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MEDITERRANEO. Ancora da chiarire la catena dei soccorsi. Il Viminale minaccia il medico Amodeo che ribadisce: «Strage evitabile»

Piantedosi dà la colpa ai migranti. È bufera Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi - Ansa

È polemica sulle parole del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, volato domenica a Crotone per una riunione in prefettura dopo la strage di Steccato di Curto costata la vita ad almeno 63 persone (ma si temono 100 morti). Il titolare del Viminale da un lato ha dato tutta la colpa agli scafisti e agli stessi migranti, dall’altro ha respinto le domande che chiedevano maggiori dettagli sulla catena dei soccorsi. «L’unica cosa che va affermata è che non devono partire. Quando ci sono queste condizioni non devono partire», ha detto secco il ministro. Lui, ha dichiarato provando a mettersi nei panni di un migrante, non prenderebbe il mare neanche se disperato perché «educato alla responsabilità verso quello che si può dare al proprio paese». Pazienza che la situazione italiana non sia comparabile a quelle di Siria, Afghanistan o Iran, alcuni dei paesi di provenienza di morti e superstiti. Il victim blaming, cioè la colpevolizzazione delle vittime, in campo migratorio non è una prerogativa di Piantedosi: in Grecia ci sono rifugiati imputati per la morte dei figli che viaggiavano con loro. In alcuni casi sono stati condannati a decine di anni di carcere.

Alcuni migranti superstiti al naufragio – foto LaPresse.

«PAROLE INACCETTABILI, Piantedosi si vergogni», attacca la deputata Pd Rachele Scarpa. «Le dichiarazioni del ministro sono scandalose: un misto di cinismo e assenza di rispetto»,

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PRIMARIE PD Battuto Bonaccini che si ferma al 46,2% contro il 53,8% di Schlein. Letta: "Riuscirà dove non sono riuscito io". Il manifesto ha seguito in diretta l’esito delle primarie e, alla fine, l’intero discorso della nuova segretaria.

Elly Schlein è la nuova segretaria del Pd

 

Potete rivivere l’intera serata e riascoltare i diversi collegamenti

https://vimeo.com/802464280

 

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CROTONE. Strage di migranti al largo delle coste crotonesi. Il bilancio provvisorio è di 43 morti e 80 superstiti, ma si cercano ancora i dispersi. Tra i superstiti tanti ragazzi, minorenni, ma non bambini. I più piccoli sono infatti morti annegati. Mimmo Lucano da Riace: «Una tragedia immane che mi riempie di tristezza. E non bisogna definirli clandestini. Si tratta di gente in fuga dai loro paesi in cerca di un futuro migliore»

 Foto di Giuseppe Pipita

Un «carico residuale» giace in fondo al mar Jonio e non sarà mai più recuperato. Un tappeto di teli bianchi plastificati copre decine di cadaveri. Giacciono adagiati davanti una serie di villette bianche a schiera vista mare. Le canne di bambù nascondono dalla statale Jonica la visuale dell’ennesima tragedia dell’umanità migrante. Le margherite fiorite sul prato prospiciente l’arenile incorniciano i corpi recuperati ma vivi. Il bilancio del naufragio del barcone colmo di migranti  sulla spiaggia di Steccato di Cutro, venti chilometri a sud di Crotone, fa impressione. Sono rimasti solo i brandelli dell’imbarcazione probabilmente partita da Izimir e affondata tra i flutti del mare di Calabria. Una ecatombe nel silenzio delle spiaggia d’inverno. Mentre scriviamo le vittime accertate sono 43, i migranti salvati una ottantina. Ma il motopeschereccio partito dalla Turchia conteneva forse 200 persone.

Il comitato di soccorso straordinario riunitosi in Prefettura ha comunicato che dagli elicotteri sono visibili circa trenta corpi non ancora recuperati a causa delle condizioni meteo. Per cui si teme un centinaio di vittime. È una strage purtroppo attesa. Da quando la rotta levantina con destinazione lo Jonio calabrese è diventata una direttrice molto battuta dalle «navi della speranza» era chiaro che prima o poi una siffatta tragedia si sarebbe verificata. Da inizio anno sono un centinaio gli sbarchi e migliaia i migranti approdati nel

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LA LEGGE ELETTORALE FATTA IN CASA. Sulla scheda delle primarie nei gazebo gli elettori troveranno solo i nomi di Bonaccini e Schlein. Ma a essere eletto segretario sarà chi prende più delegati all'Assemblea nazionale. Candidati sconosciuti, ma oggi in realtà si vota per loro

Pd il voto è aperto ma le liste bloccate

 

La scheda è semplice, solo due riquadri, appena due nomi. Stefano Bonaccini o Elly Schlein? Ma è una semplicità che inganna, perché i tanti o pochi che oggi parteciperanno alle primarie aperte del Pd non voteranno direttamente per il segretario o la segretaria del partito. Voteranno per eleggere i seicento componenti dell’Assemblea nazionale del Pd. Chi ha più delegati viene proclamato segretario, così dice lo statuto (articolo 12, comma 11). Un sistema che ricorda quello delle presidenziali degli Stati uniti. Centrato sulle liste bloccate di candidati, elenchi precompilati che in ogni collegio i due front runner Bonaccini e Schlein cercheranno di tirarsi dietro. Nomi che gli elettori non conoscono e che non troveranno sulla scheda.

«Vent’anni di liste bloccate hanno distrutto la democrazia e il rapporto con i cittadini e gli elettori», è un pensiero di Enrico Letta. Pensiero condiviso dal partito di cui fino a oggi è stato segretario. Tant’è che il programma con il quale il Pd si è presentato alle elezioni politiche, cinque mesi fa, diceva: «Le liste bloccate sviliscono il ruolo del parlamentare, ne condizionano il comportamento». Peccato però che lo statuto e il regolamento elettorale che il partito si è dato per sé, documenti appena modificati, continuino a proporre le liste bloccate. Con candidati persino meno conosciuti di quelli che si è costretti a votare alle politiche, perché quelli almeno sono protagonisti della campagna elettorale.

Non è un dettaglio perché saranno proprio loro, i candidati misteriosi, a ratificare l’elezione del segretario nella prima riunione dell’Assemblea nazionale. E sempre loro dovranno decidere su un’eventuale sfiducia o sostituzione. Bonaccini e Schlein hanno chiuso, faticosamente, solo mercoledì sera le loro liste. Adesso andrebbero stampate e distribuite nei seggi. Perché qualche volenteroso possa almeno trovarle lì.

I posti in palio per l’Assemblea sono 600, divisi in 22 circoscrizioni, una per regione salvo il Trentino Alto Adige diviso nelle due province Trento e Bolzano, più una circoscrizione estero. Ogni circoscrizione è divisa in collegi, in totale sono novanta e dunque sono tutti molto grandi: da mezzo milione di abitanti in su (l’intero comune di Torino è in un unico collegio, la Sardegna è divisa in solo due collegi). La Lombardia elegge il maggior numero di delegati, 97, la Valle d’Aosta, Bolzano e il Molise appena 4. Le grandi città pesano naturalmente di più: Roma elegge 29 dei 53 delegati del Lazio. Nelle grandi città, com’è noto, Schlein ha quasi ovunque battuto Bonaccini nel voto degli iscritti. È possibile che questa tendenza si confermi nel voto allargato di oggi. Ma è assai improbabile che possa verificarsi un fenomeno come quello talvolta accaduto negli Usa, quando il voto popolare non rispecchia il voto per i delegati.

È un rischio che, almeno in teoria, non si può mai escludere nelle elezioni di secondo grado, come formalmente sono queste per la segreteria del Pd. In caso di testa a testa, per via della distribuzione locale dei consensi e dei seggi, la lista del candidato segretario che raccoglie la percentuale maggiore potrebbe scoprire di avere qualche delegato in meno della lista dell’avversario. Un caso limite che il sistema di distribuzione dei voti, proporzionale con recupero dei resti, in questo caso allontana.

Nell’assemblea nazionale ci sarà spazio anche per un certo numero di delegati non eletti nelle primarie. Una cinquantina di componenti di diritto (dai membri della commissione nazionale per il congresso agli ex segretari alle capogruppo in parlamento), più i due candidati alla segreteria che non si sono «qualificati» per il ballottaggio aperto di oggi, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo e una piccola delegazione di loro rappresentanti. Lo statuto prevede questo diritto di tribuna in ragione di due delegati (un uomo e una donna) per ogni punto percentuale che il candidato ha raccolto nel voto degli iscritti se supera però il 5%. Dunque sedici per Cuperlo e in teoria nessuno per De Micheli che si è fermata al 4,3%. Ma pare che avranno un po’ di spazio anche i suoi. Tanto, come tutti i membri aggiunti a quelli eletti con le liste bloccate, non possono votare per la segreteria

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CRISI UCRAINA. Pubblicati i 12 punti della posizione cinese. I russi: «Apprezziamo». Zelensky: «Lavoriamoci». Ma contro il "position paper" di Pechino arrivano bordate americane: «I cinesi armano la Russia»

Piace a tutti il piano della Cina, in cui non c’è la parola «guerra

 

È difficile chiamarlo “piano di pace” se non contiene nemmeno la parola “guerra”. Il position paper pubblicato ieri dal ministero degli esteri sceglie la definizione di “crisi” ma rappresenta comunque un passo ufficiale della Cina, che propone al mondo la sua visione sul conflitto e sul mondo che dovrà sorgere dopo di esso. Nessun piano concreto per arrivare alla pace, ma una serie di concetti che mettono nero su bianco una visione di mondo in cui gli Usa non dovrebbero più perseguire “egemonia” e in cui tutti i modelli di sviluppo sono legittimi.

Il documento è stato accolto positivamente soprattutto dai due protagonisti della guerra. «Apprezziamo gli sforzi di Pechino e condividiamo le sue considerazioni», ha commentato il ministero degli esteri russo, che poi forza la lettura del testo, sostenendo che invita Kiev a «riconoscere le nuove realtà territoriali». In realtà, il primo punto del position paper è il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale. Passaggio che consente a Volodymyr Zelensky di dichiarare che l’Ucraina «ha bisogno di lavorare con la Cina» per trovare una soluzione. Vero che il testo non fa distinzioni tra aggressore e aggredito e che viene proposta una cessazione delle ostilità che non condanni Mosca, ma la vera novità degli ultimi giorni è che Pechino ora è disposta a parlare esplicitamente della vicenda. «Il fatto che la Cina abbia iniziato a parlare dell’Ucraina non è male», ha detto Zelensky.

Il secondo dei 12 punti del documento è quello del rispetto delle “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi”, principio legato nel testo alla propagazione della “mentalità da guerra fredda”. Scelta che chiarisce definitivamente che in questo caso la Cina si riferisce a Mosca, che sarebbe stata in qualche modo “costretta” a violare l’integrità territoriale ucraina dopo che le sue esigenze di sicurezza sono state ignorate da Stati uniti e Nato. Cioè coloro che gettano “benzina sul fuoco”, come spiegato anche in sede Onu in occasione dell’astensione (scelta come sempre anche dall’India) alla risoluzione che chiedeva il ritiro dell’esercito russo.

Ribaditi anche il rifiuto delle sanzioni e il no all’utilizzo di armi nucleari o alla sua minaccia. Un colpo agli Usa e uno alla Russia. Sul nucleare Pechino compie però anche un passo in più, chiedendo la sicurezza delle centrali che sono entrate a più riprese nel conflitto. I punti su export di grano e stabilizzazione delle catene di approvvigionamento sono funzionali a proporsi come garante di stabilità, in primis economica. Tema a cui sono sensibili in molti: di sicuro il Sud globale di cui la Cina prova a ergersi capofila, ma anche l’Europa. Proprio i paesi europei appaiono i principali destinatari del documento, così come dell’intervista ai media cinesi di Wang Yi, lo zar della diplomazia cinese appena rientrato dal grand tour tra Vecchio Continente e Mosca.

La richiesta è quella di svincolarsi dagli Usa e perseguire una politica estera più autonoma. Le ambiguità e il bilancino utilizzati nel position paper rendono però difficile all’Europa evitare lo scetticismo sulle intenzioni cinesi, acuite dalla controffensiva diplomatica americana. Anche ieri, Antony Blinken ha ribadito che Washington teme l’invio di armi letali cinesi alla Russia. Ipotesi ventilata anche dal tedesco Der Spiegel, che parla di trattative per la spedizione di droni kamikaze. “Falsità” per Pechino, che anzi sostiene che la pace in Ucraina sia resa impossibile dal continuo invio di armi statunitensi a Kiev.

La Cina sostiene anzi che gli Usa vogliano alimentare tensioni anche sullo Stretto di Taiwan. Il Wall Street Journal ha scritto che il Pentagono estenderà il programma di addestramento dell’esercito taiwanese, portando da 40 a quasi 200 il numero di consiglieri militari sull’isola. Un programma mai annunciato ufficialmente, ma di cui tutte le parti in causa conoscono l’esistenza. Washington sembra però disposta a parlarne più apertamente, così come non ha nascosto il viaggio di Joseph Wu, primo ministro degli esteri di Taipei a venire ricevuto per colloqui formali. Forse è anche per questo che è difficile trovare una pace sull’Ucraina: la partita è ben più ampia

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CRISI UCRAINA. All'ambasciata nel primo anniversario dell'invasione. Lega e Forza Italia non pervenute. E Prodi denuncia: «Gli Usa vogliono dividere l’Europa»

Solidarietà con l’Ucraina solo da Letta e Meloni. Conte si sfila: «Basta armi» Enrico Letta e l'ambasciatore ucraino Yaroslav Melnyk - foto Twitter

A metà di una giornata particolare, il primo anniversario dell’invasione russa, l’ambasciata dell’Ucraina fa sapere che solo le delegazioni di FdI e del Pd sono arrivate per portare la loro solidarietà. Quella del Pd era guidata da Letta e all’uscita il quasi ex leader ha sottolineato, non a caso, che «l’invio delle armi a un Paese aggredito è nel dna del Pd».

L’ambasciata segnala anche, per fare nomi, che non si è presentato nessuno della Lega, di Fi e del M5S. È un segnale preciso, non il primo e certo non l’ultimo, del nervosismo con cui Kiev guarda ormai all’Italia.

È una preoccupazione infondata se si guarda solo al palcoscenico della politica istituzionale, sul quale non figurano crepe. Il capo dello Stato Mattarella ha parlato di «un’aggressione come non se ne vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale». La presidente del consiglio ha inaugurato la giornata con un lungo messaggio via Tweet incandescente e calibrato per rassicurare Zelensky su tutti i piani. La premier condivide in pieno l’analisi di Kiev per cui se l’Ucraina avesse capitolato Putin avrebbe poi invaso altri Paesi. Afferma che «il mondo libero è debitore nei confronti delle donne e degli uomini ucraini».

NELLA RIUNIONE DEL G7 in teleconferenza, si sforza anche di più. Martella sulla necessità di «contrastare la narrazione di Putin» e fa in modo che la notizia filtri. Ufficialmente si allude al rischio che detta narrazione faccia presa in Africa, ma va da sé che Giorgia ha in mente località più vicine, tipo Arcore.

È quella fronda, non sempre silenziosa, che si manifesta anche attraverso la scelta di non portare personalmente la solidarietà all’ambasciata che preoccupa e irrita gli ucraini. Il leader dei 5S non la manda a dire: «La strategia che si sta perseguendo porta solo a un’escalation militare. Questa strada ci conduce ad armi sempre più sofisticate e a un conflitto incontrollabile». La spina però non è Conte, leader d’opposizione: sono l’uomo di Arcore e quello di via Bellerio che invece stanno in maggioranza, hanno voce in capitolo sul nodo essenziale delle armi e la alzano per frenare l’impeto di Giorgia.

ANTONIO TAJANI, il politico italiano che da giorni si dibatte nella posizione più scomoda, fa il possibile per nascondere le tensioni. Giura che per il Sovrano d’Arcore Putin «ha rappresentato una grande delusione» e tra i due nell’ultimo anno «non ci sono mai stati contatti». Commenta il piano cinese con accenti intransigenti sulla voce mancante, quella del «ritiro delle truppe russe». Il solo problema è che a parlare è appunto Tajani. Non Silvio Berlusconi, che invece tace.
Il silenzio del Cavaliere per la premier è una buona notizia, e anzi è stata lei stessa a insistere per il mutismo, nella telefonata “pacificatrice” di due giorni fa. Prevede che qualora parlasse i toni, se non i contenuti, sarebbero ben diversi da quelli di Tajani. Ma se sull’evitare risposte contundenti a Zelensky e nuove dichiarazioni incendiarie sulla guerra, nonostante l’anniversario, la tricolore l’ha spuntata, sull’eventuale invio dei caccia tanto Fi quanto la Lega, resistono.

IL PROBLEMA sinora non si è posto, in buona parte le polemiche di questi giorni sono chiasso mediatico. Però più prima che poi è probabile che si ponga, ove la decisione venisse presa dalla Nato. Alla fine anche Berlusconi e Salvini in questo caso si piegherebbero, ma non senza mettere allo scoperto le divisioni profonde nella destra, che solo l’interesse comune permette per ora di ricucire.

Le tradizionali lacerazioni della destra non sono l’unico campanello d’allarme. L’intervista rilasciata ieri al Corsera da Romano Prodi è in realtà una denuncia precisa, pur se in stile prodiano: l’ex presidente della Commissione europea accusa di fatto gli Usa di privilegiare i Paesi dell’Europa dell’est, approfittando della guerra, con l’obiettivo di spaccare l’Europa e indirizzarla secondo i propri interessi. Data l’autorevolezza della fonte è qualcosa in più di un semplice scricchiolio.
Senza contare il principale dato che scuote Kiev e probabilmente anche Washington: in Italia la maggioranza della popolazione è su posizioni ben diverse da quelle del governo dei falchi atlantisti e nasconderlo è sempre più difficile

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