È un altro giorno importante per la legalità internazionale nei Territori palestinesi occupati. Questo pomeriggio la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, che già sta valutando l’accusa di genocidio a Gaza rivolta dal Sudafrica a Israele, farà conoscere il suo parere consultivo in merito alle conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e dalle pratiche israeliane in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. In questi giorni il governo di Benyamin Netanyahu non ha fatto alcun riferimento pubblico a quanto comunicheranno oggi i giudici internazionali. Ma i giornali israeliani nei giorni scorsi avevano scritto di «preoccupazioni» nell’esecutivo che deve tenere conto anche delle decisioni che prenderà l’altra Corte dell’Aia, quella penale internazionale, a cui il Procuratore Karim Khan ha chiesto nei mesi scorsi di approvare il rinvio a giudizio per il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra. Non era mai successo prima che Israele e i suoi leader fossero messi sotto pressione così tanto dalla giustizia internazionale come in questi ultimi mesi.
In scena oggi è un procedimento non nuovo, che nasce da una richiesta contenuta in una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 30 dicembre 2022. I giudici internazionali daranno il loro parere sulla negazione da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, alla luce della prolungata occupazione militare, della colonizzazione dei Territori occupati nel 1967 e anche sulle misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status di Gerusalemme. Nel corso delle udienze tenutesi all’Aia tra il 19 e il 26 febbraio, sullo sfondo dell’attacco di Israele alla Striscia di Gaza, 50 Stati, hanno espresso le loro posizioni. Quasi tutti hanno denunciato l’occupazione israeliana e chiesto l’indipendenza immediata per i palestinesi. Alcuni hanno anche condannato «l’Apartheid israeliano» nei Territori palestinesi. Solo gli Stati uniti hanno insistito per una soluzione fondata su un negoziato bilaterale tra israeliani e palestinesi sebbene la trattativa tra le due parti, con la mediazione americana sbilanciata a favore di Tel Aviv, si sia dimostrata fallimentare negli ultimi 30 anni.
Nel suo precedente parere consultivo sulla Palestina del luglio 2004, la Corte internazionale di giustizia concluse che la costruzione del Muro da parte di Israele, potenza occupante, nel territorio palestinese occupato, incluso dentro e intorno a Gerusalemme Est, e il suo regime di insediamenti coloniali, era contraria al diritto internazionale. Il ritorno della Corte di Giustizia sulla scena mediorientale giunge mentre è ancora fresco il voto della Knesset che ha approvato a stragrande maggioranza una risoluzione che respinge la nascita dello Stato di Palestina. «Uno Stato palestinese costituirebbe una minaccia esistenziale per Israele e i suoi cittadini», afferma la risoluzione votata anche dal centrista Benny Gantz. Negando i diritti dei palestinesi su Gerusalemme, ieri il ministro della Sicurezza – e leader di destra radicale israeliana – Itamar Ben Gvir è tornato sulla Spianata delle Moschee. È la seconda visita del ministro sul luogo santo islamico dall’avvio dell’offensiva a Gaza. «Sto pregando e lavorando duramente affinché il primo ministro (Netanyahu) abbia la forza di non cedere e di andare verso la vittoria e di aumentare la pressione militare (sui palestinesi)». Ben Gvir in questi mesi ha minacciato di smantellare la coalizione di governo se Netanyahu firmerà un accordo di cessate il fuoco a Gaza e di scambio di prigionieri con Hamas.
Il leader dell’estrema destra può stare tranquillo. Netanyahu – che si prepara a partire per gli Usa dove vedrà Joe Biden e il 24 maggio parlerà davanti al Congresso – non ha alcuna intenzione di fermare l’offensiva: le bombe continuano a spianare Gaza e ad uccidere i suoi abitanti. Ieri le forze israeliane hanno colpito diversi campi profughi e Gaza City. I carri armati si sono spinti più in profondità a Rafah mentre una raffica di attacchi aerei ha ucciso 16 palestinesi a Zawayda, nei campi di Bureij e Nuseirat e nella sovraffollata Deir Al Balah, l’unico grande centro urbano a non essere stato invaso completamente. Due comandanti militari del Jihad islami sono stati uccisi in due attacchi aerei. Bombe e combattimenti hanno portato l’ospedale da campo della Croce Rossa internazionale a Rafah, dotato di 60 posti letto, al limite della capienza. «Le vittime di massa hanno messo a dura prova la capacità di risposta del nostro ospedale…È sempre più difficile portare aiuto a coloro che hanno subito ferite potenzialmente letali», avverte William Schomburg, della Croce Rossa a Gaza. Si è saputo ieri che Netanyahu non ha approvato la creazione di un ospedale da campo in Israele per curare i bambini di Gaza, gravemente feriti o ammalati, proposta dal ministro della Difesa, Yoav Gallant. Almeno duemila palestinesi, tra cui tanti bambini, attendono di andare a curarsi in Egitto, ma non possono farlo per la chiusura del valico di Rafah, occupato dall’esercito israeliano. Alcuni sono morti nell’attesa. Tra questi Fayeq uno dei tre «bambini farfalla» inseriti da parecchie settimane nella lista dei pazienti da evacuare in Italia dove era atteso dalla ong medica Pcrf
Con 401 voti a favore Ursula von der Leyen è di nuovo presidente della Commissione Ue. Determinanti i voti dei Verdi che ottengono qualche rassicurazione sul Green deal. Ma su guerra e migranti la posizione non cambia. Fdi vota no per «coerenza». Una sconfitta per Meloni che si ritrova una maggioranza spaccata
LA SOTTILE LINEA VERDE. La presidente nel suo discorso cerca di accontentare tutti. Standing ovation sulla critica a Orbán, convitato di pietra
Quarantuno e quattrocento uno: i numeri non mentono, neanche nella loro simmetria. Quarantuno sono i voti che hanno permesso a Ursula von der Leyen di essere rieletta per un secondo mandato di cinque anni alla guida della Commissione Ue. Quattrocento uno è il totale degli eurodeputati che si sono espressi a favore dell’Ursula bis, mentre i contrari sono stati 284, gli astenuti 15 e le schede nulle 7. Quattrocento era anche la somma dei deputati della coalizione Ppe-socialisti e liberali che sosteneva la rielezione. «Meglio dell’altra volta», scherza Ursula dopo il voto. Quindi ha avuto tutti i consensi che doveva? Più probabilmente ne ha avuti altri che si sono sostituiti ai franchi tiratori, ovvero almeno una parte dei 50 dei Verdi. Il voto è segreto, quindi dobbiamo stare alle dichiarazioni spontanee dei grandi elettori.
L’ALTRO FATTO È CHE si è finalmente risolto il lunghissimo balletto dei meloniani. Subito dopo la proclamazione, Nicola Procaccini ha dichiarato il no di FdI: «Votare a favore avrebbe significato andare contro i nostri principi». Poi però esclude ripercussioni sul commissario italiano e annuncia: «Vogliamo avere un rapporto estremamente costruttivo» con il nuovo esecutivo europeo.
In mattinata, la presidente della Commissione aveva tenuto un discorso di oltre mezz’ora dall’intento decisamente ecumenico, spaziando dall’economia alla sicurezza, dall’immigrazione all’allargamento dell’Unione fino ai temi sociali. Il lungo applauso finale, con tanto di standing ovation di una parte dell’Aula, è stato preceduto da un altro forse più fragoroso, nel passaggio di critica a Viktor Orbán, convitato di pietra del discorso per la rielezione.
La presidente non lo cita neppure pe
Commenta (0 Commenti)LA RISOLUZIONE. Sostegno a Kiev, anche i dem divisi. Tajani: «Contrari alle armi contro Mosca, ma FI vota a favore»
All’interno del Parlamento Europeo a Strasburgo - foto Ap
Eurodeputati italiani in tilt sull’Ucraina. La colpa è del meccanismo che permette ai gruppi di richiedere il voto per parti separate (in gergo split vote). Il nuovo parlamento ha votato ieri la sua prima risoluzione. Un atto non vincolante, ma dall’alto valore simbolico, dato che vi si ribadisce il «sostegno continuativo» all’Ucraina, approvato con 495 voti a favore, 137 contrari e 47 astensioni.
La maggioranza è ampia, ma con diversi distinguo al suo interno. Il Pd ha trovato indigesto il passaggio in cui si chiede l’eliminazione delle restrizioni all’uso delle armi occidentali fornite a Kiev contro obiettivi militari in territorio russo. Per questo, nel voto splittato, i dem si sono astenuti sulla prima parte della frase, mentre hanno votato contro la possibilità per l’Ucraina di colpire in territorio russo. Su questo c’è stata però l’astensione di Gualmini e Picierno.
«Abbiamo votato sì alla risoluzione nel suo complesso. Però sull’attacco militare in territorio russo non viene specificato lo scopo difensivo né la tipologia di obiettivi», precisa al manifesto l’eurodeputato Pd Dario Nardella. «Oltretutto non si spende una sola parola sull’iniziativa diplomatica europea, né su piano da 50 miliardi per la ricostruzione delle città», continua l’ex sindaco di Firenze. «Sembra più un documento Nato che del Parlamento europeo».
Sul passaggio delle armi oltreconfine votano, in difformità dal gruppo S&D, gli italiani, con anche i 5S in Left, mentre i Verdi si spaccano, con gli italiani contro e tutti gli altri a favore. Nel voto finale, oltre ai Patrioti a destra, risultano contrari al provvedimento i 5S più Lucano e Salis, i Verdi italiani Guarda, Orlando e Scuderi in difformità dal gruppo. Ma anche i Pd Tarquinio e Strada diversamente dal Pd, e la Lega che vota all’opposto degli alleati di governo Fi e FdI, entrambi a favore.
Caso a parte, quantomai in chiave tricolore, quello di FdI che eccepisce sul passaggio di condanna contro il premier ungherese Viktor Orbán. Fi invece si unisce al Ppe sul tema delle armi in territorio russo, quando le dichiarazioni del leader Tajani sembrano andare in direzione opposta. Una cosa è certa: con il voto della Lega nel gruppo dei Patrioti, la compagine di governo conferma le sue divisioni sul sostegno a Kiev
Commenta (0 Commenti)
Von der Leyen oggi alla prova dell’Eurocamera dopo una lunga caccia al voto. Barra a destra sui migranti, rassicurazioni ai Verdi. Ppe nervoso sull’ingresso degli ambientalisti in maggioranza, Socialisti e Liberali in guardia sulle aperture a Fdi. Meloni vorrebbe votarla, ma non ha deciso
GIOCO DI RUOLO. La premier punta sulla riconferma ma ancora ieri sera il sì di Fdi era in forse. Socialisti, Liberali e Verdi in allarme su suo sostegno
Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni al G7 - foto Ansa
Giorgia Meloni si dibatte in un labirinto, ma solo oggi sapremo se riuscirà a uscirne. Ieri per tutto il giorno le linee telefoniche tra Roma e Bruxelles si sono intasate alla ricerca di una soluzione che permetta a FdI di giustificare il voto a favore del ritorno di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Ma che sia stata trovata è ancora del tutto incerto. Chiedere ieri sera agli eurodeputati FdI se avessero deciso di votare pro o contro significava farsi ridere garbatamente in faccia: «Vorrei saperlo anche io». Una decisione diventata di giorno in giorno più sofferta verrà presa solo dopo aver letto le «linee guida», nelle quali la candidata riassumerà i contenuti del discorso programmatico che svolgerà poi in aula.
Probabilmente non ci saranno annunci ufficiali nemmeno a quel punto: qualcosa si capirà dagli interventi in aula prima del voto ma l’ufficializzazione arriverà solo nella conferenza stampa già convocata dai capidelegazione Carlo Fidanza e Nicola Procaccini per le 15, due ore dopo l’inizio delle votazioni che a quel punto saranno concluse. Fino a quel momento, come per tutta la giornata di ieri, bocche cucite e consegna del silenzio. Su tutto, anche sugli eventuali contatti tra la premier e la candidata. Il massimo che si strappa è un laconico: «Sono sempre in contatto».
ALMENO IN PARTE si tratta di una situazione tra le più classiche. La premier italiana vorrebbe votare per una presidente con la quale è andata sempre d’accordo invece di farsi sbalzare nel
Leggi tutto: Meloni nel labirinto scommette sul bis: ma il voto è in bilico - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)NEL 2016 SCRIVE LE MEMORIE DI FAMIGLIA, NEL 2020 NETFLIX NE FA UNA SERIE. COSÌ NASCE UN VICEPRESIDENTE . Subcultura forte, coesione interna, ostilità per i diversi: ecco la tribù bianca degli Appalachi
Non tutti possono vendere l’anima al diavolo, per la semplice ragione che bisogna avere qualcosa che Belzebù abbia voglia di comprare. Nel caso di J. D. Vance, il qualcosa c’era: non il suo servilismo verso Trump, non il suo talento di scrittore, ma una qualità che è molto rara nella politica americana: l’autenticità.
Vance è davvero cresciuto negli Appalachi, salvato da due nonni di scorza dura, bianchi poveri come ce n’erano, e ce ne sono, a milioni.
In Trump tutto è falso: la sua abilità di uomo d’affari, il suo patrimonio, la sua fede religiosa, le sue convinzioni politiche. È talmente bugiardo che giornalisti e oppositori perdono la bussola cercando di smentire le sue frottole. Quindi scegliere come candidato vicepresidente qualcuno che è davvero cresciuto in Ohio, davvero aveva una madre tossicodipendente e davvero è stato capace di descrivere tutto questo in Hillbilly Elegy è sicuramente la prova che il talento satanico di Trump è purtroppo ancora al lavoro.
Li chiamano Rednecks, oppure White Trash: sono bianchi, poveri e, in larghissima parte, maschi. Hanno, quasi sempre, un arsenale in casa, che torna utile quando i buoni pasto sono finiti e c’è bisogno di procurare un po’ di carne per la cena andando nei boschi vicini. Sono il popolo di Donald Trump, l’improbabile eroe politico della tribù bianca in rivolta.
Il viaggio per capire quanti sono e cosa vogliono può cominciare nel simbolo stesso della controcultura degli anni Sessanta contro cui si sono ribellati: Woodstock. E’ in questa cittadina dello Stato di New York, dove tra il 15 e il 18 agosto 1969 si tenne il più celebre concerto rock di tutti i tempi, che Donald Trump ha ottenuto il 64% dei voti nelle primarie repubblicane di qualche mese fa, ed è in contee come quella dove si trova Woodstock –rurali, spopolate, impoverite- che Trump otterrà i suoi migliori risultati in novembre.
Sono gli Appalachi, la catena montuosa che divide la costa orientale degli Stati Uniti dalle grandi praterie e dall’Ovest: una barriera naturale che culturalmente e politicamente sembra invalicabile oggi quanto lo era per i puritani sbarcati nel 1620. Montagne che ospitano una tribù bianca con una subcultura forte, coesa al suo interno, con rituali propri e una irriducibile ostilità nei confronti dei diversi, tanto più forte se si tratta di politici o di giornalisti.
Sono gli americani discendenti da antenati scozzesi e irlandesi che troviamo nella parte centrale dello stato di New York, in Pennsylvania, in West Virginia, in Virginia, in Kentucky, in Tennessee e ancora più a sud, fino in Georgia, Alabama e Mississippi.
Quest’anno se ne è parlato molto, e nei prossimi mesi se ne palerà ancora di più perché il curioso cocktail di misoginia, promesse impossibili e xenofobia offerto da Trump ha fatto presa su di loro. La loro ribellione ha frantumato il partito repubblicano, costretto ad accettare un outsider come candidato, cosa mai avvenuta in precedenza, e sta scuotendo anche il partito democratico, che ha scelto di nominare un puro prodotto dell’establishment come Hillary Clinton in un anno in cui sono più di moda i forconi che le borse Prada.
Della tribù bianca in rivolta parla un interessante, a tratti commovente, libro di J. D. Vance intitolato Hillbilly Elegy, una memoria di famiglia. Gli Hillbillies sono stati nel tempo boscaioli, minatori di carbone, operai negli altiforni di Pittsburgh o nelle fabbriche di Akron, muratori, meccanici, camionisti.
Sono stati sottratti alla miseria dal New Deal di Roosevelt e dalla Seconda guerra mondiale e sono stati fedeli per 40 anni al partito democratico. Poi il rifiuto della guerra del Vietnam e il ’68 li hanno catapultati nel campo repubblicano, per i 40 anni successivi e fino ad oggi.
Vance è un giovane avvocato che oggi vive in California ma è nato a Middletown, in Ohio, da un padre ben presto scomparso e da una madre tossicodipendente. E’ cresciuto con i nonni, una coppia di duri teenager scappati da Jackson nel Kentucky per sposarsi e cercare fortuna a Middletown, in Ohio, negli anni Quaranta (Johnny Cash ha dedicato a Jackson una delle sue canzoni più famose, che inizia: “We got married in a fever, hotter than a pepper sprout…”).
Non ebbero vita facile quelli che Vance chiama “Mamaw” and “Papaw” ma negli anni Cinquanta il midwest industrializzato dava lavoro, casa e sicurezza del futuro a tutti. Papaw lavorava all’Armco, uno dei giganti dell’acciao, e per decenni sembrò che il destino di figli e nipoti potesse solo migliorare. Poi le acciaierie cominciarono a chiudere, così come le fabbriche di automobili, come sa chiunque abbia visto Roger and Me di Michael Moore.
La deindustrializzazione portò con sé la desertificazione sociale: i privilegiati, i più abili, i più intelligenti, i più tenaci se ne andarono a Chicago, a Buffalo o a New York mentre la stragrande maggioranza restava attaccata a case che cadevano in rovina, quartieri dominati dalle gang della droga, lavori che duravano poche settimane o pochi mesi.
La religione, il nazionalismo, l’ostinazione non riuscirono a mantenere gli hillbillies in quella classe media che avevano creduto di avere raggiunto per sempre.
Vance è uno di quelli che ce l’ha fatta, il frutto di una famiglia che credeva nell’educazione e nel principale sistema di welfare che di cui Stati Uniti dispongono: l’esercito.
Dopo la scuola superiore Vance scelse per quattro anni i Marines, il che gli permise di andare all’università e poi alla Yale Law School, la fabbrica delle élite. Adesso è un avvocato benestante con moglie, bambini, e casa con piscina, però non ha dimenticato i nonni e la sorte dei 25 milioni di americani bianchi e sfortunati che vivono nelle 420 contee degli Appalachi e si preparano a votare per Donald Trump
Commenta (0 Commenti)Lo scorso 19 giugno la Tunisia ha dichiarato ufficialmente la propria Zona di ricerca e salvataggio in mare (Sar), un’area che i paesi comunicano alle Nazioni unite per rendere più efficienti i recuperi delle persone in mare.
NEI FATTI, si tratta di un tassello fondamentale per l’Unione europea e i singoli Stati membri, impegnati da anni nel tentativo di esternalizzare le proprie frontiere marittime e affidare a paesi terzi il controllo del fenomeno migratorio. Nel corso degli anni Bruxelles e l’Italia in particolare hanno fornito mezzi, equipaggiamenti e tenuto corsi di formazione alla Garde nationale tunisina, il corpo securitario che si occupa delle operazioni marittime, per aumentare le capacità d’intervento e intercettazione.
Oggi, in quel tratto di mare, anche attraverso le forniture messe a disposizione dalla sponda nord del Mediterraneo si moltiplicano le denunce nei confronti delle autorità di Tunisi, accusate da più parti di pratiche violente che hanno portato in alcuni casi alla morte diretta o indiretta di persone migranti di origine subsahariana. Accuse che vanno avanti da più di un anno, almeno da quando la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze lungo la rotta del Mediterraneo centrale.
Speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, apparato che dipende dal ministero degli interni e che da un anno si sta rendendo anche protagonista delle espulsioni di massa di migranti subsahariani verso le zone desertiche al confine con l’Algeria e la Libia. In alcuni casi non c’è solo la voce diretta di chi racconta.
Un’immagine satellitare – elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano – scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax, seconda città della Tunisia e zona dove si registra un alto numero di partenze, mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali.
LEGGI TUTTO L'ARTICOLO SU IL MANIFESTO
DA LÌ A QUALCHE ORA la maggior parte di loro si troverà espulsa in Libia e rinchiusa nei centri di detenzione. «Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua». Le parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a il manifesto ciò che è successo quella mattina,
Commenta (0 Commenti)