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Sinistra / governo. Questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista. Difficile dire quanto stabile si rivelerà, ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.

«Del resto mia cara di che si stupisce/anche l’operaio vuole il figlio dottore/e pensi che ambiente che può venir fuori/non c’è più morale, Contessa». Torna in mente questa celebre canzone, a sentire certe reazioni di un’opinione pubblica colta e democratica, di fronte alla nascita del nuovo governo.

Un atteggiamento tra lo sconsolato e lo spocchioso, un sentimento di stupore e di estraneità: ma come si è potuti giungere fino a questo punto? E giù, poi, con le ironie sull’incompetenza di questi parvenu.

Alcuni settori politici, giornalistici e intellettuali, invece di chiedersi come mai il “popolo” non abbia dato loro minimamente retta, sembrano ritrarsi in una posizione di ripulsa, di denigrazione delle masse. Un vecchio riflesso condizionato, tipico dei conservatori del buon tempo antico, quando si pensava che il governo fosse una prerogativa naturale dei colti e delle èlites.

Ma appare assai dubbio che, in questo modo, si possa costruire un’opposizione efficace a questo governo e che si possa fare ricredere quei milioni di connazionali che hanno votato per queste forze “impresentabili”. Limitarsi a lanciare un grido allarmato sui “populisti al governo” non intacca il consenso di cui godono. Un’opposizione credibile presuppone un saldo “punto di vista” alternativo. Ed è questo che oggi manca del tutto: dire che “mancano le coperture” è un argomento assai fragile (e persino controproducente: un elettore che ha votato per questi partiti, può sempre pensare: “beh, allora gli obiettivi sono giusti, almeno ci stanno provando”).

Costruire una cornice politica e ideale che possa davvero insidiare l’egemonia populista presuppone, intanto, che si torni a praticare quella che un tempo si chiamava “analisi differenziata”.

E quindi, in primo luogo, occorre interrogarsi su che tipo di populismo abbiamo di fronte.

Possiamo assumere una definizione, minima ma essenziale, di populismo: il populismo è un modo di costruzione del discorso politico, un’operazione egemonica sugli schemi interpretativi della realtà sociale e del conflitto politico, fondata sulla creazione di una dicotomia che separa “noi” (il popolo”) da “loro” (gli “altri”). Possiamo dire allora che questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista: la prima identifica l’”altro” con lo “straniero”, la seconda con le “èlites”. Difficile dire quanto stabile si rivelerà questa convergenza: ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.

Il primo passo per una controffensiva è quello di non “regalare” all’avversario anche il controllo sul linguaggio della politica, e su alcune parole, in particolare: “l’anti-elitismo” e la “sovranità popolare”. Le teorie elitistiche del potere sono sempre state un caposaldo del pensiero conservatore. Da Gaetano Mosca fino ad alcuni scienziati politici americani del Novecento, la critica alla democrazia di massa si è sempre fondata sull’idea che il “cittadino comune” è incompetente, incapace di avere una visione lungimirante dei propri stessi “veri” interessi: e sull’idea che, in fondo, l’apatia è un segno di consenso, o che un eccesso di “partecipazione” popolare è pericoloso. Ebbene, la sinistra, oggi, non dovrebbe recuperare una sana attitudine “anti-elitista”?

Ossia, individuare le vere oligarchie che dominano l’economia e la società e indicare le vie per contrastarne lo strapotere? E poi, la “sovranità popolare”: diamine, è un termine che appartiene alla storia del pensiero democratico e rivoluzionario! Possiamo ridurre tutto a “sovranismo” nazionalista? o non si dovrebbe ridare un senso all’idea di una sovranità democratica, a fronte del dominio cieco e impersonale di potenze economiche e finanziarie imperscrutabili e sfuggenti? Solo così, al M5S si potrà poi rivolgere un’obiezione cruciale: le “èlites” sono per voi sono solo le “caste” politiche? E come la mettete con la flat tax?

Se analizziamo la cultura politica del M5S troviamo un’idea ibrida di democrazia. Da una parte, più che di democrazia “diretta”, è giusto parlare di una sua visione immediata e “direttistica”: l’idea che la “volontà popolare”, univoca e indifferenziata, si possa tradurre senza filtri e mediazioni in una “volontà generale”; dall’altra, specie a livello locale, ci si appella invece ad un’idea di democrazia “partecipativa” che ha alimentato l’esperienza politica e associativa di molti attivisti (ad esempio, in molti programmi amministrativi del M5S, frequente è il richiamo al “bilancio partecipativo”). Una miscela contraddittoria: un’idea di democrazia “a binario unico”, che può condurre ad ignorare i principi cardine di un costituzionalismo democratico, ma che esprime anche, in forme distorte, un’idea di recupero della sovranità popolare, oggi comunemente sentita come svuotata, con un appello al protagonismo civico. Da qui anche la novità di un ministero alla “democrazia diretta” e l’inserimento nel “contratto” di alcune proposte di riforma dell’istituto referendario (su alcune delle quali si può discutere, mentre altre sono assai più problematiche). Ma anche in questo caso, è una sfida che può essere raccolta solo se la sinistra torna a proporre una visione ricca della democrazia rappresentativa, che sia fondata sulla partecipazione politica dei cittadini, e non su una mera selezione elettorale delle èlites.

Si può far leva su queste contraddizioni; ma come sarà possibile se, ad esempio, all’interno del Pd, ci sono ancora forze che pensano con nostalgia alla riforma costituzionale sconfitta al referendum, o a leggi elettorali simil-Italicum, che proprio ad una visione plebiscitaria della democrazia erano ispirate? Sembra oramai largamente condivisa l’idea che la crisi della sinistra sia nata dalla sua subalternità al neo-liberismo economico; meno frequente appare il richiamo ad un’altra, non meno grave, subalternità: quella ad una visione elitistico-competitiva della democrazia. Anche su questo terreno si dovrà misurare una possibile ricostruzione della sinistra.

 
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Beni Comuni. A sette anni dal referendum nazionale boicottato, i comitati «Rete rifiuti zero» rilanciano la battaglia. Ma il Pd in Regione difende i privati.

Dopo sette anni i comitati per l’acqua pubblica ci riprovano. Lo fanno in Emilia-Romagna, la Regione che nel 2011 assicurò, assieme a Toscana e Trentino-Alto Adige, il raggiungimento del quorum referendario che puntava a trasformare l’acqua in un bene comune a gestione pubblica. Un plebiscito lontano e inapplicato quello di sette anni fa, e i referendari lo sanno bene. Per questo i comitati e i loro alleati della “Rete Rifiuti zero” hanno accantonato la via del referendum per scegliere invece quella della Proposta di legge regionale.

SE SARÀ APPROVATO il provvedimento non solo faciliterà la vita a quei Comuni che vorranno ripubblicizzare il servizio idrico ma normerà anche l’importantissimo tema dei rifiuti. Un doppio binario che parla di ambiente e partecipazione dal basso nella gestione dei servizi pubblici, e che punta a scardinare il dominio incontrastato delle grandi multiutility nel settore, in Emilia-Romagna si parla di due player di livello nazionale come Hera e Iren, aziende quotate e galline dalle uova d’oro per gli enti locali che ogni anno incamerano importanti dividendi e, questa la contropartita, riescono sempre meno a dettare le linee e strategie alle loro aziende.

«VOGLIAMO RIPORTARE la gestione di acqua e rifiuti il più possibile vicino ai cittadini – dice Natale Belosi, coordinatore regionale della Rete Rifiuti Zero -. Vogliamo dare gambe ai principi alla base dell’economia circolare e scrivere nero su bianco che la raccolta e la gestione dei rifiuti deve sottostare a una finalità pubblica e non ubbidire a mere regole di mercato». Al di là degli importanti principi generali, che nero su bianco definiscono l’acqua un bene comune e quello dei rifiuti un ciclo strategico da orientare alla produzione zero, restano gli strumenti operativi che la legge metterebbe in campo. A cominciare da un fondo per la ripubblicizzazione dell’acqua.

IL TESTO DI LEGGE DOVRÀ essere discusso nell’aula regionale e li si vedrà l’orientamento delle varie forze politiche. Resta un punto fermo: dopo tanti sforzi, anni di proteste, proposte e tentativi di dialogo, a vari livelli il Pd ha sistematicamente chiuso la porte al referendum del 2011, e in sette anni Hera è diventata più grande (6,1 miliardi il fatturato 2017, più 10,3 per cento sull’anno precedente) e si è sempre più allontanata dagli enti locali. Anche dove erano partiti processi capaci di portare alla ripubblicizzazione del servizio tutto è stato bloccato. È successo ad esempio nel 2015 a Reggio Emilia, che ha avuto la possibilità di affidare la gestione del ciclo idrico ad una società 100 per cento pubblica e che invece, dopo una piroetta del Pd locale, si è ritrovata a fare marcia indietro tra le proteste dei comitati referendari.

«NEL 2021 SCADRÀ l’affidamento del servizio idrico in provincia di Bologna – ragiona Andrea Caselli dei comitati Acque bene comune -. Vogliamo arrivare a quel momento con una normativa regionale capace di aiutare tutte le amministrazioni che vorranno affidare l’acqua ad un’azienda pubblica. L’anno prossimo ci saranno le elezioni regionali ed è questo il momento in cui le forze politiche dovranno impegnarsi a dire ai cittadini cosa vogliono fare». Con i promotori si sono già schierati Sinistra Italiana e il consigliere Giovanni Alleva dell’Altra Emilia-Romagna. Il Movimento 5 Stelle sta invece valutando la questione, resta però sul tavolo la promessa di Massimo Bugani, capogruppo dei grillini a Bologna e membro dell’associazione Rousseau: «Se vinceremo in Regione lavoreremo per l’acqua pubblica». E il Pd? «La strategia negli ultimi anni è stata quella di strisciante privatizzazione – dice Caselli -. Alla fine queste scelte politiche porteranno sempre più utili e dividendi ai privati, mentre toglieranno potere ai soci pubblici».

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Lutti. Della storia del sindacato dei consigli, dei metalmeccanici, prima Fim, Fiom e Uilm, poi l’Flm, è stato uomo d’azione, testimone e dirigente.

È morto Pierre Carniti. Un popolo, il popolo del sindacato confederale italiano, lo piange e ognuno si sente un po’ più solo. È un popolo che emerge, per una volta ancora, da dove ora è sprofondato e si è frantumato.

Eccezionalmente unito da un’emozione, dalla memoria, dalla partecipazione dolorosa a una perdita che fa rivivere una storia, una grande storia.

È una storia di lotta di classe, è una storia di un movimento operaio che nella lotta ha reinventato le sue istituzioni, prima tra tutte il sinfdacato.

In una storia tante storie, di lavoratrici e di lavoratori, di donne e di uomini, che si sono incamminati sulle strade della lotta per l’emancipazione e per la liberazione da ogni forma di sfruttamento e di alienazione.

Una volta, salutando la Cgil che stava lasciando, un altro grande sindacalista, Fernando Santi, disse: «Sono un uomo di grandi ambizioni e vorrei che domani, quando non ci sarò più, un bracciante del sud e un operaio del nord possa dire di me, Fernando? Era uno dei nostri».

Si può star certi che loro, come tanti altri, persone che lavorano o che vengono deprivate del lavoro e della libertà, oggi e domani, ricordando Pierre Carniti, penseranno e diranno, prima di ogni altra cosa, quello era uno dei nostri.

Il sindacalismo italiano in tutto il ’900 è stato un protagonista della storia del Paese e della formazione del suo popolo.

Pierre Carniti è stato un protagonista principe di quella che è stata la pagina più straordinaria di questo sindacato, una pagina innovativa e carica di una promessa di trasformazione radicale della società e di liberazione del lavoro.

Edgard Morin, un filosofo che ne è stato il cronista, ha scritto un libro sul maggio ’68 che ha titolato La breccia.

In Italia quel maggio ’68 si è aperto sull’autunno caldo del ’69 e per quella breccia è passata la riscossa operaia e studentesca che ha cambiato il Paese, dando vita a quel che è stato chiamato «Il caso italiano», una scalata al cielo.

Il fatto che essa sia stata sconfitta, non ne cancella la storia. Parlo della storia del sindacato dei consigli.

Di questa storia il sindacato dei metalmeccanici, prima Fim, Fiom e Uilm, poi l’Flm, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici sono stati il cuore e il motore. In essi Pierre è stato un profeta e un uomo d’azione. Un testimone e un dirigente.

Ho imparato tardi ad accettare il ruolo della personalità nella storia sociale. Mi sento ora di dire che la storia di cui parliamo non sarebbe stata quella senza il sindacalista Pierre Carniti.

In quegli anni a Torino ci sentivamo così dentro la storia del sindacato dei consigli da sentirci indistinguibili, pur militanti nella Cgil o nella Cisl o nella Uil.

Lui era per tutti Pierre. Muoveva fraternità e rispetto. Né l’una né l’altro vennero mai meno, neppure nella drammatica rottura dell’unità sindacale sulla scala mobile, nemmeno nella divisione nella pur così cruciale lotta dei 35 giorni alla Fiat.

Fraternità è un termine antico il cui abbandono è tuttavia parte non secondaria dell’uscita del sindacato e della sinistra dalla grande scena. Ma fraternità è ciò che ti viene in mente subito se pensi a Pierre.

È stato un militante, senza però mai fare del patriottismo d’organizzazione un vincolo.

È stato un uomo del dialogo e della ricerca aperta.

Aveva fatto, nei tempi della divisione sindacale e dei collateralismi ancora resistenti, della Fim milanese una fucina in cui si lavoravano i materiali di una nuova stagione del conflitto sociale, dell’autonomia sindacale, del sindacato soggetto politico.

La centralità della fabbrica nel conflitto sociale e politico, la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro, la critica della neutralità della scienza e della tecnica lo hanno visto all’opera per una ricollocazione del sindacato nel conflitto sociale e nella riforma della società.

Della conquista del sindacato alla democrazia diretta dei lavoratori è stato tanto protagonista da volere vedere venire alla luce, quali base del nuovo sindacato, i delegati di reparto, delegati direttamente eletti da tutti i lavoratori su scheda bianca, iscritti o non iscritti al sindacato.

All’assemblea di tutti i lavoratori quel sindacato deve rivolgersi per esistere, definire i propri obiettivi, lottare e contrattare.

Non è solo questo il luogo del dolore e della commozione per la perdita di un compagno e di un amico, l’occasione per ricordarne la straordinaria capacità di elaborazione di ricerca e direzione, ma una parola e uno slogan almeno vorremmo ricordarli.

La parola è egualitarismo.

Un’idea grande per una pratica sociale senza la quale c’è solo o la sconfitta o l’adattamento all’ingiustizia e alla diseguaglianza del capitalismo. Il secondo non è meglio del primo.

Lo slogan è «lavorare meno lavorare tutti».

Ora Pierre Carniti se ne è andato ed è come se un’intera storia se ne andasse con lui.

Pierre ci direbbe però di non arrenderci. Ci mancherai davvero tanto Pierre.

«Hai combattuto la giusta battaglia, hai terminato la tua corsa, non hai perso la fede». Ti sia lieve la terra.

 

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La discarica Tre Monti rimane chiusa. No del Consiglio di Stato alla riapertura

Pubblicata il 31 maggio 2018 da Leggilanotizia.it

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La discarica Tre Monti rimane chiusa. No del Consiglio di Stato alla riapertura
Roma, 31 maggio 2018. Il Consiglio di Stato dice no e la discarica Tre Monti rimane chiusa. Stamattina (giovedì 31 maggio), il Consiglio di Stato non ha ravvisato, come da manuale: “l'esistenza del pregiudizio grave ed irreparabile dedotto quale motivo di sospensione della sentenza”. Confermando, e non solo implicitamente, il grave giudizio di illegittimità già stabilito dal Tar emiliano romagnolo con la sentenza del gennaio scorso. Provvedimento che aveva di fatto sancito la chiusura del sito di via Pediano, ora unicamente utilizzato per lo smistamento dei rifiuti.

Discarica chiusa, quindi, e il Consiglio di Stato rimanda la decisione finale alla sentenza definitiva attesa entro fine anno. E' chiaro che se venisse confermato il giudizio del Tar sarebbe praticamente impossibile procedere con le ipotesi di ampliamento della discarica di via Pediano.

Ma già con questa decisione del Consiglio di Stato gli elementi per riflettere su scelte passate e future non mancano.

Alla spicciolata sono cominciate anche ad arrivare le dichiarazioni dei candidati alle prossime elezioni amministrative imolesi del 10 giugno. Prima fra tutte quella della candidata del M5s, Manuela Sangiorgi. "Siamo felici, un grazie anche a tutto il M5s di Imola, alle associazioni ambientaliste e al comitato Vediamoci Chiaro. Oggi era attesissima l'udienza al Consiglio di Stato che doveva deliberare sulla richiesta di sospensiva della sentenza del Tar che ha bloccato la sopraelevazione della discarica di via Pediano, di fatto ponendo termine all'afflusso di rifiuti speciali da tutta Italia. Nonostante tutti i timori che i giudici potessero accogliere le istanze di Hera e della Regione a guida Pd, è stata invece presa la decisione giusta: no alla sospensiva, la discarica rimane chiusa. Questo è un grande risultato, ottenuto anche grazie all'azione del Movimento 5 stelle, che da sempre chiede lo stop alla discarica e la sua bonifica”.

Il procedimento giudiziario non si è ancora concluso - la sentenza arriverà più avanti – ma questo non smorza l'entusiamo della candidata pentastellata che aggiunge: “è ancora una vittoria non definitiva, perché l'ultima sentenza è attesa per fine anno, e ancora non si parla dell'ampliamento, ma oggi esultiamo. Il principio in base al quale gli affari di un gruppo privato valgono più della salute dei cittadini non è passato. Il 10 giugno i cittadini imolesi avranno la possibilità di cacciare quel partito che è andato contro il principio di precauzione e ha portato avanti progetti dissennati, più volte fermati dalla magistratura. Se il 10 giugno i cittadini lo vorranno, il M5S al governo della città avvierà immediatamente il processo di bonifica dell'area”.

Nell'altro versante della vallata, quello di Riolo, l'esponente del popolo della famiglia, Mirko De Carli “saluta con piacere la decisione del Consiglio di Stato che ha negato la sospensiva richiesta nei confronti del Tar per la questione della discarica Tre Monti". E prosegue: “Sarebbe ora che il Pd e le sue presenze sul territorio la smettessero di insistere in una posizione che ormai è già stata chiaramente bocciata dalla storia, dalle normative e depennata dalla lista dalle buone pratiche nella gestione dei rifiuti. La magistratura dimostra di sapere tenere ferma la posizione del buon senso di fronte all'ostinazione di chi non si rassegna a dover accettare che una determinata opera è nociva per la salute dei cittadini, oltre che profondamente irrazionale”.

Anche Filippo Samachini, candidato sindaco di Sinistra Unita, accoglie con favore la decisione del Consiglio di Stato: "Come Sinistra Unita Imola siamo sempre stati a favore della chiusura della discarica, contrari alla sopraelevazione e all'ampliamento. Affinchè Imola possa essere autosufficiente dal punto di vista dei rifiuti la nostra proposta è quella di attuare una raccolta differenziata porta a porta, a tariffazione puntuale, sul modello di Treviso. La quota di indifferenziato che comunque si continuerà a produrre, potrà trovare smaltimento in altri siti sparsi sul territorio emiliano romagnolo. Imola ha già dato il suo contributo ed è ora che diventi una città a rifiuti zero". 

Come scritto qualche giorno fa la tegola giudiziaria che si è di nuovo abbattuta sulla politica ambientale imolese, e più in generale della Regione, potrebbe definitivamente mettere a repentaglio l'ampliamento della discarica. Il cosiddetto “quarto lotto” che avrebbe consentito di seppellire 1.125.000 tonnellate di rifiuti speciali nei meravigliosi - e tutelati - calanchi della collina rimane ancora nei desiderata ma comincia a scricchiolare. Tanto che la procedura è ancora ferma sul tavolo della Regione e tutti gli atti prodotti vivono una sorta di torpore estivo e cominciano a prendere polvere in viale Aldo Moro.

In ultimo riportiamo che avevamo chiesto un commento sulla sentenza anche alla candidata sindaco Carmela “ Carmen” Cappello, a traino Pd e altre liste ma, dal suo Ufficio stampa ci hanno purtroppo fatto sapere che “al momento non riescono a mettersi in contatto con la candidata”.
Le elezioni sono vicine, una risposta arriverà di certo.

(Verner Moreno)
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Nasce il governo gialloverde figlio del terremoto elettorale del 4 di marzo. Un esito che proietta il paese in una fase difficile e densa di incognite.

E che, anche per questo, impegna la sinistra a misurarsi nel nuovo scenario, a difesa dei diritti sociali e civili, del lavoro e dei migranti, dell’Europa e delle garanzie costituzionali.

Una sfida che la mette di fronte al laboratorio politico determinato dalle macerie lasciate dalla crisi economica e culturale che ha quasi azzerato la sua rappresentanza. Ora serve cambiare passo e darsi una prospettiva da misurare sui tempi della XVIII° legislatura.

Nel bilancio di questi mesi, il presidente della Repubblica esce dal tunnel evitando l’imbarazzante precedente di un governo tecnico votato da nessuno, e inoltre determinando alcune scelte dei ministri, a cominciare dallo spostamento del professor Savona, il casus belli che aveva fatto saltare l’accordo.

La lunga e tribolatissima navigazione gli è costata la contestazione di un’invasione di campo e il prezzo di una surreale minaccia di impeachment.

A decidere tutto alla fine è stato Salvini, il leader leghista, capace di gestire il rischio di un’alleanza così sbilanciata nel rapporto di forza elettorale, capitalizzando ruoli-chiave nell’organigramma di palazzo Chigi: interni e vicepresidenza per lui, cruciale sottosegretariato per il numero 2 Giorgetti, e un ministero dell’Economia dove anziché Savona va il collega Giovanni Tria, nome nuovo di area moderata.

Bilancio meno esaltante per i 5Stelle e il loro leader. Prendono i ministeri «sociali» (sanità, lavoro, sviluppo economico, sud). E un presidente del consiglio, Conte, che dovrà faticare parecchio per non essere schiacciato tra i due padrini politici.

Di Maio con il suo partito diventato di maggioranza relativa, grazie ai voti di sinistra, esce invece ferito da mosse autolesioniste e da una forte contestazione interna che non digerisce l’alleanza con la destra lepenista.

Una contraddizione che, come tutte le contraddizioni in seno al popolo, merita attenzione.

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Italia. I rapporti tra presidenza, partiti e leader sembrano improntati alla minaccia, nel silenzio attonito dell’opposizione e tra le urla della moltitudine indignata

Un’ordinaria crisi di governo si è trasformata in una drammatica crisi istituzionale. Non si possono sottovalutare i rischi di una caduta nell’anomia costituzionale. A scatenare la crisi il rifiuto del Presidente Mattarella di firmare il decreto di nomina di un ministro. In base ad una interpretazione discutibile ma non eversiva dell’articolo 92 della costituzione.

Infatti i limiti del potere presidenziale di nomina sono dettati dal ruolo di garante e di rappresentante dell’unità nazionale, ed è da dubitare che si possa spingere sino a precludere la partecipazione di un componente al governo motivate dalle opinioni da questo espresse in passato, anche ove queste fossero state aspramente critiche nei confronti delle politiche monetarie o europee.

D’altronde, la formula definita in costituzione (il presidente della repubblica nomina i ministri «su proposta» del presidente del consiglio) lascia certamente uno spazio d’interlocuzione al capo dello Stato, che in questo caso non si è potuto coltivare di fronte alla indisponibilità del presidente incaricato. Si può discutere dunque la decisione di Mattarella ma non si può certamente configurare come reato presidenziale (ex articolo 90 Costituzione). Solo chi vuole soffiare sul fuoco dell’instabilità istituzionale può oggi proporre la messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla costituzione. Non può infatti affermarsi che il capo dello Stato abbia operato per fini politici di parte contro l’interesse del paese, a ben vedere sono stati proprio questi interessi che hanno (discutibilmente) motivato il rifiuto. Dunque un problema di interpretazione costituzionale, non di responsabilità penale.

MA È IL COMPLESSO della crisi nella quale siamo precipitati che appare assai inquietante. Ciò che maggiormente dovrebbe allarmare è che nessun attore politico sembra volere tenere in giusta considerazione gli equilibri istituzionali, le prassi e i precedenti costituzionali che reggono l’iter di formazione dei governi. Non ha una chiara legittimazione costituzionale infatti il «contratto» di governo stipulato da soggetti privati (i capi dei partiti che si apprestavano a sostenere il governo). Uno strumento di diritto privato che s’è preteso prendesse il posto del programma di governo che deve essere definito – in accordo con le forze politiche di maggioranza – dal presidente del consiglio dei ministri. Un’interpretazione disinvolta dell’articolo 95 della nostra costituzione che affida a quest’ultimo (non ai leader dei partiti, né ad un notaio) la responsabilità e la direzione della politica generale del governo.

ANOMALA ANCHE l’indicazione – e poi l’incarico – del professor Conte. In questo caso alcune critiche espresse nei suoi confronti non sono fondate: che non fosse parlamentare appare in fondo irrilevante (anche Renzi non era stato eletto quando ha ricoperto la carica di presidente del consiglio). Neppure si tratta di discutere il profilo “tecnico” del giurista di Firenze (la competenza non può rappresentare un handicap politico). Ciò che ha lasciato invece perplessi è il rapporto fiduciario di natura – ancora una volta – «privatistica» tra l’incaricato e i due leader di partito. Come se avessero scelto più un loro avvocato che non un soggetto cui affidare pubbliche funzioni. Anche in questo caso in gioco è la legittimazione dell’organo costituzionale e le garanzie di autonomia del responsabile dell’indirizzo politico e amministrativo del governo.

PERSINO IL RIFIUTO preventivo di alcune forze politiche di discutere le proprie proposte per collocarsi in un ruolo di opposizione «a prescindere», tanto più in una situazione caotica come l’attuale, non dimostra un grande senso di responsabilità. Il «compromesso parlamentare», ci ha insegnato Hans Kelsen, non può fare a meno del fondamentale apporto di tutte le forze presenti in parlamento.

TUTTO L’ANDAMENTO della crisi mostra in sostanza una progressiva privatizzazione dei rapporti politici che tende a bypassare le logiche propriamente parlamentari e a scardinare i delicati equilibri costituzionali. In primo luogo compromettendo gravemente le modalità con cui devono essere esercitate le funzioni di garanzia del capo dello Stato. Un delicatissimo «potere di persuasione», che – ha puntualmente ricordato la Corte costituzionale nella importante sentenza n. 1 del 2013 – si compone di «attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici [che] implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori».

Un’attività che – scrive ancora la Consulta – verrebbe «inevitabilmente compromessa» dalla pubblicizzazione dei contenuti e dal non rimanere riservati. In particolare, è sempre stata considerata condizione necessaria per l’operato presidenziale – organo di mediazione e garante politico della costituzione – che i rapporti con i soggetti politici fossero improntatati alla leale collaborazione. Ora, invece, è stata messa sotto accusa la legittimazione dell’organo, i rapporti tra presidenza, partiti e leader appaiono improntati alla minaccia («veti», «diktat», «arrabbiature»), nel silenzio attonito dell’opposizione e tra le urla della moltitudine indignata. Sta saltando tutto. La crisi politica tracima in crisi costituzionale. C’è da essere assai preoccupati.

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