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Si possono dare tutte le interpretazioni che vogliamo sul gioco politico che si è innescato dopo il voto del 4 di marzo. Ma, alla fine, il No di Mattarella al professor Savona ha riacceso la miccia sul fuoco elettorale appena spento. Mentre si profilava un governo sulla strada di una proposta programmatica, di un presidente del consiglio e di una squadra di ministri sostenuti dalla strana maggioranza di Lega e 5Stelle.

Ora invece quel fuoco si riaccende, con una campagna al calor bianco che non riguarda solo la contesa democratica tra diversi soggetti politici, ma attacca frontalmente la legittimità istituzionale del presidente della Repubblica.

Un pessimo esito.

Forse Mattarella scommette sulla formazione di uno schieramento europeista, sulla falsariga di +Europa di Emma Bonino, con Renzi alla testa contro il cartello no-euro di Lega e 5Stelle.

Un processo di riaggregazione delle forze che dal 4 marzo sono uscite sconfitte, da affidare a una leadership renziana di ritorno (Gentiloni è pronto), in difesa dell’euro, del fiscal compact e della collocazione internazionale dell’Italia.

Naturalmente si tratta di una proposta che difficilmente guadagnerebbe voti a sinistra.

Contro le politiche di austerità, come sul debito pubblico la sinistra avrà difficoltà a ritrovare una voce comune, tra chi propone di uscire dall’euro e dalla Nato e chi si schiera come guardia d’onore del capo dello stato, in difesa della democrazia e della Costituzione.

Il richiamo alla vigilanza democratica va sempre tenuto presente, ma non sarà la colla che riuscirà a rimettere in piedi una coalizione sociale. E le elezioni dietro l’angolo sono una promessa di sconfitta.

Anche il M5S rischia grosso.

Con la richiesta di messa in stato d’accusa del presidente della repubblica, i pentastellati perpetuano un infantilismo politico pericoloso. Alzano il tiro con l’impossibile impeachment perché non sanno come uscire da una situazione che li vede a rimorchio della linea leghista.

L’ambiguità politica del M5Stelle, né di destra né di sinistra, sarà messa alla prova dagli schieramenti della prossima campagna elettorale con un sicuro vincitore, che non sarà Di Maio ma Salvini, naturalmente con rapporti di forza diversi dall’attuale 17 a 32. I sondaggi parlano di trionfo del capo leghista.

Il capo dei pentastellati non è riuscito ad assicurare un governo agli 11 milioni che lo hanno votato, molti come sappiamo anche elettori di sinistra, mentre la trappola di Salvini (e vedremo fino a che punto anche di Berlusconi) ha funzionato alla perfezione.

Forse ora tornerà il cartello del centrodestra, Salvini non si è associato alla richiesta di impeachment del confuso Di Maio, Berlusconi dice che voterà contro il governo Cottarelli in pieno accordo con il leader leghista. E il centrodestra potrebbe raggiungere l’obiettivo mancato il 4 marzo di uscire dalle urne con la destra maggioritaria pronta a ricevere l’incarico. Tutto insomma sarebbe auspicabile piuttosto che la miscela Lega-5Stelle.

Proprio le motivazioni che Mattarella ha lungamente elencato pronunciando la parola magica «in pericolo sono i mutui», che tutti a casa capiscono, rappresentano il nocciolo della questione.

Perché dal suo discorso abbiamo capito che a capo della repubblica italiana c’è un regista invisibile: il nostro debito pubblico. Che è la pura verità. Ma su come risalire la china del secondo debito al mondo finora nessuna ricetta offerta dagli ultimi governi lo ha saputo dimostrare.

Su come uscire da una condizione di estrema precarietà economico-finanziaria dell’Italia nel contesto europeo, lo dovrà dire un’altra prova elettorale che, dobbiamo saperlo, non assomiglierà a nessuna di quelle che abbiamo fin qui attraversato.

Già lo vediamo con Di Maio che invita i cittadini a mettere alle finestre la bandiera italiana e a prepararsi per una contro-manifestazione per il 2 giugno. E Salvini che convoca le sua festa per la patria nelle piazze.

Dal candidato Conte in 24 ore siamo giunti al candidato Cottarelli, da un avvocato a un economista, dal signor nessuno a un famoso tecnico scelto da Mattarella per traghettare il paese verso nuove elezioni.

Il presidente della Repubblica ha spiegato l’utilità di tornare al voto in autunno di fronte al grave pericolo costituito da due forze politiche e un ministro dell’Economia che avrebbero potuto portare l’Italia in terra ignota, fuori dall’euro.

Quindi ha usato il suo potere per dire no a Savona e sì a un governo balneare di Cottarelli depositario della fiducia dei mercati.

Forse, a ben vedere, la bandiera del professor Savona e l’accoppiata Salvini-Di Maio non erano poi tanto più temibili di quanto lo sia riandare al voto, con una sorta di referendum pro o contro l’euro.

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M5S-Lega. Sono andati in pezzi i modi in cui si sono formate tutte le nostre categorie politiche, le identità, dalla destra alla sinistra

Da oggi, come si suol dire, «le chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse) nasce.

Dovremmo anche piantarla con le geremiadi su quanto siano sporchi brutti e cattivi i nuovi padroni che battono a palazzo. Quanto “di destra”. O “sovranisti”. Forse fascisti. O all’opposto “neo-liberisti”. Troppo anti-europeisti. O viceversa troppo poco, o solo fintamente. Intanto perché nessuno di noi (noi delle vecchie sinistre), è legittimato a lanciare fatwe, nel senso che nessuno è innocente rispetto a questo esito che viene alla fine di una lunga catena di errori, incapacità di capire, pigrizie, furbizie, abbandoni che l’hanno preparato. E poi perché parleremmo solo a noi stessi (e forse non ci convinceremmo nemmeno tanto). Il resto del Paese guarda e vede in altro modo. Sta già altrove rispetto a noi.

Forse resta dubbioso sulla realizzabilità dei programmi, forse indugia incerto per horror vacui, ma non si sogna neppure di usare le vecchie etichette politiche del Novecento per qualificare un evento fin troppo nuovo e nel suo contenuto sociale inedito, come inedita è la struttura della società in cui è maturata la svolta.

IL FATTO è che questo governo è la diretta espressione del voto del 4 di marzo. E che quel voto ha costituito e rivelato non un semplice riaggiustamento negli equilibri politici, ma un terremoto di enorme magnitudine, una vera apocalisse culturale, politica e sociale. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) ma questa coalizione giallo-verde esprime – per quanto sia esprimibile – il messaggio emerso più che maggioritariamente dalle urne. Traduce in termini istituzionali l’urlo un po’ roco che veniva dalle due metà dell’Italia, e che diceva, con toni e sotto colori diversi, che come prima non si voleva e non si poteva più continuare. Che non se ne poteva più. E che quegli equilibri andavano rotti.

FORSE SOLO l’asse tra Cinque stelle e un Pd de-renzizzato avrebbe potuto corrispondere a quegli umori (e malumori), ma la presenza ingombrante del cadavere politico di Matteo Renzi in campo dem l’ha reso impossibile. Non certo un governissimo con tutti dentro, avrebbe potuto farlo. O un governo del Presidente. Che avrebbero finito per generare una gigantesca bolla di frustrazione e rancore da volontà tradita, velenosa per la democrazia quant’altra mai. Cosicché non restava che questo ibrido a intercettare i sussurri e le grida di una composizione sociale esplosa, spaesata e spaventata come chi abiti un paesaggio post-catastrofico, geneticamente modificato da una qualche mutazione di stato.

ED È QUESTO il secondo punto su cui riflettere. Questo nostro trovarci a valle di una «apocalisse» come l’ho chiamata, pensando all’accezione in cui Ernesto De Martino usava l’espressione «apocalisse culturale». Cioè una «fine del mondo» (questo era il titolo del suo libro). Anzi, la fine di un mondo. Che è appunto la nostra condizione. Perché un mondo è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della dissoluzione del “Noi” che parte dal default del lavoro e arriva a quello della democrazia.

CONTINUIAMO testardamente a cercar di cacciare dentro il cavo vuoto dei nostri vecchi concetti i pezzi di una realtà che non vuol prenderne la forma e si ribella decostruendosi prima ancor di uscire di bocca. Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più “in asse”. Che oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.

LIQUIDIAMO come «il più a destra, in tutta la storia della Repubblica» questo governo (non è che il governo Tambroni nel 1960 o quelli Berlusconi-Fini della lunga transizione scherzassero…), senza riflettere sul fatto che i due partiti che lo compongono hanno in pancia una bella percentuale di elettorato “di sinistra” (un buon 50% i cinque stelle, un 30% o giù di lì la Lega). Mentre pressoché tutta la stampa “di destra” (da Vittorio Feltri a quelli del Foglio e del Giornale), i quotidiani mainstream, gli opinion leaders “di regime” (pensiamo a Bruno Vespa), le agenzie di rating, i Commissari europei, ostenta pollice verso. Qualcosa evidentemente si è rotto nei meccanismi della nostra produzione di senso.

D’ALTRA PARTE nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la ricerca su «Chi è il popolo» realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.

SE UN NOME vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica «classe» senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura «gente»… Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.

Per questo è bene rimetterci in gioco «in basso». Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure rappresentazione.

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Dopo il 4 marzo. Presentata la ricerca del Cantiere delle Idee sulle istanze sociali e il rapporto con la politica nelle periferie. Marco Revelli: "Alla domanda su chi sei, il popolo ha risposto: 'Non sai chi sono, perché non sono'. C'è una molteplicità di 'io' ma non un 'noi'". E Carlo Freccero: "E' un popolo 'sfarinato' che non riesce a organizzarsi contro il potere vero, che è quello economico".
 
Sarebbe piaciuto a Valentino Parlato l’approccio metodologico – 50 interviste nei quartieri popolari di Milano, Roma. Firenze e Cosenza – del “Cantiere delle Idee”. Una ricerca coordinata da Carlotta Caciagli, Loris Caruso, Riccardo Chesta, Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi, e realizzata a Roma con l’aiuto di Altramente-Scuola, della quale la giovanissima Caciagli spiega la genesi: “Siamo ricercatori e attivisti, impegnati su vari fronti politici in senso lato ma comunque a sinistra, e siamo andati a parlare con 50 residenti in quartieri periferici. Le interviste hanno riguardato sia l’aspetto sociale, i problemi e i disagi di ognuno, che l’aspetto politico, e cioè il loro rapporto con la ‘governance’, intesa come classe dirigente, e il rapporto con la politica, intesa come azione collettiva”.
Da ricercatori e ricercatrici, precari, che intervistano italiani precari, cosa è emerso? “Sul piano sociale un forte disagio, dovuto alla mancanza di una progettualità della governance sui servizi pubblici e sociali, sul governo del territorio, e sulle altre condizioni che possono favorire la nascita di un tessuto civile. Si sentono in balia degli eventi, e così si scagliano contro i ‘privilegiati’, che loro individuano nei politici, e negli immigrati. Non nei potentati economici”.
Sul fronte politico, è stata invece riscontrata non la presenza dell’anti-politica, quanto dell’anti-classe-politica: “C’è la richiesta, forte, che qualcuno prenda in carico le loro istanze. Che le istituzioni siano presenti e si diano da fare. Mentre, pur riconoscendo la loro condizione di sfruttati, se la prendono con i ‘ricchi’ ma non mettono in discussione il sistema economico. E nemmeno la delega: ci raccontano che, non arrivando a fine mese, non possono farsi agenti del cambiamento. Qualcuno deve farlo per loro”.
Ad analizzare i risultati e cercare una chiave di lettura, intellettuali e attivisti come Marco Revelli, Carlo Freccero, Vincenzo Vita, Massimo Torelli, Tommaso Fattori, Monica Di Sisto e Roberto Musacchio. “Gli esiti della ricerca – osserva Revelli – danno ragione ai suoi obiettivi di partenza, cioè che avessimo alle spalle un cambiamento radicale, io la chiamo ‘apocalisse’, culturale, politico e sociale, che rendeva obsolete le nostre risposte. E che non sapessimo più cosa è ‘il popolo’. Quanto alle risposte, la foto che emerge dalle interviste è quella di un’esplosione delle forme e delle culture politiche del ‘900. Alla domanda su chi sei, il popolo ha risposto: ‘Non sai chi sono, perché non sono’. C’è una molteplicità di ‘io’ ma non un ‘noi’. Solo in contrapposizione con l’altro, siano gli immigrati o la classe politica, si costituisce un effimero ‘noi’. Il governo che sembra star per nascere è, per molti versi, corrispondente alla foto. Corrisponde, ma non risponde”.
Per Carlo Freccero “abbiamo una moltitudine di popolo ‘sfarinato’, che è stato in grado di esercitare una reazione violenta contro quello che ritiene essere l’establishment. Ma già in partenza si tratta di un reazione manipolata, perché il ‘popolo sfarinato’ non riesce a organizzarsi contro il potere vero, che è quello economico”. Mentre Massimo Torelli chiama il Cantiere delle Idee ad un ulteriore lavoro di approfondimento, dedicato stavolta all’Italia dei mille municipi. “La provincia italiana sta votando sempre più in reazione al ‘centro’, perché pensa che lì ci sia la ricchezza, mentre il resto è una gigantesca periferia. Ecco così che la Toscana profonda, l’Umbria profonda, votano in reazione all’establishment dei capoluoghi”.
 
Tommaso Fattori tira le somme: “Questo è un lavoro sulle precondizioni, su cosa pensano e cosa vogliono le classi popolari. L’obiettivo è costruire una strumentazione adeguata a spiegare i tempi nuovi. Una ‘cassetta degli attrezzi’. Un tentativo analogo era già stato fatto, ma da parte accademica si riteneva, sbagliando, che sarebbe stata sufficiente la ‘cassetta’ vecchia. Invece è necessario affinare strumenti concettuali nuovi. Perché se prima non hai chiara la complessità dell’oggi, e analizzi le trasformazioni per poi ‘costruire’ delle idee utili, non puoi fare azione politica all’altezza, né tanto meno un progetto politico complessivo”.
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Intervista. Pasquale Tridico, indicato da Di Maio a ministro del lavoro: «Da uomo di sinistra dico che questa alleanza è un problema». «È necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro: reintrodurre l'articolo 18, eliminare il Jobs Act, contrastare la liberalizzazione dei contratti a termine»

Pasquale Tridico, economista dell’università Roma Tre, lei è stato indicato da Di Maio come ministro del lavoro e Welfare. Ma ha lasciato il progetto, per questioni programmatiche e ideologiche. Quali sono?
Ho lasciato quando ho visto che si profilava l’accordo con la Lega. Dal mio punto di vista di uomo di sinistra un’alleanza di questo tipo è un problema. La mia figura avrebbe creato conflitti. Sono un tecnico e ho fatto un passo indietro. Ora spero che la guida del governo resti in mano al Movimento e all’anima più attenta ai problemi degli esclusi: Di Maio, Fico.

Si augurava un’alleanza tra Cinque Stelle e Pd?
Probabilmente il Pd ha fatto una manovra per spingere il Movimento a fare un accordo con Salvini. Nel Movimento ha prevalso la responsabilità di dare un governo al paese. Sono stati coerenti: hanno sempre detto che il Movimento non è di destra né di sinistra e si allea con chi condivide il programma.

Lo spostamento a destra cosa ha provocato?
La Flat Tax, una tassa regressiva e iniqua. È stato fatto un compromesso che non mi piace su lavoro ed economia. Sono prevalse le esigenze dell’elettorato della Lega, la flessibilità delle piccole imprese che fanno fatica a innovare e comprimono il costo del lavoro. Credo invece sia necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro attraverso la reintroduzione dell’articolo 18, l’eliminazione del Jobs Act, il contrasto alla liberalizzazione dei contratti a termine.

Lei ha chiarito che il «reddito di cittadinanza» dei Cinque Stelle è un «reddito minimo condizionato alla formazione e riqualificazione professionale». Cosa è cambiato nel contratto di governo?
La nostra proposta non era solo per i cittadini italiani, ma per tutti i residenti da almeno due anni sul territorio nazionale. Nel programma si prevede solo per cittadini italiani. Ed è stato limitato a due anni. Il reddito deve servire per attivare i soggetti, ma anche per lottare contro la povertà. Per questo non deve essere troppo stringente in termini temporali.

Ora a cosa serve?
Sarà utile per i beneficiari, anche se è più limitato. Poteva essere rivolto a una platea più ampia e non solo agli italiani.

Nelle bozze del contratto si ripete l’equivoco: si parla di «reddito di cittadinanza»…
Non sarei così critico. È diventato un brand, una proiezione sul futuro. Potrebbe diventare qualcosa di simile a un reddito universale incondizionato.

Oppure a un workfare, con le conseguenze che si vedono nel film Daniel Blake» di Ken Loach.
Ho letto l’articolo in cui lei ha scritto questo. Non sono d’accordo. Dipende come questa proiezione evolverà in futuro. Uno strumento di questo tipo, vista la trasformazione digitale in corso, è assolutamente necessario.

Quanto tempo ci vorrà per realizzare la riforma?
Realisticamente due anni,

Cosa pensa del reddito di base incondizionato?
Oggi non è realizzabile. Con tre milioni di inattivi e un basso tasso di occupazione non è molto appropriato. Il reddito minimo condizionato incentiva al rientro nel mercato del lavoro e cerca di evitare lo sprofondamento verso la povertà assoluta. A patto che venga associato a un programma di investimenti.

Il Sud, a cui i 5 Stelle devono molto, è trascurato nel contratto. Lei cosa aveva proposto?
Destinare almeno il 34% degli investimenti. Considerando che la popolazione del Sud è anche superiore al 34% del totale, la clausola non sarebbe un favore, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere.

Vedremo che succederà con la Lega. Cosa pensa invece del salario minimo orario, l’unica proposta chiara del contratto?
È una misura che condivido, a condizione che non sia in conflitto con la contrattazione nazionale. È stata da poco inserita in Germania con queste modalità, anche i metalmeccanici lo hanno accettato. Per le categorie non coperte da contrattazione può essere funzionale.

Si vuole rimettere mano al lavoro occasionale. Lei ha capito come?
La situazione dei voucher era insostenibile. Ma la riforma frettolosa di Gentiloni, sotto la pressione del referendum della Cgil, può restare, anche se è limitata. È sbagliato tornarci sopra. Ora è l’ultima cosa da toccare. Non è la soluzione.

Servirà una riforma costituzionale per realizzare l’ampliamento dei centri per l’impiego?
No. Averlo legato, come ha fatto Renzi il 4 dicembre, non ha aiutato. Il problema è gestibilecon provvedimenti ordinari, un agenzia di coordinamento nazionale e aumentando il personale dei centri dell’impiego. Bisogna arrivare a 50 mila dipendenti, oggi ce ne sono 8 mila. Si vogliono stanziare due miliardi di investimenti. Mi sembra un buon inizio. Bisogna fare di più.

Ad esempio?
Assorbire il personale delle agenzie di somministrazione private nei centri per l’impiego.

Cosa farà adesso?
Sarebbe stato più comodo accettare un posto prestigioso da ministro, ma solo in un contesto favorevole. Spero che chi lo farà sia un politico. Io non lo sono, non ho lo stomaco per farlo. Continuerò a fare l’intellettuale, ho la libertà di fare questa intervista. Proseguirò su questa strada coerente con le mie idee.

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il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2018. L'opportuno riepilogo delle affermazioni di Matteo Salvini, leader della destra razzista italiana, espressione di una visione politica che il presidente della Repubblica non può accettare



Caro direttore, se davvero finirà con il Movimento 5 Stelle che porta al governo un partito lepenista, allora sarà finita nel peggiore dei modi. Anche ammesso che la Lega si pieghi ad accettare alcuni punti sacrosanti del contratto di governo proposti dal Movimento (chiusura del folle Tav in Val di Susa; attuazione del referendum sull’acqua pubblica; accoglimento di una significativa parte dei 10 punti fissati dal Fatto Quotidiano), questo non cancellerebbe la sua identità. Che è quella di un partito guidato da un leader che, parlando di migranti, ha dichiarato (febbraio 2017): «Ci vuole una pulizia di massa anche in Italia… via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve». Che pensa che «il fascismo ha fatto tante cose buone»(gennaio 2018). Che vuole «un cittadino su due armato» (febbraio 2018). Che si è fatto fotografare mentre dà la mano a un candidato della Lega con una croce celtica tatuata sul braccio: un candidato che poi tutta Italia conoscerà come il terrorista fascista di Macerata.

D’accordo. Se finisce così è anche colpa di Matteo Renzi, che tiene in ostaggio il suo partito e il Paese, e che ha scommesso tutto proprio su questo esito, sperando nel suicidio morale e politico del Movimento. Ed è anche colpa di Sergio Mattarella, che avrebbe dovuto mettere il Pd di fronte all’alternativa secca tra governo con i 5Stelle ed elezioni, invece di prospettare la garanzia di un improbabile governo neutrale. E, più profondamente, è colpa di una classe dirigente che, a partire dai primi anni Novanta fino all’abisso renziano, ha scientificamente distrutto la Sinistra, fino a ridurla allo stato attuale: macerie senza speranza. Ed è colpa anche mia, e di tutti coloro che, da sinistra, abbiamo dialogato con il Movimento senza riuscire a far capire che il sistema si poteva ribaltare solo garantendo più democrazia, e non già inseguendo sogni autoritari e abbracciando i nuovi fascisti.

È vero, il mondo si è rovesciato. La Lega e il Movimento 5 Stelle hanno in comune la rappresentanza dei più poveri, dei precari e degli sfruttati: mentre Forza Italia e Pd rappresentano chi ha interesse a non cambiare nulla. Ed è per questo che Lega e Movimento provano a mettere in discussione ciò che va messo in discussione, da questa Europa alla Nato (ammesso che il sistema lo permetta). Ed è vero: il Pd di Minniti sta trattando la più grande questione del nostro tempo, quella delle migrazioni, con metodi e orientamenti che sono già fascisti. Si potrebbe continuare a lungo: per questo milioni di italiani di sinistra hanno votato 5 Stelle, avendo come unica reale alternativa l’astensione (a cui ricorreranno al prossimo giro elettorale).

Tutto questo è drammaticamente vero. Ma la Lega non è la soluzione.

Non lo è perché dove governa non è affatto antisistema, e anzi costruisce un sistema di potere indistinguibile da quello del Pd (si legga, per esempio, il bellissimo Il disobbediente di Andrea Franzoso). Non lo è perché è al guinzaglio di quello che Beppe Grillo chiama lo Psiconano: che sarà il padrino, il socio occulto e il massimo beneficiario di un eventuale governo Salvini-Di Maio. Non lo è perché è un partito che non offre la speranza, come invece fa tra mille contraddizioni il Movimento, ma alimenta invece la paura. Non lo è perché è un partito in cui i militanti di Casa Pound dichiarano di riconoscersi.

Di fronte a questo futuro nero io chiedo: nessuno nel Movimento 5 Stelle ha il coraggio di dire pubblicamente che non è d’accordo? È evidente che la questione della democrazia interna del Movimento non può più essere rinviata: sta succedendo che un gruppo ristretto lo sta portando alla rovina con una scelta che è suicida per le ragioni evidenti che Marco Travaglio si sgola a spiegare da settimane.

Si dice che non c’è alternativa. È un errore: in democrazia c’è sempre un’alternativa, e il moto There Is No Alternative di Margaret Thatcher è stato e resta la pietra tombale su ogni possibile cambiamento in Occidente. Si può rivotare. Si può aspettare ancora e si possono costruire le condizioni per un’evoluzione del Pd. Perché tra il Pd e la Lega c’è una differenza fondamentale: il Pd è diventato quello che è, e fa quello che fa, ribaltando radicalmente la propria stessa ragione di essere. Mentre la Lega è serenamente fedele a se stessa. E dunque mentre si può sperare in una palingenesi di un Pd che accetti di governare con i 5 Stelle, non si può certo aspettarsi nulla del genere dalla Lega.

È una porta stretta: ma nulla, davvero nulla, sarebbe peggio di mettere l’energia pulita del Movimento al servizio di un’idea di Italia che è il contrario esatto della Costituzione.

Norberto Bobbio diceva che dobbiamo essere «democratici sempre in allarme»». E davvero è il momento di suonare l’allarme. Davvero persone come Roberto Fico, Nicola Morra, Michela Montevecchi, Gianluca Perilli, Margherita Corrado (per non fare che qualche nome) sono disposti a rendersi corresponsabili di una scelta che farà perdere al Movimento milioni di voti, consegnandolo alla Destra estrema, e resuscitando dall’altra parte la destra finanzcapitalista di Renzi? Davvero tutte queste persone oneste e serie, che non sognano certo un’Italia nera con la pistola, tradiranno i loro principi e perderanno la faccia fino a legare per sempre il loro nome a una svolta alla Orban?

La Costituzione dice che, come tutti gli altri parlamentari, anche quelli a 5 Stelle non rappresentano il loro movimento, ma la nazione. E la stragrande maggioranza della nazione non vuole al governo l’estremismo nero della Lega

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