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1968-2018. Se allora la sinistra avesse reagito subito diversamente, forse oggi non avremmo a che fare con una Visegrad

No, non è uguale agli altri che l’hanno preceduto questo cinquantesimo anniversario dell’agosto praghese, quando i carri armati di Mosca marciarono sulla città per mettere fine al tentativo di rendere il socialismo migliore e diverso da quello che fino ad allora era stato. Perché oggi ci impone una riflessione ulteriore, sia pure retrospettiva.

A scadenze regolari, ogni volta l’abbiamo ricordato con sentimenti diversi; la prima, quando non ricordavamo ma commentavamo l’evento che ci arrivò come una cannonata, ci fu stupore ed orrore, un dramma per noi comunisti che avevamo sperato nell’esperimento di Dubcek, e però non avremmo mai immaginato che Mosca potesse arrivare a tanto. Con malcelata soddisfazione – al contrario – fu vissuto da tutte le varietà dell’anticomunismo che dipinsero quell’attacco sovietico come se fosse stato perpetrato contro un governo gestito dai liberali anziché, come era, contro un governo di comunisti, che infatti si rifugiarono in una fabbrica – la Ckd – per tenere, difesi da picchetti operai, il loro clandestino congresso straordinario. Al primo anniversario, nell’agosto ’69, toccò al manifesto appena uscito (mentre la nostra radiazione dal Pci era ancora pendente e quell’articolo accelerò la decisione) constatare che Praga era sola.

Lasciata sola sia dai partiti comunisti che pure avevano criticato l’invasione ma non ne parlavano più, sia da quelli che avevano gridato contro tutti i comunismi, anche contro quello che veniva aggredito, ma ora avevano smesso di occuparsi della vicenda. Aveva vinto la normalizzazione, e nessuno intendeva mettere in discussione la tranquillità che forniva una coesistenza fra le due grandi potenze fondata sulla conservazione dello status quo ovunque nel globo, anche laddove ribolliva la sacrosante rivolta del terzo mondo. Ricominciarono tutti, come se niente fosse, a riallacciare rapporti con il nuovo regime di Praga, quello di Husak ( il primo viaggio nella capitale ceka, ricordo, fu di un noto dirigente del Psi).

RESTAMMO IN POCHI a ricordare la natura della«primaverapraghese» e le vere vittime dell’aggressione sovietica: i comunisti cecoslovacchi. Perché meravigliarsi che negli anni successivi quella memoria si sia via via affievolita nella stessa Cecoslovacchia, che il nome stesso di Dubcek sia stato dimenticato e la protesta abbia assunto sempre più i connotati di una spasmodica rivendicazione liberal-borghese? La solitudine di Praga, che ebbe il sostegno solo di una piccola parte della sinistra (nemmeno di tutta la nuova, quella sessantottina, che si sentì per lo più poco coinvolta, quasi la vicenda riguardasse solo i vecchi comunisti ) ebbe riflessi pesanti sui praghesi stessi. Dopo l’ultimo coraggioso ruolo di Carta 77, finì per produrre scoraggiamento e infine rimozione. Anche della migliore tradizione comunista di cui pure la Cecoslovacchia era stata ricca. Quando, poco prima dell’89, si arrivò alla «rivoluzione di velluto», la speranza di un comunismo buono era già morta, il significato della protesta era già assunto altra natura. E infatti, in poco tempo, diventò condiviso impegno per rendere al più presto il proprio paese sempre più somigliante all’agognato occidente.

GIÀ ALLA FINE del successivo decennio l’obiettivo era stato raggiunto: ricordo di aver rivisto Praga allora, dopo molti decenni. Col cuore stretto: la città già straniata, senza più né anima né mistero, la storica piazza San Venceslao non più agorà politica, stuprata da insegne di coca cola, griffes di Prada e Bennetton, una fila di «casino non stop». Sparita la magia, gli arcani, le cabale di rabbi Loev e del suo ghetto leggendario, ormai affumicato dai gas di scarico della ininterrotta fila di pulman carichi di visitatori stranieri.

MI RESI CONTO che pur essendo stata tante volte in quella città prima del ’68 non avevo più amici cui telefonare: quasi tutti quelli che si erano battuti con Dubcek, e poi con Carta 77, avevano già da decenni dovuto, o scelto, di abbandonare il paese. Dove erano finiti i comunisti? I nuovi governi, negli anni successivi, tentarono persino di rendere illegali – grazie all’ignobile equiparazione del comunismo con il fascismo – le formazioni che tornarono ad adottare quel nome. Mentre non pochi che erano stati parte dell’establishment rimasto al potere dopo la primavera si travestirono, alcuni diventarono ricchi, entrando a far parte del ceto «compradore» che l’Ue aveva cooptato in ognuno dei paesi dell’est che via via erano stati annessi, a condizione che accettassero senza fiatare quanto Bruxelles aveva già deciso nei suoi precedenti 40 anni. Babis,l’attuale primo ministro della Cechia – ormai separata della Slovacchia cui un tempo era unita – è, anche lui, uno di questi ex comunisti.

MILIARDARIO E POPULISTA. Appoggiato da chi si definisce socialdemocratico e, sia pure a malincuore, da chi oggi continua a portare il nome di partito comunista (tre suoi deputati siedono al parlamento europeo nel gruppo della Sinistra Europea).Ma il governo di Praga è oggi uno dei principali paladini del famigerato gruppo di Visegrad. Ecco perché dico che questo anniversario è diverso dagli altri: perché di fronte a un simile approdo non possiamo non ripensare a quanto quella solitudine del ’68 sia responsabile di questi mostri di oggi. La storia, lo sappiamo, no si fa con i se, ma non possiamo non dire che se allora a quell’evento la sinistra tutta avesse reagito subito diversamente, forse non ci saremmo trovati a che fare con una Visegrad. Non sarebbe stato un bene solo per l’est europeo, ma anche per la nostra sinistra.

 

Praga, agosto ’68. «I comunisti siamo noi, voi chi siete?» gridavano i ragazzi di Praga ai giovani soldati sovietici occupanti

 

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Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su quelle povere palazzine di edilizia popolare, costruite prima dell’avveniristico gioiello, per capire all’istante che, senza curarsene affatto, il ponte aveva già le sue vittime da violentare e imprigionare.


Le finestre guardano il muro del pilone, aprirle non serve per respirare, soffocate come sono dal cemento che in alcuni punti è letteralmente poggiato sul cornicione. Quando le telecamere di Skytg24 lo inquadrano in primo piano si vede chiaramente il cornicione del palazzo tagliato per ospitare l’immenso lastrone.

Più efficace dei fiumi di inchiostro, basta l’impietosa fotografia per capire chi sta sopra e chi sta sotto, chi sceglie e decide e chi è obbligato a piegare la testa. Rapporti di forza nudi e crudi. Gli inquilini di quelle case, lavoratori con il mutuo da pagare, sono cittadini di serie B, e da oggi fanno parte del grande popolo degli sfollati.
Naturalmente la politica dovrebbe agire e giustificare se stessa nel cambiare lo stato delle cose e in particolare dovrebbe farlo la sinistra. Come ricordava ieri sul manifesto l’ex sindaco di Genova, Doria, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si discuteva di «modello di sviluppo», sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo.

Un passato morto e sepolto perché poi, in tappe successive e coerenti (“patto tra produttori”, “svolta dell’Eur”), si cambiava rotta per scivolare sul piano inclinato degli anni ’80 quando i modernizzatori, neofiti del modello blairiano davano inizio alla fine dell’economia politica e di una lunga storia politica e sociale. Fino agli anni recenti, ridotti alla svalutazione progressiva e senza fine del lavoro con il jobs act sul trono della disfatta, preludio del tentativo successivo di cambiare i connotati alla Costituzione e al parlamento.
Con quale voce in capitolo questa politica può presentarsi ai cittadini, di quale futuro può farsi avanguardia e interprete quando insieme a quel ponte è crollato un modello marcio di crescita senza sviluppo.

Certo il populismo penale fa impressione, l’analfabetismo istituzionale è compagno di strada di scorciatoie giustizialiste che fanno audience, ma non si combattono con i pannicelli caldi del politicamente corretto, perché non servono ad allontanare la verità di un fallimento storico. Della sinistra e di un intera classe dirigente capace di divorare il paese facendosi docile strumento della corruzione e dell’incuria. Una classe dirigente complice del disastro nel migliore dei casi, agente primario dello sfascio morale e delle malversazioni nel peggiore. E quando per costruire il futuro si deve distruggere gran parte del passato, onestamente la sinistra ha qualche difficoltà ad opporsi alle ruspe.

Non si può certo dar torto a quei familiari che hanno deciso di celebrare in forma privata i funerali dei loro parenti uccisi dal ponte di Genova. La cattiva coscienza del paese si nutre di troppe stragi impunite. Sapere chi è stato, di chi è la responsabilità del loro doloroso lutto non riporterà in vita nessuno, però farebbe giustizia di un crimine così grave, sarebbe almeno una forma di risarcimento morale. Ma tornare a credere che nel nostro paese queste vittime avranno giustizia purtroppo è un atto di fede.

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Difesa dell'ambiente. Per la prima volta in un’aula di tribunale viene riconosciuto che la Monsanto era al corrente dei rischi per la salute umana del prodotto messo in commercio

La Corte della California che, in primo grado, ha condannato la Monsanto, recentemente acquisita dalla multinazionale tedesca Bayer, a risarcire con 289 milioni di dollari il giardiniere Johnson DeWayne, per aver contratto un tumore utilizzando erbicidi a base di glifosato è, per molti versi, storica. Per almeno due ordini di motivi: il primo è che per la prima volta in un’aula di tribunale viene riconosciuto che la stessa Monsanto era al corrente dei rischi per la salute umana del prodotto messo in commercio; il secondo è che le cause contro la Monsanto sono diverse e riguardano potenzialmente anche altri pesticidi a base di glifosato, accusati di contribuire a provocare il linfoma non-Hodgkin. La bayer si difende e farà appello, ma è chiaro che coloro i quali hanno sollevato le accuse di pericolosità di questi fitofarmaci, e in Italia la coalizione StopGlifosato, di cui Greenpeace fa parte, segnano un punto a loro favore.

È dunque da una Corte degli Stati Uniti che arriva questa decisione, mentre alla fine del 2017, nonostante 1,3 milioni di firme raccolte, la Commissione Europea aveva prorogato l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato per altri cinque anni. I Monsanto papers – ovvero una serie di e-mail interne della Monsanto pubblicate sempre da un tribunale della California – rivelarono alcune delle tattiche utilizzate da Monsanto per ottenere valutazioni favorevoli dalle agenzie di regolamentazione.

Le email fanno intuire inoltre che Monsanto possa addirittura avere scritto direttamente documenti di carattere scientifico e pagato poi scienziati indipendenti per «editarli e firmarli col proprio nome».
Questo composto, un erbicida ampiamente utilizzato per la produzione di commodities di largo consumo come il grano, si trova, in tracce, in moltissimi prodotti.  Lo Iarc – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms – lo considera da tempo come probabilmente cancerogeno per l’uomo.

Inoltre, nei fitofarmaci il glifosato – di cui esistono 750 formulazioni commerciali – è miscelato con altre sostanze (i cosiddetti «coadiuvanti») che potrebbero amplificarne gli effetti tossici.

L’Efsa – l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare – e l’Echa – l’Agenzia europea per le sostanze chimiche – lo ritengono, anche sulla base di lavori non pubblicati, “probabilmente non cancerogeno”. In polemica con questa affermazione, novantasei scienziati indipendenti, tra cui molti di quelli coinvolti nel riesame dell’Oms. Uno di questi scienziati, il dottor Christopher Portier, ha anche evidenziato che l’Efsa e l’Echa non hanno rilevato numerosi collegamenti a tumori evidenti negli studi sugli animali effettuati dalle aziende produttrici di glifosato e mai pubblicati. E tutto ciò proprio mentre negli Usa la California aggiungeva il glifosato alla lista di sostanze chimiche che possono causare il cancro.

Si può fare a meno i sostanze come il glifosato? Centinaia di migliaia di agricoltori biologici mostrano ogni giorno che è possibile controllare le erbe infestanti senza l’utilizzo di glifosato e di altri erbicidi. Nei seminativi, ad esempio, una combinazione fra rotazione delle colture e uso di colture di copertura può sopprimere la crescita delle erbacce. Per combattere le infestanti rimanenti, possono essere utilizzati mezzi meccanici (ad es. una lavorazione leggera del suolo prima della semina). E’ essenziale, però, che gli agricoltori vengano sostenuti per l’applicazione di queste misure.

Una considerazione finale riguarda poi il contesto in cui tale sentenza arriva: l’Epa – Agenzia per l’Ambiente – di Donald Trump propone di riaprire la porta a prodotti contenenti amianto (!), i cui effetti sulla salute sono da tempo ben noti a tutti, trasformando il bando totale in una valutazione caso per caso per 15 usi specifici. Il sovranismo di Trump è (anche) la reazione di alcuni vecchi settori – carbone, petrolio, acciaio e ora anche amianto – ai cambiamenti necessari per proteggere ambiente e salute.

A settembre, sempre in California, stato con la normativa ambientale tra le più severe, si terrà il Summit globale di azione per il Clima, anche per rispondere al Trump che definisce i cambiamenti climatici “una truffa”. Speriamo di ricevere altre buone notizie dalla California, che sta già pagando a caro prezzo le conseguenze dei cambiamenti climatici: l’impegno americano – e anche solo di parte degli Usa – nella sfida globale è essenziale.

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Crediamo che il ripristino della ciclabilità interna al Tondo sia urgente, soprattutto in vista della riapertura delle scuole: i percorsi casa-scuola in bici fanno parte del PUMS e non possono essere bloccati né ostacolati!!!”


Non usano mezzi termini le associazioni Circolo Legambiente Lamone, ass. Fiab Faenza e Salvaiciclisti Faenza che hanno richiesto un incontro con l’amministrazione, in modo da risolvere le questioni della ciclabilità nei parchi prima della riapertura delle scuole.
Per le tre associazioni il problema non riguarda solo il Parco Tondo ma anche la ciclabilità nel vicolo che attraversa il “Parco Ferucci, (zona Via Corbari) anche questo è parte integrante di un percorso casa-scuola (Panda e Don Milani)”.
E se non seguiranno risposte, né soluzioni adeguate, le associazioni hanno deciso di procedere con una petizione con raccolta firme.

“Come Associazioni impegnate per la mobilità sostenibile, appoggiamo pienamente la richiesta fatta dal Consiglio del Quartiere Centro Sud al Comune di ripristinare la ciclabilità interna al “Tondo” (Parco della Rocca) – spiegano in un comunicato scampa le tre associazioni.
“Questo divieto, che da maggio viene fatto rispettare in modo (fin troppo) scrupoloso dai volontari che gestiscono il Tondo, penalizza la mobilità ciclabile e risulta contraddittorio con gli obiettivi PUMS, perché il Parco è situato in una zona di collegamento tra il quartiere Centro Sud, la scuola Tolosano e la stazione, e non ci sono vie alternative e sicure da percorrere in bici: Via Da Oriolo è trafficata e pericolosa: dietro l’abside di San Savino (Chiosco Il Gallo)  finisce la ciclopedonale e non si può raggiungere Via Mazzini in bici, a meno che non si passi sopra al marciapiede che fiancheggia la Chiesa di San Savino (strettissimo) oppure imboccando contromano il senso unico fino al parcheggio, che costeggia il Tondo. Un senso unico stretto e pericoloso, con auto parcheggiate da un lato.
La chiusura di ogni passaggio “ciclabile” – spiegano le tre associazioni – è la spia di un pregiudizio: la bici è considerata solo come mezzo di svago, usato da chi ha “tempo da perdere” e non come mezzo di trasporto, usato da chi deve andare a scuola, in stazione, al lavoro e non può permettersi di scendere e risalire ogni volta, in un percorso ad ostacoli.
Sottolineiamo infine che attraversare il parco in sella alla bici, passando sul vicolo laterale lato sud est (verso ospedale) NON rappresenta un pericolo per i bambini che giocano nell’altro lato e nella zona centrale del parco. Alcuni paventano pericoli per il passaggio promiscuo di pedoni e ciclisti, ma allora dovremmo chiudere tutte le ciclopedonali di Faenza!!
Ci uniamo quindi al Quartiere Centro Sud, per chiedere all’Amministrazione comunale, ai Vigili Urbani di Faenza, e all’Unione dei Comuni della Romagna Faentina, di consentire il transito delle bici all’interno del Tondo, creando una corsia ciclopedonale nel vicolo laterale (lato sud-est) che collega i due ingressi (di viale Stradone e viale Mazzini.) Sarebbe opportuno prevedere anche una corsia ciclabile protetta dal cancello di via Da Oriolo fino al cancello che dà sul parcheggio, in quanto chi abita in Via Da Oriolo e deve andare nella scuola di stradario Tolosano o raggiungere la piazza, non ha vie sicure in bici”.
“L’ipocrisia di questi divieti  – proseguono le tre associazioni – è ancora più stridente se si mette a confronto con la grande tolleranza concessa alle auto, che spadroneggiano impunite, parcheggiando sui marciapiedi, col motore acceso, in divieto di sosta, e altre “amenità”.
Chiediamo fin da subito un incontro con l’amministrazione – concludono – in modo da risolvere la questione prima della riapertura delle scuole”.

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Secondo il pronunciamento «Il contratto Conami-Herambiente impedisce la necessaria concorrenza»

IMOLA. L’Antitrust boccia l’affidamento diretto della gestione della discarica “Tre monti” di Imola ad Herambiente e invita il Con.Ami ad espletare una gara pubblica «aperta al maggior numero di soggetti possibile e nel rispetto dei principi concorrenziali della normativa nazionale e comunitaria». Un pronunciamento arrivato a seguito dell’esposto depositato dall’ex capogruppo di Forza Italia in Consiglio comunale Nicolas Vacchi e dall’allora consigliere regionale, oggi deputato berlusconiano, Galeazzo Bignami nel dicembre dello scorso anno.

Il consorzio dovrà «comunicare entro 45 giorni le iniziative che intenderà intraprendere per assicurare le corrette dinamiche concorrenziali».

Esclusiva di fatto

Il contratto di affitto fra il Con.Ami ed Herambiente con scadenza nel 2040 «attribuisce in capo al gestore una esclusiva di fatto nel servizio di smaltimento in discarica, senza che tale soggetto sia stato selezionato mediante idonee procedure a evidenza pubblica», aggiunge l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel verdetto pubblicato nel suo ultimo bollettino. Una scelta «di cui appare discutibile la legittimità, in quanto posta in essere da un soggetto pubblico che è onerato da obblighi di pubblicità e trasparenza nella concessione dell’area pubblica adibita a discarica, appare quindi suscettibile di determinare condizioni non concorrenziali nell’offerta dei servizi di smaltimento».

Gestore avvantaggiato

E non finisce qua: «Tale assetto della gestione della discarica, peraltro, rischia di avvantaggiare il gestore anche nella partecipazione alle future gare per il servizio di gestione dei rifiuti urbani», continua l’Antitrust . Anche se il servizio di smaltimento è tariffato e ci sono obblighi di accesso, infatti, «l’integrazione verticale potrebbe comunque determinare vantaggi competitivi in sede di gara».

Affidamento pubblico

Alla luce di tutte queste considerazioni, «la segnalata irregolarità dell’attribuzione del servizio di gestione della discarica “Tre monti” impedisce il necessario confronto concorrenziale», conclude l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, augurandosi che «quest’ultimo venga rapidamente affidato, per un periodo di tempo ragionevole e comunque strettamente parametrato alle esigenze di recupero di eventuali nuovi investimenti, mediante l’espletamento di una procedura a evidenza pubblica aperta al maggior numero di soggetti possibile e nel rispetto dei principi concorrenziali della normativa nazionale e comunitaria».

 

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Mercoledì 6 dicembre 2017 Stafer è stata premiata per il suo Report Integrato alla cerimonia per il Premio Innovatori Responsabili “Le imprese dell’Emilia-Romagna per gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030” presso Florim Gallery a Fiorano Modenese.

http://www.romagnauno.it/economia/stafer-vince-premio-responsabilita-sociale-dimpresa-col-report-integrato/

 

Lavoro. La Stafer di Faenza in agitazione sindacale per il licenziamento di 3 dipendenti

Venerdì 20 Luglio 2018 - Faenza (da Faenzanotizie)

Un pacchetto di 12 ore di sciopero, a partire da oggi venerdì 20 luglio, con presidio davanti all'azienda dalle 8 alle 9. Sono queste le prime azioni sindacali concordate tra Cgil Cisl e Uil e lavoratori dell'azienda Stafer, la cui direzione aziendale ha deciso, nonostante le richieste portate avanti da Rsu e Sindacati, per il licenziamento di 3 dipendenti della ditta.

"Durante il mese di aprile - spiegano i sindacati - la Direzione Aziendale di Stafer Spa ha annunciato a Rsu e organizzazioni sindacali la volontà di esternalizzare il reparto motori, perché non ritenuto più in grado di produrre marginalità economica. A seguito di tale comunicazione, la parte sindacale si è subito preoccuapta di capire se ci potessero essere   delle ripercussioni sui livelli occupazionali. A fronte di tale preoccupazione, l’atteggiamento dell’azienda si è dimostrato fin da subito ambiguo: in un primo momento ha affermato di voler procedere ai licenziamenti; successivamente, a seguito di una forte presa di posizione dei dipendenti contaria agli esuberi, l’azienda ha cambiato orientamento". 

"Infine - proseguono i sindacati -, in data 13 luglio, ha convocato le organizzazioni sindacali e   la Rsu aziendale per comunicare che avrebbe licenziato tre lavoratori. A fronte di questa comunicazione, assieme alle lavoratici ed i lavoratori della Stafer Spa abbiamo ribadito la  nostra contrarietà, sostenendo che vi era una strada alternativa percorribile, quella del contratto di solidarietà. Tuttavia, l’azienda ha mantenuto la propria incomprensibile decisione ed ha provveduto, in data 18 luglio, a consegnare le lettere di licenziamento ai lavoratori individuati".

"La Stafer Spa di Faenza - concludono - è un’azienda del nostro territorio che ha sempre affermato di avere estrema attenzione alla dimensione sociale del fare impresa. Tuttavia, alla prima occasione, non ha esitato ad effettuare tagli al personale, senza prendere in considerazione soluzioni alternative a salvaguardia delle proprie lavoratrici e dei propri lavoratori". 

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