sul sud. Quella che doveva essere l’area sicura per gli sfollati. «Non c’è posto protetto, colpiscono ovunque» ripetevano ieri i civili palestinesi nei video girati con i telefoni o nei servizi realizzati da Al Jazeera e altri media. Una pioggia di bombe si è abbattuta in particolare su Khan Yunis ma non ha risparmiato località del nord  come Jabaliya, Beit Lahiya e Shujayeh, sobborgo orientale di Gaza city già raso al suolo nel 2014 durante l’operazione «Margine Protettivo». Aerei e artiglieria di Israele hanno colpito case, moschee, edifici pubblici. Per le autorità israeliane erano obiettivi di Hamas. Le immagini che giungevano ieri da Gaza però mostrano zone residenziali colpite a ripetizione e civili che urlavano in preda al panico o che accorrevano in soccorso dei feriti. Nei filmati i bambini portati all’ospedale appaiono ricoperti di sangue e dalla polvere del cemento reso di nuovo polvere dalla potenza distruttiva delle bombe. Impressionanti le scene al centro residenziale Hamad: palazzi costruiti di recente in un’area aperta e pulita, con belle strade dove vivono centinaia di famiglia. Le esplosioni, terrificanti, sono avvenute in serie sugli edifici più esposti. In un video una donna giace a terra in una pozza di sangue, probabilmente raggiunta da una scheggia. Colonne di fumo e polvere si sono alzate da tre moschee centrate in pieno. Sei attacchi aerei si sono concentrati in aree vicine all’ospedale Nasser, pieno di migliaia di sfollati e centinaia di feriti, molti dei quali erano stati evacuati dagli ospedali del nord. Anche Rafah è stata colpita duramente. Il ministero della sanità di Gaza ha riferito nel primo pomeriggio di almeno 200 palestinesi morti da venerdì mattina, in maggioranza donne e bambini. Poche ore dopo sono giunte notizie di un «massacro» a Shujaiyeh dove sono stati colpiti 50 palazzi. «300 i morti», secondo fonti governative a Gaza. Tra i morti di ieri c’è anche il presidente dell’Università islamica, Sufian Tayeh ucciso da un bombardamento nel campo profughi di Jabaliya insieme alla sua famiglia. Tayeh, che dirigeva la più grande università di Gaza, era stato nominato presidente dell’Unesco per le scienze fisiche e astrofisiche in Palestina.

Deir al Balah, sul mare, è stata presa di mira dalla Marina militare: nove morti. Anche in questo caso, dice Israele, sono state distrutte infrastrutture e basi di Hamas che, invece, dopo 57 giorni di una guerra distruttiva, continua a combattere in apparenza non indebolito dagli attacchi israeliani e continua a lanciare razzi, anche ieri. La sua ala militare, le Brigate Ezzedin al Qassam, ha diffuso ieri un nuovo filmato con blitz dei suoi uomini contro soldati e mezzi israeliani. Non si si quando e dove quelle immagini siano state riprese ma si vedono militari israeliani, una ruspa dell’esercito e blindati centrati in pieno da razzi anticarro.

Gli sfollati di Gaza si sono rifugiati a Khan Younis e Rafah a causa dei combattimenti nel nord. Ora, come i residenti, temono di dover scappare di nuovo. «È stata una delle notti peggiori che abbiamo trascorso da quando siamo arrivati ​​qui. Abbiamo paura che entrino anche a Khan Younis. Questa è la stessa tattica che (gli israeliani) usavano prima di entrare a Gaza e nel nord», ha spiegato Yamen, un giovane ad un’agenzia di stampa. «Dove andrò dopo Khan Younis? Non so dove porterei mia moglie e i miei sei figli». In volantini lanciati nelle aree orientali di Gaza e diretto ai residenti di quattro città, si ordina di evacuare non più nei quartieri occidentali di Khan Younis come in passato, ma più a sud, a Rafah. A migliaia sono scesi in strada con le loro cose ammucchiate sui carri, cercando riparo più a ovest. Poi si sono resi conto che ormai non c’è più scampo, ogni posto è rischioso, tranne l’area dei Mawasi, un rettangolo di terra agricola vicino alla costa dove già da ottobre Israele cerca di spingere i civili di Gaza. Ma è così piccolo che non potrà mai contenere due milioni di palestinesi. Ieri i comandi israeliani hanno usato per la prima volta la mappa in cui Gaza è suddivisa in centinaia di quadrati con numeri. Ai civili sarà indicato dove spostarsi durante le operazioni militari. Per i palestinesi, nelle condizioni attuali del territorio, è impraticabile. Amjad Abu Taha, un insegnante di Gaza City, dice che Israele sta cercando di ingannare il mondo suggerendo ai residenti di Gaza l’opportunità di cercare sicurezza, ma, aggiunge, «Tutti sanno che nessun posto è sicuro a Gaza».

Intanto Human Rights Watch denuncia che il 9 novembre attacchi aerei hanno colpito il centro medico Al-Nasr a Gaza City, interrompendo la fornitura di ossigeno all’unità di terapia intensiva neonatale. Il personale medico è stato costretto ad evacuare lasciando i bambini che non potevano essere trasportati da soli in terapia intensiva. Il 28 novembre, durante il cessate il fuoco, i medici sono riusciti a tornare e hanno trovato cinque bambini morti.

Migliaia di persone riempivano ieri sera la cosiddetta piazza degli ostaggi a Tel Aviv. Però lo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi andato avanti per una settimana è concluso. Ora è guerra, dura, anzi peggio, di prima. Reagendo alla ripresa a pieno regime dell’offensiva contro Gaza, Saleh Aruri, uno dei leader di Hamas, ieri ha detto ad Al Jazeera che la sua organizzazione non accetterà il rilascio di altri israeliani senza un cessate il fuoco definitivo e il rilascio di tutti i prigionieri politici palestinesi (7.700). Israele accusa Hamas di aver rotto l’accordo e di non voler più rilasciare 15 donne e due bambini che ha ancora nelle sue mani a Gaza. Per questo ha ritirato la delegazione del Mossad che era in Qatar per le trattative. Hamas sostiene che nella maggior parte dei casi sono militari o ex militari la cui liberazione potrà avvenire solo sulla base di nuove condizioni. In una conferenza stampa, ieri sera, il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che la guerra continuerà, anche con una offensiva di terra, finché Hamas non sarà raggiunto e che sarà fatto di tutto liberare gli ostaggi. Non ha spiegato le ragioni che hanno spinto il ministro della difesa Gallant a rifiutare una conferenza stampa congiunta con lui

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L'INTESA MELONI-RAMA. Un documento interno del governo rivela: costi altissimi per allestire tre strutture dove ci sarà posto per 720 migranti. Un hotspot nel porto di Shengjin, un luogo di trattenimento e un Cpr a Gjader. E mancano ancora le spese per l’ente gestore e i trasferimenti navali a bordo di mezzi militari
Un anno, cento milioni. Ecco il vero prezzo dei campi in Albania Il primo ministro albanese Edi Rama e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni - Ansa

Circola nelle mail dei funzionari dei ministeri coinvolti un prospetto complessivo sul totale dei costi stimati per i centri italiani in terra albanese e accende una prima luce sull’impegno economico della nuova scommessa di Meloni: almeno 92,5 milioni di euro il primo anno e poi 49 per ognuno dei quattro successivi previsti dall’intesa quinquennale. Nel documento che il manifesto ha potuto visionare, finora inedito, c’è un numero importante che smentisce gli annunci della premier: saranno 720, e non 3mila, i migranti trattenuti contemporaneamente oltre Adriatico nella migliore delle ipotesi. Almeno nella fase di avvio del progetto, che da protocollo prevede un totale «non superiore» a quello dichiarato dalla presidente del Consiglio.

Andiamo con ordine. Sull’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama erano trapelate solo due cifre: i 16,5 milioni di euro come anticipo a Tirana entro i tre mesi dall’entrata in vigore del protocollo, verosimilmente per le spese di vigilanza esterna da moltiplicare per cinque anni, resi noti dal Corriere della Sera l’8 novembre scorso; i 100 milioni congelati su un fondo di garanzia per eventuali controversie di cui ha parlato la testata albanese gogo.al. Niente di ufficiale dunque, ma soprattutto nulla di relativo ai soldi che Roma dovrà utilizzare per la gestione diretta del progetto.

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NELLA TABELLA RELATIVA al «totale dei costi stimati» per dare attuazione all’intesa ci sono numeri molto più interessanti. Riguardano le cifre per la realizzazione delle strutture, per le procedure relative alla protezione internazionale, per il personale di polizia e i suoi strumenti logistici. I centri saranno tre: un hotspot al porto di Shengjin (300 posti); una struttura di trattenimento a Gjader (300 posti); un Centro di permanenza per il rimpatrio, Cpr, nella stessa località (120 posti). Probabilmente gli ultimi due si troveranno in una ex base militare e saranno differenziati solo funzionalmente.

PER REALIZZARLI serviranno 36 milioni, mentre la loro gestione è stimata in 8 milioni annui. Per il funzionamento del collegio aggiuntivo della commissione territoriale per l’asilo e le procedure connesse agli iter delle domande sono messi a budget 1,5 milioni ogni dodici mesi. Quasi 40, invece, i milioni necessari su base annuale per le «risorse umane» che si occuperanno delle attività di polizia. Altri 7,5 milioni previsti, una tantum, per gli strumenti logistici a esse relativi (tra mezzi di trasporto, equipaggiamenti, risorse telematiche e voci varie). Le forze dell’ordine saranno organizzate su turni di 15 giorni. Il costo del viaggio andata e ritorno è calcolato in 800 euro per agente, mentre tra vitto e alloggio ne serviranno 120 a testa a notte. Per due settimane di impiego il personale che si occuperà dell’ordine pubblico godrà di un’indennità di trasferta di 450 euro a cui potranno sommarsi fino a 885 euro per gli straordinari (previsti per un massimo di 3 ore ogni giorno).

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RESTANO FUORI, e andranno aggiunte, spese varie ed eventuali al momento non calcolabili su ogni capitolo di spesa. Oltre, come detto, a quelle per l’ente gestore. Il quale dovrà retribuire il suo personale, garantire vitto e alloggio ai migranti ed erogare loro alcuni servizi, tra cui l’assistenza sanitaria. Per un’idea indicativa si possono utilizzare i dati che la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) ha pubblicato nel rapporto L’affare Cpr, presentato a giugno scorso presso la Camera dei deputati.

Il totale relativo al triennio 2021-2023 per i dieci Cpr attivi sul territorio nazionale, almeno fino alla chiusura di quello torinese, con una «capienza teorica di 1.105 posti» è di 56 milioni stanziati a favore dei privati che li gestiscono. Se fosse possibile calcolare matematicamente la proporzione rispetto ai posti andrebbero previsti circa 12 milioni di euro ogni anno. Ma non è escluso che l’Albania, paese con un tenore di vita più basso, possa permettere forme di trattenimento low cost (se il personale impiegato fosse italiano, però, potrebbe costare di più per i benefit da trasferta).

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LUNEDÌ A PALAZZO CHIGI si terrà la riunione preparatoria del Consiglio dei ministri per discutere, tra le altre cose, la legge di ratifica del protocollo, che dovrà passare dal parlamento. In attesa che il governo diffonda cifre ufficiali, più volte reclamate dai parlamentari d’opposizione senza esito, mettendo insieme tutte le stime venute fuori fino a questo punto i costi dell’intesa con Tirana partiranno da una base di 373,5 milioni di euro, senza contare i 100 milioni bloccati nel fondo di garanzia e le spese per l’ente gestore.

E senza contare neanche tutte le controversie giuridiche che si apriranno intorno al trattenimento dei migranti e alle loro richieste d’asilo nel territorio albanese sotto giurisdizione italiana. Oltre alle compicate questioni logistiche, che avranno un ulteriore risvolto economico, sul trasferimento dei migranti verso il porto di Shengjin con navi militari: non esattamente la destinazione dove contano di arrivare persone che hanno rischiato la vita attraversando il mare e spesso il deserto.

 
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