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Congresso Cgil. L'elezione di Maurizio Landini invece aprirebbe un processo virtuoso nel sindacato e nella società

Vincenzo Colla ha avanzato la sua candidatura alla segreteria generale della Cgil. Era suo diritto farlo, e l’ha fatto. Coerentemente all’impostazione sua e dei suoi sostenitori non l’ha fatto quando tutti gli iscritti avrebbero potuto pronunciarsi.

Ma a congressi territoriali e di categoria conclusi. Quasi tutti tranne quello dei pensionati, su cui più o meno esplicitamente punta per fare il ribaltone, rispetto ai congressi degli attivi, regionali e di categoria, che hanno vista un consenso largo per la candidatura di Landini.

Se in punta di diritto la sua scelta è ineccepibile, rivela però uno strano modo di intendere la democrazia dell’organizzazione. «Far votare il segretario agli iscritti è populismo, sarebbe un cedimento alla logica plebiscitaria imperante», hanno detto e scritto alcuni dei suoi sostenitori.

E allora, dato che secondo stime non contestate da loro stessi, la stragrande maggioranza degli iscritti è per Landini, facciamo il Congresso tutti coperti dal documento unitario, e facciamo eleggere il maggior numero possibile di delegati che in Landini non si riconoscono, col minor clamore possibile. Poi quando gli iscritti non hanno più voce in capitolo avanziamo la candidatura. Ineccepibile, statuto alla mano.

Ma se ci sono differenze nel modo di intendere il documento unitario così rilevanti da avanzare una candidatura alternativa a quella proposta da Susanna Cammusso, perché non avanzarla limpidamente nei congressi di base, e dar modo anche agli iscritti di capire e di valutare le differenze di impostazione e di linea, e di eleggere i delegati sulla base di una discussione limpida e trasparente? Difendere la democrazia delegata in tempo di populismo plebiscitario è sacrosanto, specialmente di questi tempi, ma proprio per questo gli iscritti, tutti gli iscritti, hanno il diritto di sapere cosa pensano e come si comporteranno, rispetto ad una questione così rilevante, quelli che delegano. A meno che non si punti ad una composizione del un gruppo dirigente in contrasto con la volontà della maggioranza del proprio popolo.

Pur tuttavia alla resa dei conti i sostenitori di Landini fra i delegati fin qui eletti sono una maggioranza ampia. Ma il soccorso Colla e i suoi se lo aspettano dal congresso dei pensionati. Francamente non mi sembrerebbe un gran segnale di rinnovamento mettere nelle mani dei pensionati, con tutto il rispetto dovuto a questa categoria, la scelta del segretario generale della Cgilo. Confermerebbe l’immagine interessata diffusa dai media e da gran parte della politica di una Cgil vecchia, con la testa e le risorse che le derivano dal passato più che di un sindacato capace di fare i conti col mondo che cambia.
Nella sua conferenza stampa successiva all’autocandidatura Colla esplicita alcuni punti di differente sensibilità nella interpretazione del documento congressuale unitario rispetto a Landini. Difficile cogliere sostanziali differenze, se non una preoccupante accentuazione rispetto alla priorità delle grandi infrastrutture, Tav compresa, e degli investimenti nella filiera energetica per rendere anche per questa via più competitive le nostre imprese. Con un’idea di sviluppo e di crescita nei parametri tradizionali, quelli che stanno portando il modo sulla soglia del disastro ecologico. Mi pare l’argomentazione di Colla anche un passo indietro rispetto al documento unitario e al Piano per il lavoro, che vedeva nella puntuale manutenzione del territorio, nel risparmio energetico, nell’incremento delle energie rinnovabili, la strada maestra per creare buona e stabile occupazione. Capace di durare perché fa durare il mondo, contrastando il disastro ambientale verso cui ci avviamo.

Infine un’ultima considerazione. Chi ha partecipato di questi tempi alle manifestazioni delle donne, degli studenti, dei riders e dei giovani ricercatori precari, delle associazioni dei migranti e di quelle che i migranti concretamente li aiutano e li sostengono, laiche e cattoliche, contro gli orrori del governo giallo verde, ha sentito assieme alla grande determinazione nella difesa dei valori costituzionali messi in discussione, una voglia grande di una dimensione più ampia, che sappia fare sintesi della insoddisfazione crescente per lo stato del nostro paese. E un po’ di rabbia verso la sinistra politica, sempre più impegnata a discutere del proprio ombelico.

Il Congresso della Cgil, i contenuti del documento congressuale unitario, la scelta di Landini come segretario generale, ha suscitato fra loro, spesso lontani dalla Cgil, una qualche speranza che una nuova e più avanzata fase di lotta fosse possibile. Con la Cgil e con il rilancio dell’unità sindacale. Il mio timore è che la candidatura di Colla, e il modo in cui è avvenuta, faccia percepire la stessa vicenda della Cgil nei termini disillusi e disincantati con cui si guarda il dibattito a sinistra. Chiuso nei personalismi e nei recinti autoreferenziali.

L’augurio è che il Congresso della Cgil sappia sfatare questa brutta impressione.

 

 

 

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dal blog del Circolo de "il Manifesto" di Bologna. Articolo dell'avv. Sergio Palombarini

Il decreto legge 113 del 4 ottobre 2018, detto anche decreto Salvini, convertito nella legge n. 132 del 1 dicembre scorso, tra le tante misure che ha introdotto in materia di sicurezza ed immigrazione, ha modificato anche il decreto legislativo n. 142 del 2015. All’art. 13 “Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica” si prevede che:

  1. Al decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, sono apportate le seguenti modificazioni:
    a) all’articolo 4:
    1) al comma 1, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.»;
    2) dopo il comma 1, è inserito il seguente:
    «1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.»;
    b) all’articolo 5:
    1) il comma 3 è sostituito dal seguente:
    «3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2.»;
    2) al comma 4, le parole «un luogo di residenza» sono sostituite dalle seguenti: «un luogo di domicilio»;
    c) l’articolo 5-bis è abrogato.

Dunque la riforma interviene anche sul decreto legislativo che regola l’accoglienza e la vita dei richiedenti asilo in Italia, tra le altre cose sul piano della iscrizione anagrafica. Da una parte si introduce una norma che nega la possibilità di ottenere la residenza sul territorio italiano, dall’altra si abroga quella che fino ad oggi aveva invece regolamentato questo diritto.

Il motivo di tali modifiche appare subito chiaro: la volontà di impedire un radicamento regolare e naturale a chi chiede protezione in Italia. Anche se forse si potrebbe dire di più, ossia che la riforma su questo punto più che in altri sembra un vero e proprio dispetto, una autentica cattiveria. Si consente di permanere ma si preclude l’accesso agli strumenti che rendono più agevole e sicuro il vivere quotidiano, complicando o impedendo l’accesso ai servizi pubblici.

Dopo aver ipocritamente urlato che non si vuol più vedere ragazzi stranieri “che ciondolano per la strada facendo l’elemosina”. Ma a veder bene vi è ancora di più. L’anagrafe è il registro (anche etimologicamente) degli abitanti di un determinato territorio. Serve a tener conto di chi abita e di chi non abita più in una città. E questo prima di tutto per fondamentali esigenze della stessa Pubblica Amministrazione, che per il buon governo del territorio deve sapere chi abita dove, chi si sposta, come sono composte le famiglie, ecc.

Ciò come detto per motivi amministrativi e di governo della cosa pubblica, e quindi anche, ed è molto importante, per motivi di sicurezza. Sicurezza che evidentemente in realtà non interessa poi più di tanto: la cosa più importante anche in questo caso è far vedere che si è fermi ed impietosi, ma con i più deboli.

http://www.ilmanifestobologna.it/wp/2018/12/decreto-salvini-quando-lo-stato-per-discriminare-arriva-a-farsi-danno/

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I sociologi francesi già si lagnano della mancanza di un libro teorico scritto da uno dei gilet jaunes. I politici, da Le Pen a Mélenchon, dichiarano invece di avere nei loro programmi le rivendicazioni dei dimostranti,ma i loro cappelli insidiosi vanno stretti a quelle teste calde. I vecchi nouveaux philosophes, poi, masticano amaro. Tutta l’intelligenza francese si sente spiazzata.

Nostalgia di Sartre? Eppure, a ben vedere, dentro quel movimento ci sono anarchici, gente di estrema sinistra, fascisti, che però non amano le vecchie bandiere, prediligendo non i vecchi gilè dei nostri piccoli borghesi di una volta, ma quelli gialli in dotazione nelle loro macchine. E protestano a partire non a caso dall’aumento delle tasse sul carburante, fottendosene della svolta ecologica di Macron, immaginata a spese loro. D’altro canto i nostri grillini credono che con i loro Vaffa abbiano preceduto la protesta francese. Gongolano quando dichiarano che qui da noi i gilet, per fortuna, sono al potere. Ed è tutto merito loro se non ci sono più proteste violente. Le hanno inglobate, intesi? Sono molti a credere, dandosi buona coscienza, che i casseurs che hanno preso di mira le vetrine delle banche, dove hanno prelevato i bancomat, la minoranza più violenta, siano fascisti. La confusione è totale quando i gilet hanno respinto il tardivo incontro con Macron, ritenendo che nessuno possa, approfittando, parlare a loro nome. La novità sembrerebbe essere questa, anche se i precedenti ci sono, antichi e moderni. Ricordate i luddisti e i casseurs delle fabbriche e delle periferie? Per capirci qualcosa credo che bisogna tornare ai nuovi bisogni primari, alla nuova misère da abbattere. Che avvolge non soltanto le grandi periferie di Parigi.

La nuova povertà non assomiglia in nulla alla vecchia, quella per intenderci dei nostri anni Cinquanta, che i letterati dipingevano con un velo di poesia struggente. La vecchia fame commuoveva chi del proletariato aveva fatto un mito. Il costo della vita odierna è altissimo e non tutti arrivano, come si dice, «a fine mese».

A me ha colpito una donna che intervistata da una radio francese, ha confessato di percepire uno stipendio di soli mille e duecento euro al mese, di vivere in affitto lontano da Parigi. Per raggiungere il posto di lavoro con la sua bagnole, spende sui quattrocento euro mensili. Che fare? Indossa il gilet perché semplicemente non ce la fa più e la tassa sul carburante le ha aperto gli occhi definitivamente.

I fascisti, la sinistra, Macron? Sono stati scupolati dall’evidenza di questa nuova miseria. È una protesta popolare senza bandiere perché non vogliono essere «rappresentati» da nessuno. Non a caso tutto è nato sui social. È forse la «moltitudine» teorizzata forbitamente dal comunista Toni Negri? O assomiglia alla gioventù di «Lotta continua»? Neanche per sogno, anche se è qualcosa che ha molto a che fare con la globalizzazione del mercato che ha rivelato quella dei nuovi bisogni primari.

Certo il giovane Marx avrebbe scritto pagine di fuoco, avvolgenti, su questa protesta, anche se il suo Manifesto del comunismo non avrebbe avuto il successo di allora. Il re è nudo, signori, anche se molti pensano che sia una fiammata che presto si spegnerà. Non si spegneranno i nuovi bisogni di un popolo che non riesce a vivere non tanto al livello pur basso del ceto medio ma nemmeno nella povertà atrocemente alimentare di quello che una volta certi politici chiamavano «popolo bue».

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Governo e opposizione (di piazza). Quella di Torino è l'opposizione migliore perché trasversale, frequentata da giovani e vecchi, alimentata da una lunga lotta, nutrita non dalla chiusura nella piccola valle ma dalla continua raccolta di studi e da uno sguardo lungo sul mondo che brucia il pianeta a colpi di Pil

Almeno in piazza l’opposizione c’è, è forte e si fa sentire. È la Torino dei No Tav, quella che ha studiato e capito i costi, ambientali e materiali, di un’opera che per il solo fatto di essere stata progettata trent’anni fa andrebbe messa in una vetrina di modernariato.

È l’opposizione migliore perché trasversale, frequentata da giovani e vecchi, alimentata da una lunga lotta, nutrita non dalla chiusura nella piccola valle ma dalla continua raccolta di studi e da uno sguardo lungo sul mondo che brucia il pianeta a colpi di Pil.

Grillo non c’è andato e i pentastellati (che invece dovrebbero difendere con forza una loro storica battaglia) erano presenti in pochi insieme ai sindaci, ai gonfaloni e alle forze della sinistra. Un fronte largo, con le idee chiare e, soprattutto, con una radicata convinzione riassunta nello slogan «noi c’eravamo, ci siamo e ci saremo».

Il partito del Pil, che proprio a Torino aveva aperto le danze (e le prime pagine di molti giornali), prima con la manifestazione dei Sì Tav e poi con il grido di dolore della Confindustria, idealmente ieri era in un’altra piazza, una delle più belle di Roma, Piazza del Popolo organizzata per dare la parola al grande capo Salvini pronto a snocciolare tutto l’armamentario (papà, mamma, crocifisso, presepe e scendi dalle stelle compreso).

Una piazza piena che di fronte a un grande palco ha applaudito i ministri leghisti e poi il leader che tra il «buon dio» e il «buon senso» (le parole più citate) ha fatto esercizio di umiltà chiedendo al popolo di amarlo con tutti i suoi difetti, naturalmente dopo aver elencato le meraviglie del governo.

Forse ha qualche buona ragione il presidente del Piemonte Chiamparino nel dire che ieri a Torino e a Roma è andata in scena una parte del governo contro l’altra. In parte è vero, ma avrebbe dovuto aggiungere che, proprio a guardare i contenuti di quelle piazze, da una parte c’era la sinistra e dall’altra la destra.

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Intervista. «Dire no al Tav non significa dire no alle grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria. Sostenuta, tra l’altro, con calcoli fallaci»

Dire no al Tav significa dire molti sì. «Dalla urgente messa in sicurezza di un territorio fragilissimo alla visione, mancante, dell’Italia del futuro, come grande protagonista europea». Lo sostiene Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa, autore di alcuni capisaldi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, già enunciata dall’articolo 9 della Costituzione. Da Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002) a Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2012).

Professor Settis, in un intervento del 2012, descrisse l’Italia come vittima e ostaggio, da decenni, di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. È ancora così?

Per il solo fatto che non sia cambiata è peggiorata, non vedo indizi del cambiamento di cui si parla tanto. Non dico e mai ho detto che non si debbano fare grandi opere ma bisogna controllarle una a una. E, ripeto, che l’opera cruciale e prioritaria è la messa in sicurezza del territorio, iniziativa che darebbe molto lavoro a imprese e a singoli cittadini.

È giunto il tempo di contestare «la retorica della crescita senza fine»?

È stata contraddetta da eventi cruciali del nostro tempo. L’attuale presidente degli Stati Uniti la predica, riducendo l’estensione dei parchi nazionali, e sostiene che non ci siano cambiamenti climatici; basta vedere il clima di oggi a Roma per contraddirlo. Purtroppo prosegue una logica di rapina nei confronti del territorio. Si dovrebbe ricordare una saggezza comune in molte civiltà che afferma che noi siamo i custodi e non i padroni della Terra. E lo siamo in funzione delle prossime generazioni. Quindi non dovremmo ragionare sul domani ma sull’eredità del mondo che vogliamo lasciare ai figli dei nostri figli.

Perché, alla luce di tutto ciò, pensa che la Torino-Lione sia inutile?

Da cittadino, ho letto una quantità impressionante di documenti di diverso segno. Per prima cosa, rispetto a quanto pensano in molti, si tratta di una linea rivolta alle merci e non ai passeggeri. Inoltre, i calcoli fatti all’epoca risultano, a distanza di anni, fallaci: tutto è cambiato, anche la tecnologia. Recandomi sul posto, in Val di Susa, ho, poi, potuto constatare come ci siano forze dell’esercito che insistano su zone archeologiche con scarso rispetto delle stesse. Questa vicenda è diventata uno scontro ideologico. Dire no al Tav non significa dire no a grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, consacrato da un accordo politico bipartisan quasi quindici anni fa prevede tra le misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica prevede espressamente «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate». Come mai questi principi non trovano applicazione?

Purtroppo nella tradizione giuridica italiana è capitato di scrivere leggi molto belle ma anche di aggirarle. Il codice fu promosso da Urbani, poi migliorato con Buttiglione e Rutelli e indebolito da alcune piccole correzioni del governo Renzi che hanno tolto pietra a questo edificio di difesa dei beni culturali. Solo tre Regioni hanno elaborato il piano paesaggistico (Toscana, Puglia e, in parte, Piemonte), lo Stato non ha esercitato il potere sostitutivo, anzi le riforme di Franceschini hanno depotenziato le Soprintendenze. Un governo che si definisce del cambiamento dovrebbe dare un segno opposto, il ministro Bonisoli si è dimostrato sensibile all’argomento ma per ora non c’è stato nulla di concreto.

Si aspettava questo atteggiamento ben più che ondivago da parte del M5s al governo nei confronti del tema grandi opere?

Me l’aspettavo da questo governo, essendo un ibrido, un coacervo di due partiti che si sono combattuti in campagna elettorale e che ora insieme nei primi sei mesi hanno prodotto molte meno leggi di tanti altri esecutivi. Non mi aspetto nulla di buono dalla consociazione di entità così diverse: da un lato i Cinque stelle più lontani dai compromessi col passato ma ingenui, dall’altro la Lega al governo con Berlusconi per decenni.

Cosa pensa della levata di scudi pro Tav che protagonista il cosiddetto «partito del Pil», come è stata definita l’assise di imprenditori riunitisi a Torino?

Non conosco queste persone, le loro ragioni possono essere molto diverse. Sono preoccupati di interrompere un processo che coinvolgerebbe tante imprese, ma la vera risposta è dire no a qualcosa e sì a qualcos’altro. Sono stati, infatti, fatti conti su quanto tanto costi allo Stato la mancanza di prevenzione e quanto converrebbe mettere in sicurezza il territorio. Per farlo si potrebbero spendere i soldi per il Tav.

L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Come può venire in appoggio alla mobilitazione No Tav?

La Costituzione afferma che la tutela deve essere identica in qualsiasi centimetro dell’Italia. Dovremmo vergognarci di quanto poco è stata attuata e quanto grave sia che i partiti che sono stati al governo non abbiano fatto dell’articolo 9 la propria bandiera.

Quanto è importante la manifestazione dell’8 dicembre a Torino?

Dipende da come si svolgerà e da quanta gente ci sarà, da come i giornali ne parleranno. Mi stupisce, però, che quel poco che resta della sinistra in Italia non sia riuscito a utilizzare i media e i social per costruire una piattaforma in cui i cittadini, per esempio, di Trapani capiscano che le loro battaglie sono simili a quelle di Mestre. Se no le lotte politiche tenderanno a essere sempre locali. Abbiamo bisogno di afflato nazionale.

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Ho partecipato sabato 1° dicembre all’assise promossa dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris e sono tornato rinfrancato dalla bella e numerosa partecipazione. La platea e le gallerie del teatro erano piene all’inverosimile e molte persone hanno dovuto rinunciare a entrare. Un buon segno! Gli interventi aperti da Enrico Panini, autorevole esponente della giunta e responsabile nazionale del movimento DemA, sono stati svolti da rappresentanti del variegato mondo dell’associazionismo, del volontariato, delle esperienze civiche, da sindaci in prima linea nella lotta alle mafie e per la solidarietà. Insomma l’Italia che resiste esiste ed è molto più grande e articolata di quel che si può credere, dato il clima di silenzio e ostilità che impera nei media ai tempi di Matteo Salvini (e non solo da ora).

La mattinata è volata veloce anche perché la regia accorta ha saputo far mantenere gli interventi nei cinque minuti, cosicché siamo arrivati alla fine avendo ascoltato tanti spunti interessanti e nient’affatto ripetitivi o rituali, come purtroppo non poche volte è accaduto, proprio perché la selezione degli invitati sul palco è stata articolata e innovativa. Alla fine il “leone” di Napoli ha ruggito. Non lo dico per sfottere, ma perché veramente Luigi de Magistris è animato da una tale passione politica che non si può restare indifferenti. I suoi interventi sono caratterizzati da una fortissima tensione morale e dalla ricerca di una coerente visione politica. In primo luogo per rappresentare la straordinaria esperienza di governo della sua città, tanto difficile e inguaiata per i problemi accumulati nei secoli e negli ultimi lustri che non si può non considerare come un successo essere riuscito a non farla deragliare finora, segnando punti molto importanti nell’azione e nell’innovazione di governo che ha orgogliosamente rivendicato.

Agli altri poi non le manda a dire, de Magistris, non risparmia critiche e attacchi a queste destre insorgenti. Non ci sono mezze misure rispetto ai diritti dei migranti: o si sta con la solidarietà e l’accoglienza o contro. Questo è un toccasana per il rischio oggi molto presente di sofistiche distinzioni sulle quali è stata costruita la storica sconfitta del 4 marzo. Così come il j’accuse ai Cinquestelle, oggi alleati della peggiore destra d’Europa e anche in posizione di supino accodamento: l’incoerenza che stanno dimostrando su questioni fondamentali come le controverse grandi opere e i voltafaccia verso i movimenti che hanno determinato i loro maggiori successi sono elencati a uno a uno, senza risparmiare niente. Insomma è lotta dura per evitare il peggio della deriva che questo governo ci sta propinando, e anche critica netta e senza sconti alle ambiguità del Pd, oggi in fase di preliquidazione per sua esclusiva responsabilità.

Questa elementare esigenza di fare chiarezza e costruire un “fronte ampio” per risalire la china, in un contesto molto difficile, è ben chiaro a de Magistris e alla platea. In uno stato emotivo di fiduciosa sospensione, la domanda intrinseca è: ce la faremo? E qui si coglie il dilemma politico vero e non ancora volutamente e realisticamente risolto da de Magistris. Infatti non c’è una proposta definita, in particolare per le elezioni europee, e nemmeno per altri futuri appuntamenti ci sono proclami. La partita è estremamente difficile e tutta da inventare: siamo passati attraverso troppe cocenti delusioni e soprattutto divisioni, che sono la cifra drammatica di una sinistra ormai quasi totalmente espunta dal panorama politico nazionale.

C’è da ritessere una tela strappata, partendo dalla realtà di tutti i giorni, riguadagnando la fiducia di una società sfiduciata e frammentata, incantata dalle sirene del populismo e di promesse elettorali che forse non si potranno mantenere ma che creano una grande dipendenza proprio da parte di quelle fasce sociali che la sinistra dovrebbe coerentemente rappresentare, che sono state invece abbandonate al loro destino.

Non sappiamo se questo progetto potrà veramente decollare: dipende da molti fattori e soprattutto se si innescherà fertilmente anche nei territori, nei luoghi di lavoro, al Nord come al Sud, perché è certo che non può restare un movimento forte solo in alcune realtà per quanto importanti. L’Italia ha bisogno di una sinistra che sappia esprimere tutta l’articolata diversità delle tante situazioni e culture: quel che i grandi partiti del Novecento, tanto vituperati, sapevano comunque rappresentare. Così come lo sguardo all’Europa non può essere legato solo all’imminente scadenza elettorale, semmai al contrario dev’essere un altro elemento costituente di questo movimento. Oggi le destre si combattono innanzitutto sul fronte di un’Unione europea radicalmente rinnovata ma non nella direzione indicata dai populismi.

Siccome conosco de Magistris da molto tempo, da quando era ancora magistrato – ne ho seguito le vicende e apprezzato anche la coerente capacità evolutiva -, sono certo che la sua intelligenza lo guiderà, insieme ad altri che collaboreranno nella costruzione di un processo serio e partecipativo. Questo è il nostro augurio.

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